Articolo tratto da A. Fumagalli, “L’inganno della flat tax”,
pubblicato su Alfabeta2. Buona parte dei dati presentati fanno riferimento
allo studio del
Cadtm-Italia, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis,
Francesco Gesualdi.
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Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra diseguali”
(Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, Libreria
Editrice Fiorentina, Firenze, 1967)
Tra le immonde immagini del comizio sovranista di Salvini, svoltosi il 18
maggio a Milano circondato dalla sua cricca di accoliti di vari paesi europei,
ne spicca una dove alcuni esponenti del partito leghista mostrano fieri e
orgoglioso il numero 15%, facendo riferimenti all’aliquota che dovrebbe sancire
l’introduzione della flat tax, ovvero il passaggio ad un sistema di
tassazione proporzionale. Questa proposta, vecchio cavallo di battaglia di
Berlusconi, rappresenta il fiore all’occhiello della demagogia populista di
Salvini, l’unica probabilmente in grado di compensare il trauma psicologico che
il leader leghista ha avuto da piccolo, quando, inopinatamente, gli è stato
rubato il pupazzetto di Zorro.
L’articolo 53 della Costituzione della Repubblica Italiana stabilisce che:
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro
capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività”. Dunque il sistema fiscale italiano deve essere progressivo,
nel senso che in corrispondenza di una base imponibile più elevata, si dovrebbe
versare un’imposta proporzionalmente maggiore.
La progressività dell’imposizione fiscale è giustificata in base a criteri
di equità, soprattutto in presenza di un sistema universale di welfare e
garantisce una miglior e automatica redistribuzione del reddito: i più ricchi
pagano in proporzione di più potendo accedere gratuitamente ai servizi sociali
di base (istruzione, sanità, difesa, giustizia).
Il dettame costituzionale ha trovato applicazione solo nel 1974, con la
riforma Visentini, dopo ben 27 anni dal varo della costituzione. Negli anni
precedenti, quelli del cosiddetto “miracolo economico”, la tassazione era
applicata in base alla condizione professionale dei contribuenti. I
commercianti, gli agricoltori, i liberi professionisti, gli imprenditori, i
lavoratori dipendenti avevano un sistema di tassazione diverso, esito della
contrattazione con il sistema politico, all’epoca il regime democristiano. Era
evidente lo scambio politico-economico che ne conseguiva, consentendo al
partito di maggioranza di godere dell’appoggio elettorale di buona parte del
lavoro indipendente.
L’inesistenza di un sistema fiscale progressivo ha impedito che il fisco
svolgesse la funzione di “stabilizzatore automatico”, ovvero di rendere fattivo
quel principio secondo cui negli anni di crescita economica la pressione
fiscale (il rapporto tra l’ammontare delle tasse e il Pil) è destinata a
aumentare, e viceversa a decrescere in caso di recessione.
Dal 1946 al 1971, infatti, la pressione fiscale si è mantenuta più o meno
costante, intorno al 25-26%, a fronte di una crescita media annua del Pil
nominale del 6,7%. In presenza di progressività, la pressione fiscale
avrebbe dovuto invece aumentare di almeno 10 punti percentuali, portando allo
Stato italiano risorse aggiuntive pari a poco più di 80 miliardi di euro
(potere d’acquisto 2010) (dati ricavati dalla serie storica della Banca
d’Italia pubblicati dall’Istat).
Con la riforma Visentini si sancisce il principio “liberale” che “tutti
sono uguali di fronte al fisco”: un unico sistema di aliquote progressive viene
applicato, a prescindere dal cespite di reddito di provenienza (se da lavoro,
da impresa, da capitale, ecc.).
Al 1 gennaio 1974, quando entra in vigore la riforma, si contano ben 22
aliquote di prelievo fiscale sul reddito delle persone fisiche, con la più
bassa al 10% e la più alta che arrivava al 72%. Nel 1983, con il varo di una
prima riforma fiscale, la progressività viene ridimensionata: le aliquote
diventano nove, con la più bassa al 18% e la più elevata al 65%. In seguito
sono stati introdotti ulteriori cambiamenti, in generale tesi a ridurre il
grado di progressività del prelievo. Attualmente le aliquote di prelievo
fiscale sono 5, con la più bassa al 23% e la più alta fissata al 43% e
l’esistenza di una no-tax area per redditi inferiori a 8.174 euro l’anno. Nel
dettaglio, gli scaglioni sono i seguenti:
- nessun
aliquota fino a 8.174 euro di reddito da lavoro da pensione o da
dipendente (4.800 euro per i redditi da lavoro autonomo): no-tax area;
- il 23%
per lo scaglione di reddito compreso tra 8.174 e 15mila euro;
- il 27%
per lo scaglione di reddito compreso tra i 15mila e i 28mila euro;
- il 38%
per lo scaglione di reddito compreso tra i 28mila e i 55mila euro;
- il 41%
per lo scaglione di reddito compreso tra i 55mila e i 75mila euro;
- il 43%
per la parte di reddito che eccede i 75mila euro.
