venerdì 14 giugno 2019

Elezioni: Il vento populista ha fatto il suo giro - Marco Revelli



“Non poteva andare peggio”. L’abbiamo detto tra noi a caldo, nella lunga notte di Mentana. L’abbiamo scritto su questo sito il giorno dopo. Lo ripetiamo adesso a freddo (si fa per dire), dopo aver tentato di smaltire lo shock e dopo aver visto le prime analisi di flusso e le nuove mappe elettorali.
Lo diciamo a ragion veduta. In primo luogo perché più di un terzo dei votanti ha scelto non la Lega, ma la peggior Lega da quando essa esiste. La lega di Salvini e di Giorgetti, dei porti chiusi e dei rosari sventolati, dei 49 milioni spariti e del sottosegretario Siri difeso a oltranza. L’hanno votata sapendo tutto di ciò che era diventata, perché il Capitano non aveva nascosto nulla, anzi aveva ostentato con un certo compiacimento il peggio di sé: il disprezzo per la vita altrui (degli ultimi, dei deboli) e l’irrisione verso chi pratica la solidarietà (ricordiamo il sarcasmo nei confronti dell’elemosiniere del papa), le proprie amicizie in Casa Pound e la propria vicinanza agli amministratori corrotti, la tolleranza zero persino per la cannabis legale e la tolleranza piena per i pogrom metropolitani… Hanno votato, quel buon terzo di elettori, la ferocia mescolata al pessimo gusto, l’affarismo incrociato all’oltranzismo, l’ordine poliziesco in piazza reso compatibile con l’abbraccio agli ultras da stadio. L’hanno votato nonostante tutto: nonostante il papa e i santi sociali, le denunce dell’anti-corruzione e quelle degli analisti di mercato, le rivelazioni del giornalismo d’inchiesta e gli allarmi della stampa internazionale. Forse l’hanno votato proprio “per” tutto ciò, in una sorta di compiacimento della dimensione truce della vita pubblica scambiata per autenticità.
C’è poi un secondo motivo di costernazione senza consolazione, ed è che con questo voto l’onda populista che da almeno un quinquennio scuote i sistemi politici occidentali mostra, con devastante chiarezza, il proprio tendenziale approdo alla destra estrema. Il “vento populista”, potremmo dire, che si era dichiarato inizialmente al di là o al di sopra dell’antitesi destra-sinistra, chiude il proprio giro nella casella nera della destra non moderata. Soprattutto se chiamato alla prova del governo, il “nuovo populismo”, denominiamolo così – il populismo del terzo millennio, quello a vocazione maggioritaria -, si risolve in quel settore dello spazio politico dove da sempre si sono accampati quelli che un tempo si chiamavano i campioni della “reazione”. Perde, in sostanza, l’ambivalenza dell’origine, i tratti trasgressivi e non conformisti, in qualche caso persino libertari e libertini, da scapigliatura della politica, da destabilizzatori di tutte le oligarchie, e veste i panni rigidi della legge e dell’ordine, dell’autoritarismo e del principio gerarchico, dell’alleanza con le peggiori oligarchie degli affari e del potere, si chiamino mafie, massoneria o think tank globali, settori tradizionalisti della chiesa d’occidente o aspiranti dittatori venuti dall’est. Non è cosa nuova. Era successo anche col populismo delle origini, in particolare col People’s Party americano “virato” nel passaggio tra Otto e Novecento dal radicalismo sociale delle sue prime esperienze (quando vide tra i fondatori i sindacati operai e giunse a chiedere anche l’estensione del diritto di voto ai “negri” da poco liberati) a forme sempre più esplicite di antisemitismo, di razzismo e infine di collateralismo al corporativismo sindacale alla Gompers con neppur larvate simpatie fascistizzanti. In fondo, alla sfida del governo, nell’impossibilità per i populisti di mantenere fede alla radicalità delle promesse popolari e di mutare effettivamente le condizioni materiali del popolo, la tentazione di utilizzare la vecchia tecnica del capro espiatorio (che sia l’élite ebraica e la congiura dei Savi di Sion oppure la wildness dell’uomo di colore o il volto dello straniero migrante) è forte e di sicuro effetto sul piano del consenso “popolare”. Su questo terreno si può trovare sempre l’appoggio delle vere oligarchie del denaro e del potere… Avvenne l’altro ieri, avviene oggi. E fa paura.
