L’emergere
della Responsabilità di Proteggere
Al vertice
mondiale ONU del 2005 fu formalmente avallata dai governi partecipanti con gran
fanfara la norma della Responsabilità di Proteggere (R2P). Il
raduno di rappresentanti diplomatici di stati sovrani dichiarò pure
l’intenzione di attuare tale asserzione di responsabilità collettiva per conto
della società internazionale istituzionalmente presente nell’ONU. Si usò il
seguente impegnativo linguaggio: “Nei paragrafi 138 e 139 del Documento d’Esito
del Vertice Mondiale 2005 (A/RES/60/1)
i Capi di Stato e di Governo hanno affermato la loro responsabilità nel
proteggere le proprie popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia
etnica e crimini contro l’umanità e accettato una responsabilità collettiva per
incoraggiare e aiutarsi vicendevolmente a mantenere questo impegno”.
Tale impeto,
e addirittura un po’ del linguaggio della R2P, derivavano dall’analisi e dalle
raccomandazioni della Commissione Internazionale sull’Intervento e la Sovranità
di Stato (ICISS) [V. il Rapporto della commissione ‘La responsabilità di
proteggere’] in risposta a diffusi appelli per la creazione di una cornice
normativa post-coloniale per trattare situazioni come quella esistita in Kosovo
prima della guerra NATO del 1999, che si reggevano su un fondamento umanitario
ma mancavano di autorizzazione ONU. L’idea centrale di R2P come espressa nel
Rapporto ICISS era prestare protezione a un popolo che patisse gravi danni
dovuti a ‘guerra interna, insurrezione, repressione o venir meno dello stato.”
Non era direttamente collegata alla presenza soggiacente dei quattro crimini
elencati nel Documento d’Esito quali induttori di eventuale applicazione di
R2P. C’è confusione dovuta a due cornici parallele associate alla norma della
R2P. La prima si riferisce alla R2P come reazione al verificarsi dei quattro
crimini specificati. La seconda è più generale riferendosi a gravi danni a
civili risultanti da un crollo e una frattura dell’ordine sociale interno.
Riguardo all’invocazione della R2P per un intervento coercitivo,
l’interpretazione ONU pare essere una decisione richiesta al Consiglio di
Sicurezza, il che vuol dire l’applicabilità del veto e che ciò mette in gioco
sia fattori geopolitici sia obiezioni di principio al calpestare la sovranità
territoriale.
Applicabilità
della R2P alla lotta nazionale palestinese
Senza
dubbio, parrebbe che la tragedia palestinese fosse un caso perfettamente
appropriato per l’applicazione della norma internazionale emergente a proposito
della R2P. E’ ormai assodato che il popolo palestinese nel suo insieme sia stato
vittimizzato da molti anni da un regime di apartheid imposto da Israele allo
scopo di mantenere uno Stato ebraico, che è un caso di crimine contro l’umanità
enumerato all’articolo 7 dello Statuto di Roma che stabilisce la cornice
costituzionale che governa le operazioni della Corte Penale Internazionale. Lo
spossessamento coercitivo durante la Guerra del 1948 di oltre 700.000 arabi che
vivevano in Palestina sovente da generazioni, in quanto combinato con il
diniego d’Israele di alcun diritto al ritorno per i palestinesi fuggiti o
scacciati, possiedono tutti gli elementi distintivi del crimine di pulizia
etnica. La persistente punizione collettiva imposta sulla popolazione civile di
Gaza viola non solo in modo flagrante l’articolo 33 della Quarta Convenzione di
Ginevra, ma è inoltre trattata dal diritto penale internazionale come un
crimine contro l’umanità o un crimine di guerra. In effetti, parrebbe che
Israele commetta con persistenza e flagranza tre dei quattro crimini
specificati nel Documento d’Esito quali inneschi per l’applicazione della R2P.
Inoltre,
viene comunque chiarito che il primo obbligo imposto agli stati membri ONU è
prevenire la commissione di tali crimini sul proprio territorio sovrano. Altri
stati sono tenuti secondo il Documento d’Esito ad aiutare gli stati ad
adempiere a questa “responsabilità di proteggere le proprie popolazioni.” In
altre parole, Israele in quanto stato era responsabile di prevenire la
vittimizzazione palestinese adottando politiche e pratiche coerenti con le
proibizioni di crimini contro l’umanità, pulizia etnica e crimini di guerra.