Risulta evidente da questo schema che la progressività è stata via
via limitata nel tempo e contemporaneamente sono state innalzate le imposte sui
redditi più bassi e ridotte quelle sui redditi più alti.
Due sono le principali motivazioni che hanno portato alla costante
riduzione della progressività delle aliquote.
La prima ha a che fare con il processo di deregolamentazione dei
movimenti internazionali di capitale, che ha permesso ai percettori di
redditi più elevati di stabilire la propria residenza fiscale lì dove
preferiscono e hanno convenienza e ha quindi spinto i singoli Paesi a farsi
concorrenza al ribasso sulle aliquote per persuadere i contribuenti più ricchi
a restare sul territorio nazionale. Si è così sviluppato un dumping fiscale che
oggi non rappresenta l’eccezione ma è la noma all’interno della
governamentalità neo-liberale.
Questa osservazione ci porta alla seconda motivazione, la più reale anche
se la più misconosciuta: ridurre le entrate fiscali al fine di tagliare
sempre più il finanziamento alla spesa pubblica.
Tale obiettivo non dichiarato è in continuità con le politiche di
austerity. Se nel recente passato il tetto alla spesa pubblica è stato dettato
dall’emergenza crisi, oggi, viene giustificato dalla necessità di abbassare le
tasse. Nell’ambito della campagna politica per le elezioni europee è questo il
nuovo mantra che tutti i partiti ripetono sino alla noia. Ovviamente, la
riduzione delle tasse – si proclama e si promette – va a beneficio dei ceti
meno abbienti, ma è proprio su questo punto che la proposta della flat tax
evidenzia tutto il suo inganno.
Per cogliere gli aspetti redistributivi del sistema fiscale è necessaria
un’analisi complessiva, partendo dal definire le tre grandi categorie che
costituiscono le entrate fiscali:
1. Le imposte dirette
colpiscono una manifestazione diretta della capacità contributiva come la
percezione di un reddito (Irpef, Ires, patrimoniali). I dati del 2017 mostrano
che quasi il 60% delle imposte dirette (pari 175,9 miliardi di euro) provengono
dai redditi da lavoro e da pensione. Il 20% (pari a 65,8 miliardi) dai redditi
di impresa. Il 7,3% deriva da redditi da capitale (pari a 22,1 miliardi, di cui
11,4 miliardi da tassazione alla fonte e 10,7 miliardi da Irpef). Riguardo alle
entrate patrimoniali, i redditi fondiari ammontano al 2,6% (7,9 miliardi) e le
entrate da patrimonio immobiliare sono poco meno di 21 miliardi (6,9%, di cui
16 da IMU comunale, 3,6 da IMU statale e 1,1 miliardi da Tasi). E’ immediato
osservare come il peso delle entrate patrimoniali sia irrisorio rispetto
all’ammontare della ricchezza patrimoniale italiana, che ammonta
complessivamente a più di 8.000 miliardi di euro. Tale risultato è anche
l’effetto che alcune entrate non entrano nel cumulo dei redditi, come per gli
introiti da interessi bancari (aliquota secca al 26% sui depositi), reddito da
affitto (21%), titoli di stato (12,5%). Non sorprende che questi redditi non
cumulabili favoriscono i ceti più ricchi, né si giustifica il fatto che i
redditi da interessi abbiano un aliquota assai elevata (26%) mentre i titoli di
stato (di cui solo il 15% è oggi in possesso delle famiglie, il resto da banche,
assicurazioni, investitori specultivi) sono tassati alla fonte al 12,5%.
2. Le imposte colpiscono
invece una manifestazione mediata della capacità contributiva come la
produzione, il trasferimento o il consumo dei beni (Iva). Più nel
dettaglio, il 62% delle entrate nel 2017 deriva dalla vendita al
dettaglio, il 16% dall’accisa sui prodotti energetici, 5% da tabacchi, 6% dal
gioco e il lotto, il 5% dalle imposto sul registro e bollo.
3. I contributi sociali
tassano i redditi da lavoro e sono specificamente destinati al finanziamento
delle principali prestazioni del welfare (pensioni, ammortizzatori sociali).
Essi definiscono il cuneo fiscale, sulla base del principio, oggi non più
sostenibile, che la sicurezza sociale debba essere finanziata non dalla
fiscalità generale (come dovrebbe essere in un mondo dove la vita viene messa a
valore), ma solo dai lavoratori e dai produttori.
In conclusione, riassumendo, i dati ci
dicono che in Italia nel 2017, fra imposte dirette e indirette, le entrate
tributarie sono ammontate a 513 miliardi euro (al netto dei contributi sociali,
pari a circa il 30% del Pil), ma solo 36 di essi, ossia il 7%, sono
riconducibili ad imposte sul patrimonio. Considerato che in Italia il
patrimonio privato, sia di tipo mobiliare che immobiliare, ammonta a 8.000
miliardi di euro, si può dire che il livello di tassazione del patrimonio è
pari allo 0,45%!