Lo si vede quasi fisicamente, questo spostamento dell’asse centrale della galassia populista verso la peggiore destra osservando l’analisi dei flussi che in questi giorni le principali agenzie forniscono, con metodologie diverse ma con risultati sostanzialmente convergenti: la Lega di Salvini ha raddoppiato i propri consensi attraendo massicce ondate di voti, simmetricamente, da Forza Italia e dal Movimento Cinque stelle. Dal suo diretto competitor interno al centro-destra, quasi liquidato, e dal suo diretto alleato di governo nella coalizione giallo-verde trasformatasi di colpo in verde-gialla. Ha assorbito le energie degli altri due “populismi” su piazza, quello ormai decotto berlusconiano e quello fino alle politiche enormemente rampante “grillino”. Si vedano le dettagliate tabelle dell’Istituto Cattaneo, ottenute con tecnica di rilevazione raffinata, campionando attentamente i collegi elettorali in 5 città medio-grandi e sintetizzate col titolo: “Il Pd limita le perdite ma non attrae nuovi elettori. Il M5s ‘traghetta’ voti verso la Lega. Lega “pigliatutto”: conquista voti dall’alleato di governo, dai partiti di centrodestra e (qualche volta) anche dal Pd “. Per SWG più di un terzo di quel 48% di voti in più arrivato alla Lega rispetto alle politiche dell’anno precedente, il 17%, proviene dai 5 Stelle, il resto da Forza Italia (10%) e dall’astensione (14%). Il grosso del travaso riguarda lo spazio esterno alle aree metropolitane, le province, i piccoli centri, le periferie urbane, e soprattutto le due circoscrizioni del nord (nord-ovest e nord-est dove la Lega sfonda il muro del 40%) mentre al sud, dove i 5 stelle rimangono in media primo partito, prevale soprattutto l’astensione. E anche questo è un dato inquietante, perché la “fibrillazione dei margini” è oggi, sul piano non solo italiano ma occidentale, il fenomeno maggiormente destabilizzante dei sistemi politici democratici tradizionali. Sono i margini le aree telluriche da cui partono le vibrazioni che rivelano il sottofondo instabile delle nostre società e ne minano i muri portanti.
Per questo ho ascoltato con un certo sconcerto Nicola Zingaretti, la sera stessa, a proiezioni consolidate, dichiararsi “soddisfatto dell’esito del voto”. E sono rimasto allibito davanti alla fotografia dello stesso Zingaretti con Gentiloni, sprofondati in poltrona davanti ai video, il sorriso di trionfo sulle facce, lo spumante stappato a festeggiare… Che cosa? Quel risultato nefasto? Quell’esito che ci consegna alla peggior destra? Solo il terrore della possibile scomparsa incombente fino alla vigilia, può spiegare quel tripudio da sopravvissuti. Solo l’autoreferenzialità feroce del moribondo può giustificare quell’atteggiamento. E che dire di Matteo Renzi, che senza pudore proclama che se i 5Stelle di Di Maio sono stati dimezzati è merito suo? Come dire che se la Lega di Salvini ha raddoppiato lo si deve a lui (splendida la grafica di Makkox), cosa in buona misura vera, ma quella conseguenza letale non sta nella lista delle sue preoccupazioni, quella logica matematica non sta nella sua forma mentis tutta presa dall’ossessione di sé. L’Italia precipita in una condizione che non ha precedenti nella storia repubblicana per disumanizzazione e arroganza del potere e loro brindano e rivendicano a sé il merito… Loro, che ne dovrebbero essere l’antagonista e che dovrebbero disperarsi per l’esito delle urne che li consegna a una funzione improba, messi come sono nell’angolo del sistema politico, con numeri risicati e assenza di alleanze. Tutto questo ci dice quanto quel partito, rebus sic stantibus, sia al momento perduto per un efficace ruolo di opposizione alla deriva perversa in corso. Quanto inadeguato sia a fare da contrappeso al brutale spostamento a destra del baricentro politico del nostro Paese.