Non solo Israele ha mancato di fare così per periodi prolungati, ma affermò la
disponibilità a basarsi su tali crimini internazionali per sostenere il proprio
impegno incondizionato a imporre ad ogni costo uno stato ebraico su una società
prevalentemente non-ebraica, almeno se si valuta l’identità nazionale. Tali
intenzioni sono asserite con baldanza nella Legge Fondamentale dello
Stato-Nazione Ebraico (2018), che riservava il diritto all’auto-determinazione
nella Palestina esclusivamente al popolo ebraico. E’ la
priorità del progetto sionista a spiegare perché tali crimini internazionali di
frammentazione e controllo siano un dato saliente necessario e centrale
della governance israeliana. Tali dimensioni strutturali e
ideologiche stabiliscono la base per affidarsi alla R2P come essenziale per
superare la sofferenza e la vittimizzazione del popolo palestinese.
La logica
dei crimini israeliani e la rilevanza della R2P sono inconfutabili da obiettive
prospettive legali, morali, e politiche; poggia sul primato esistenziale del
nazionalismo, in quanto riflette le preferenze della maggioranza demografica,
come il fondamento del diritto di auto-determinazione durante il secolo scorso.
Nel caso della Palestina, quando fu emanata nel 1917 la Dichiarazione Balfour
Declaration, la popolazione ebraica della Palestina era stimata fra 5 e 8%,
aumentata per effetto dell’immigrazione ebraica a circa 30% al tempo della
risoluzione dell’Assemblea Generale sulla partizione (GA Res. 181) nel 1947. In
un’era di decolonizzazione non era più accettabile conseguire il controllo
delle minoranze mediante una strategia coloniale d’insediamento, e divenne
praticabile nel caso d’Israele solo basandosi su elaborate strutture oppressive
per controllare la resistenza nazionale rafforzata da iniziative solidaristiche
di un mondo non-occidentale in via di decolonizzazione. Il movimento sionista
s’impegnò anche pubblicamente a istituire la ‘democrazia’ in Israele oltre a
stabilirvi uno stato ebraico, il che significava che la presenza demografica
palestinese doveva essere sempre mantenuta al minimo possibile. Tale
combinazione di obiettivi etnici e politici condusse a un continuo processo di
pulizia etnica, in quanto integrate dal rifiuto di rimpatriare i profughi
palestinesi e permettere il ritorno degli esiliati. Affrontare la sfida della
resistenza palestinese portò a un affidamento quasi inevitabile d’Israele
sull’istituzione di un regime di apartheid, il solo in grado di assicurare al
sicurezza e le ambizioni di uno stato ebraico. [Per chiarificazioni e
amplificazione si veda il Rapporto ONU ESCWA “Israeli Practices Toward the
Palestinian People and the Question of Apartheid” [Pratiche
israeliane verso il popolo palestinese e la questione dell’apartheid] del
15 marzo 2017]. Tale assegnamento su strutture così delimitate razzialmente ha
avuto lo stesso obiettivo che l’apartheid sudafricana, mantenere un’etnia al
controllo della sovranità territoriale soggiogandone un’altra, benché la natura
delle strutture d’apartheid e gli assetti socio-economici dei due paesi fossero
ben differenti.
Sembra del
tutto evidente che da prospettive legaliste ed etiche avrebbe dovuto essere
invocate e applicata la R2P per alleviare e terminare la vittimizzazione
palestinese risultante dall’affidardsi israeliano a politiche e pratiche che
sono precisamente criminali, tali da dover suscitare l’impegno di quella
responsabilità di accordare una protezione internazionale. Questa valutazione è
rafforzata dai rifiuti israeliani di assumere misure in proprio per governare
il paese in maniera coerente con il diritto internazionale. Allora, come
interpretare il silenzio attorno alla R2P quando si tratta di applicarla
riguardo a Israele?
Il primato
della geopolitica all’ONU: legalisticamente e politicamente
La
spiegazione primaria è politica e geopolitica. Da una prospettiva politica il
consenso politico soggiacente all’approvazione della R2P non previde mai che la
norma si sarebbe applicate nelle sue modalità coercitive senza l’approvazione,
o almeno l’acquiescenza dei cinque membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza. In effetti la norma era soggetta a un veto geopolitico, che era
un’autolimitazione cruciale, almeno se concepita come un’estensione della responsabilità
ONU verso problematiche di stato/società interne. Meno astrattamente, era
chiaro che qualunque tentativo d’invocare la R2P riguardo a Israele sarebbe
stato bloccato dagli Stati Uniti, con ogni probabilità sostenuti dalla Francia
e dal Regno Unito, e magari perfino da Cina e Russia. Le potenze occidentali
avrebbero bloccato la R2P per i loro ‘rapporti speciali’ con Israele mentre
Cina e Russia sarebbero state caute rispetto a ogni tentativo di creare un
precedente che validasse un intervento forzoso negli affari interni di stati
sovrani. Questi due stati impararono la lezione quando permisero l’applicazione
della R2P in Libia nel 2011 astenendosi dall’iniziativa al Consiglio di
Sicurezza (SC Res. 1973) di paesi occidentali per montare un’impresa umanitari
d’emergenza proteggendo mediante una no-fly zone la
popolazione civile di Benghazi dalle armate libiche in avvicinamento.