A tale gigantesca iniquità (che i sovranisti e i populisti alla Salvini, Le
Pen, Orban si guardano bene dal denunciare), si aggiunge il fatto che la
tendenza in atto in tutta Europa e in Italia è un inasprimento dell’imposizione
indiretta a scapito della progressività dell’imposizione diretta, voluta dalle
politiche di austerity. Dal 1973 a oggi l’Iva in Italia passa dal 12 al 22%.
Gli ultimi aumenti, in ordine di tempo, sono del 2011 e del 2013, quando l’Iva
è passata dal 20 al 22%. Nel luglio 2011, il Governo Berlusconi IV, nel
tentativo di risanare i conti pubblici e rassicurare gli investitori
internazionali, nonché per rispettare i vincoli di bilancio derivanti dal
Trattato di Maastricht, ha inserito nella manovra finanziaria di quell’anno la
cosiddetta clausola di salvaguardia. Essa prevede un aumento automatico delle
aliquote IVA (sino al 24,5% ) e delle accise qualora il governo non sia in grado
di reperire le risorse necessarie a finanziare la manovra stessa. Da allora, le
successive manovre di bilancio devono indicare come intendono soddisfare i
vincoli di bilancio (per esempio, contraendo la spesa pubblica o aumentando le
tasse). Insomma, se i vincoli di bilancio vengono sforati, la clausola di
salvaguardia scatta automaticamente, aumentando aliquote IVA e accise (benzina
e tabacchi, come ai tempi di Quintino Sella).
Sulla base dei dati Banca d’Italia, negli ultimi anni il peso relativo dell’imposizione
diretta, indiretta e di contributi sociali è rimasta più o meno costante. Le
prime due hanno lo stesso peso (intorno al 34-35%), mentre l’apporto dei
contributi sociali è di circa il 30%.
Se la clausola di salvaguardia viene disattesa, con il conseguente aumento
dal 22% al 24,5%, l’imposta sui consumi (Iva) diventa la principale imposta,
ponendo fine con successo ad un inseguimento (nei confronti delle imposte
dirette sul reddito) che dura da più di 20 anni.
Occorre ricordare che l’Iva è un’imposta proporzionale (è cioè
una flat tax), così come l’Ires (la tassa sui profitti), che è
stata progressivamente ridotta (era al 37% nel 1994) sino all’attuale valore,
fissato dal governo Renzi, pari al 24%.
Considerando, inoltre, che, con riferimento all’Irpef, le aliquote medie
crescono dal 23% al 31% per la fascia di reddito imponibile che va dai 13.000
euro ai 53.000 (dove si colloca la quota maggiore dei contribuenti) e, ai
partire dai redditi superiori ai 200.000 euro, l’aliquota media rimane
stabile intorno al 42%, di fatto possiamo affermare che l’attuale sistema
fiscale è già ampiamente caratterizzato più da proporzionalità che da
progressività
A ben guardare, la flat tax è quindi già operativa. Ciò
che intende fare il governo (e in particolar modo la Lega) non è dunque
introdurre la flat tax ma ridurne l’aliquota e estenderla
anche ai redditi più bassi.
In tal modo si può propagandare la riduzione dell’imposizione anche per i
ceti meno abbienti, ma nascondendo che i maggiori beneficiari saranno le
famiglie più ricche, mentre quelle che entrano nella fascia della no-tax area,
ovvero le più povere, non godranno di alcun beneficio. Si tratta di circa 10
milioni di persone. Per chi si trova nella area no-tax, il rischio è infatti
che tale area venga sostituita da una flat-tax al 15%.
In realtà la riduzione dell’imposizione per i ceti medio-bassi è tutta da
verificare alla luce dell’effetto sostituzione tra flat tax e
le attuali detrazioni fiscali, che rischiano di essere eliminate per compensare
la riduzione dell’aliquota.
Alcuni studi (vedi qui),
considerando diversi possibili scenari, concordano nell’evidenziare che: “La
riduzione di gettito sarebbe di circa 50 miliardi di euro. Metà circa di
questo risparmio andrebbe al decimo decile (il 10% più ricco, ndr.). Se
vogliamo identificare la “classe media” con i decili dal sesto all’ottavo, il
risparmio medio per queste famiglie sarebbe di circa 1.500 euro all’anno, 125
euro al mese per famiglia”.
Ecco allora svelati i reali intendimenti dietro la demagogia del “meno
tasse per tutti” (slogan che ha sempre un certo appeal elettorale): ridurre
il gettito fiscale per smantellare ancor di più lo stato sociale
e favorire un incremento della concentrazione dei redditi a
favore dei più ricchi.
da qui
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