D’altra parte anche in questo caso l’analisi dei flussi parla chiaro (e ci consegna una diagnosi infausta): non solo, come detto da molti, la riconquista di una percentuale sopra la soglia fatidica del 20% dopo il minimo delle politiche del 2018 è in parte frutto di un effetto ottico, l’aumento dell’astensione, mentre in valori assoluti il PD ha continuato a perdere voti (circa 120.000 rispetto a quello che già era il “punto più basso”, ben 6.028.000 rispetto al 2014, il “punto più alto” ), ma ciò che colpisce di più è l’incapacità del partito passato dalla guida renziana e quella di Zingaretti di attirare nuovi voti o di riconquistarne: secondo il Cattaneo non intercetta pressoché nulla dell’impetuoso fiume in uscita dai 5Stelle (con l’unica eccezione di uno dei settori napoletani), nulla dalla frana di Forza Italia, soprattutto quasi nulla dall’astensione, il grosso delle new entries arriva dai figlioli prodighi di Leu cioè dall’old exit. Forse i geni della strategia e della tattica dell’ex nazareno contano sul generale autunno, sui vincoli europei alla finanziaria, sull’impennata dello spread permessa da Francoforte e sul possibile default economico che, sperano, spazzerebbe Salvini e l’intendente Di Maio come nove anni or sono spazzò Berlusconi. Forse contano sull’enorme volatilità dell’elettorato. Due fattori reali. Ma sul primo non so quanto sia desiderabile: un fallimento economico nazionale travolgerebbe non solo i governanti del momento ma tutti noi, non sarebbe un venticello di mezza stagione, sarebbe un ciclone devastante da cui uscirebbe probabilmente a pezzi ciò che resta del nostro assetto istituzionale, né è detto che la “rabbia popolare” non si sposti su nuovi, peggiori mostri. E quanto alla fluidità dell’elettorato è vero: gli elettori si muovono ormai come sciami impazziti alla ricerca di sempre nuove arnie, tant’è vero che nelle ultime tre tornate elettorali si sono succedute tra clamorose, e diverse, maggioranze, tutte caratterizzate da torrentizie convergenze di voti, quella di Renzi nel 2014, quella di Di Maio nel 2018 e quella di Salvini nel 2019. Tutte “plebiscitarie” e tutte tendenzialmente “effimere” (perché per Salvini dovrebbe essere diverso che per gli altri?). La delusione in politica è diventata un’arma di distruzione di massa di leaders e soggetti politici, e il voto di vendetta, quando le promesse si riveleranno vane, è sempre in agguato. Ma nonostante ciò, c’è poco da sperare che questo “vizio” dell’elettorato si trasformi in virtù e ci liberi dal dolore: sotto la superficie della preferenza politica per la Lega di Salvini c’è infatti un sostrato antropologico mutato, una nuova durezza dell’atteggiamento e del carattere degli italiani che spiega quel voto e lo rende così spaventoso. Un gusto per il “truce”, come si è detto, che ricorda i tempi peggiori e che ha direttamente a che fare con lo sfaldamento del tessuto sociale di questo Paese. Con le solitudini e le rabbie popolari virate in odio rancoroso e in egoismi ostentati. Quello zoccolo duro di cattivi umori non è soggetto al vento mutevole del voto politico, sta più in profondo e muta con i tempi a scorrimento lento o lentissimo delle “mentalità”.