L’operazione militare messa su dalla NATO, stando alle supposizioni per attuare
la risoluzione, quasi immediatamente divenne un intervento di cambiamento di
regime di portata molto espansa. L’intervento raggiunse il suo ame con la
brutale esecuzione del capo di stato libico, Muammar Gheddafi. I due lati della
diplomazia R2P si rendono evidenti comparando i casi della Palestina e della
Libia. Riguardo alla Palestina, invocare la norma è precluso dalla geopolitica,
mentre riguardo alla Libia l’uso della forza è stato legittimato da una
giustificazione di R2P, poi vanificata da un’espansione ultravirale della
portata dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza necessaria per
raggiungere fini geopolitici occidentali; l’ipotesi di primato della
geopolitica è dimostrata.
Un commento
conclusivo
Dovrebbe
essere evidente che nonostante il linguaggio universalistico, l’applicazione
della R2P è stata deliberatamente limitata a rarissimi casi d’esistenza di un
consenso geopolitico, e inoltre a situazioni dove le capacità richieste per
affrontare la sfida dell’effettiva protezione erano disponibili all’ONU. Se
l’intenzione era trovare un modo d’affrontare il tipo di situazione che
condusse la NATO ad agire al di fuori della cornice ONU per proteggere la gente
del Kosovo nel 1999, l’approccio R2P è poco meno che deludente. La Russia, e
probabilmente la Cina, avrebbero certamente posto il veto ad invocare la R2P in
una situazione che conteneva le implicazioni politiche del Kosovo anche se non
ci fosse stata l’esperienza disilludente libica riguardo all’autorizzazione di
scopi umanitari per applicare la R2P. Il primato della geopolitica pone tre serie
di ostacoli al ricorso alla R2P come mezzo di protezione della gente dalle
quattro categorie di crimini specifici del Documento d’Esito del Vertice: (1)
il legalistico diritto di veto disponibile ai cinque membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza; (2) lo schema politicamente amorfo di allineamenti cui
si dà precedenza rispetto agli impulsi ad applicare e far rispettare il diritto
penale internazionale; (3) la riluttanza rispetto all’ordine mondiale da parte
di parecchi stati guida a invadere ambiti di supremazia territoriale interna
degli stati sovrani.
Per queste
ragioni, è evidente che, in mancanza di imprevedibili cambiamenti nell’assetto
globale, è improbabile che s’invochi la R2P e che qualora la si invochi,
non ne venga bloccata l’applicazione riguardo alla vittimizzazione criminale
del popolo palestinese: triste dimostrazione della indisponibilità e incapacità
dell’ONU di accettare una responsabilità esistenziale per la protezione di
popoli gravemente vittimizzati da quegli specifici delitti in situazioni in cui
è lo stesso governo sovrano territoriale il colpevole o il sostenitore della
criminalità denunciata. Come mostra l’esperienza internazionale dal 2005, la
R2P in quanto innovazione ONU funziona primariamente come strumento geopolitico
e non supera in alcun mod oil genere di sfida alla Kosovo che era designate a
risolvere o a creare un’alternativa normative all’ ‘intervento umanitario’ nel
mondo post-coloniale.
Se c’è una
lezione da trarre dalla lotta palestinese, è questa. Non si cerchi alcun
sollievo in una futura applicazione della R2P, o in una diplomazia
inter-governativa o dell’ONU. L’unica prospettiva per por fine agli schemi
attuali di vittimizzazione criminale sta in una combinazione di resistenza
nazionale palestinese e d’iniziative di solidarietà globali. Una delle quali è
la Campagna BDS che raggiungerebbe un punto di ribaltamento se e quando fossero
ricalcolati fattori geopolitici e di auto- interesse nazionale israeliano come
effetto di pressioni da dentro e fuori Israele/Palestina. A tal punto una forma
democratica di coesistenza pacifica sostitutiva delle attuali strutture
d’apartheid verrebbe percepita come questione di auto-interesse come fu nel
caso del SudAfrica dopo che l’élite afrikaaner al governo concluse che alla popolazione
bianca sarebbe andata meglio in una democrazia multietnica costituzionale che
vivendo con sanzioni e illegittimità da stato d’apartheid.
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