Di quel magma sommerso sappiamo poco, troppo poco. Intuiamo che è il prodotto di risulta di un processo di sfaldamento dell’antica e consolidata composizione sociale, un tempo tenuta in forma dalla rigida gabbia di ferro del modello fordista, ora “lasciata libera” dal dissolvimento di quell’Ordine. Ma non possediamo (ancora?) il codice sorgente dei suoi inarticolati linguaggi, scomposti come in un caleidoscopio in una babele di segni parziali, indicatori di inedite solitudini, di antiche comunità implose e rimpiante, di oscuri presagi di declino che portano a rivalutare, spesso indebitamente, mitiche felicità o serenità di un passato perduto, facendo della nostalgia l’unico denominatore comune di un universo altrimenti irrimediabilmente frammentato e contraddittorio. E’ questo il senso dell’America great again, così come del rimpianto per l’United Kingdom ai tempi dell’Empire che ha guidato la Brexit, e del “”Prima gli italiani”, o “Prima i francesi”, o “Prima gli ungheresi”, prima, prima, prima là dove il terrore comune è quello di scivolare “dopo”… O di esservi già scivolati.
Infine, per completare il quadro, la Sinistra “a sinistra del PD” come si diceva un tempo. Ovvero: “dell’irrilevanza”. Anche in questo caso bisogna ripetere “peggio di così non poteva andare”. Meglio niente: molto meglio sarebbe stato che non ci fosse stato nulla, sulla scheda elettorale, piuttosto che questo “aborto politico”, scadente, logoro, messo su in fretta e furia in modo improvvisato e burocratico, tanto per dare una casa (provvisoria) a chi per quattro anni aveva lavorato a demolire quelle degli altri suoi vicini e aveva lasciato andare in declino la propria. Si sarebbe fatta miglior figura con l’assenza che con la presenza, se questa è servita a dare rappresentazione anche statistica alla propria inconsistenza. Se il terreno elettorale si trasforma in un letto di Procuste, un istinto di conservazione sia pur ridotto al minimo dovrebbe suggerire di tenersene alla larga… So benissimo che tra i reduci della lunga marcia della sinistra novecentesca verso il nulla sono numerosi quelli che pensano che sia comunque necessario esserci, per segnare il terreno e testimoniare una qualche sopravvivenza, perché chissà, prima o poi il tempo galantuomo darà ragione al merito. Ma so anche che non è così, anzi che è vero il contrario: a ogni sconfitta, tanto più se con cifre frazionali, a ogni giro in cui si rende visibile il declino, è un pezzo di fiducia che viene meno. Al giro dopo sarà peggio, e in quello successivo ancora di più: il patrimonio sempre più risicato di credibilità si estingue se il fallimento ripetuto ne conferma l’inutilità. Come chi al tavolo da gioco continua a rilanciare in perdita nella speranza di rifarsi accrescendo invece sempre più la misura delle proprie perdite fino alla rovina finale. Meglio farsi una buona volta una ragione del fatto che quel patrimonio di esperienza e di organizzazione non vale più: che quel linguaggio è andato fuori corso (insieme alle facce di chi del farsene portavoce ha fatto una professione), parla solo più ai pochi, antichi compagni di viaggio ma è diventato una lingua straniera nel nuovo territorio a cui siamo approdati. E’ un linguaggio di nicchia sempre più virtuale, mentre nel mondo reale i bisogni di quelli che in teoria dovrebbero costituire i referenti naturali di ogni sinistra sono conquistati da altre narrative, atroci e menzognere eppure comprensibili e ascoltabili, quelle appunto di una destra sempre più orrenda eppure presente nel sociale in modo sempre più intrusivo. Uscire dalle “casematte dei padri” (che sono crollate, come disse più di vent’anni fa Pietro Ingrao) per incominciare a frequentare “fisicamente” gli abitanti del nuovo mondo del disagio e della deprivazione (quello che dovrebbe essere il mondo sociale di ogni sinistra che si rispetti), frequentarli là dove abitano, dove vivono, dicono e maledicono, è la condizione vitale non so se per resistere, ma sicuramente per continuare a esistere con un minimo di rispetto di sé.


Nessun commento:

Posta un commento