venerdì 3 luglio 2020

Central Park fu costruito distruggendo un villaggio di ex schiavi neri - Joshua Evangelista




Se passeggiando per Central Park vi venisse voglia di farvi un selfie immersi nel verde con i grandi grattacieli nello sfondo, fermatevi un secondo. Prima di conquistare il vostro pubblico di Instagram attraverso l’immagine di uno dei luoghi più suggestivi ed evocativi del mondo, pensate che forse vi trovate sopra quello che fu uno dei primissimi insediamenti afroamericani degli Stati Uniti.
Si chiamava Seneca Village e la sua breve vita si compì tra il 1825 e il 1857. Si trovava tra l’82sima e la 89sima strada, nei pressi di dove oggi c’è il panoramico Summit Rock, a ovest del Great Lawn. Prima della costruzione del parco ospitò la prima significativa comunità di proprietari immobiliari afroamericani di Manhattan.
Una storia totalmente nascosta per i primi 150 anni di esistenza del parco, che è riemersa solo nel 2001 quando un piccolo gruppo di accademici fondò il Seneca Village Project e fece pressione affinché venisse installata una piccola targa per ricordare la comunità.
Stando al censimento del 1855 dello Stato di New York, Seneca Village era abitata da 264 persone e tra i suoi edifici c’erano tre chiese, una scuola e diversi cimiteri. Una piccola comunità in pieno fermento commerciale, che si stava piano piano intersecando con le attività degli immigrati ebrei, irlandesi e tedeschi. In due anni, tuttavia, l’insediamento sarebbe stato raso al suolo e la sua identità cancellata dalla creazione di Central Park. In un momento storico in cui da più parti emerge la necessità di rivedere le coordinate storico-urbanistiche delle grandi città a partire dal vissuto di chi le ha abitate, la storia di Seneca Village sta tornando alla ribalta come frammento di un mosaico di storie che meritano una nuova visibilità.
Il contesto
Seneca Village si era formata un periodo decisivo nel percorso di emancipazione dei neri di New York. Nel 1817, lo stato aveva approvato una legge che liberava le persone schiavizzate nate prima del 1799. La schiavitù venne abolita solo nel 1927, in ritardo rispetto a gran parte degli stati del Nord. Questo non equivaleva all’avere pieni diritti: i diritti di voto dei neri era subordinato al possedere proprietà per almeno 250 dollari (questo non valeva per i bianchi). Di conseguenza, solo 16 uomini di colore a Manhattan avevano il diritto di voto. Non solo, i neri erano costantemente in pericolo, le loro chiese venivano bruciate e le attività commerciali boicottate.
Fu in questo contesto che una coppia dell’Upper Manhattan, John ed Elizabeth Whitehead, nomen omen, vendette alcuni terreni nell’area dove sorse Seneca Village. Sappiamo che nel settembre del 1825 un tale Andrew Williams acquistò tre lotti. Altri sei furono acquistati dalla Zion Church, che costruì oltre alla chiesa anche un cimitero per neri. Secondo il New York Times, che riprende le parole dello storico Alexander Manevitz, le attività edilizie della Zion Church rientravano in un disegno politico che ambiva a stabilizzare le condizioni sociali ed economiche degli afroamericani.

C’era anche un’altra chiesa molto interessante, che venne spazzata via con la costruzione di Central Park. Era cattolica e si chiamava All Angels. Aveva una particolarità: qui neri e irlandesi (che pian piano avevano iniziato a far parte del villaggio) pregavano insieme e pare che venissero anche sepolti fianco a fianco.
L’urgenza di avere un parco
Intorno alla metà del XIX secolo l’alta borghesia newyorchese decise che la città avesse bisogno di un parco all’europea. New York stava crescendo vertiginosamente, la rivale Londra aveva i suoi “polmoni verdi” e un’urbanistica sviluppata in virtù della stratificazione sociale. Al contrario, il centro di New York era sempre più frequentato da migliaia di nuovi immigrati e cantieri polverosi e rumorosi. Secondo la storica Louise Chipley Slavicek, autrice di New York City’s Central Park (Chelsea House Publishers, 2009, p.17) la lobby che portò all’edificazione del parco era formata principalmente da “ricchi commercianti, banchieri e proprietari terrieri”, che desideravano un “luogo pubblico che fosse alla moda e sicuro, dove insieme alle proprie famiglie avrebbero potuto incontrarsi e passeggiare”.
Quando nel 1851 il sindaco Ambrose Kingsland firmò la delibera per l’edificazione di quello che sarebbe diventato il parco più famoso del mondo, c’era un problema: a Manhattan non c’era più spazio disponibile. L’unico verde rimasto era quello dei cimiteri, presi letteralmente d’assalto nei fine settimana per i picnic.
Così si decise di abbattere l’insediamento di Seneca Village a partire da una legge secondo la quale il governo può acquisire terreni privati ​​per scopi pubblici. Nonostante un’intensa attività legale, i proprietari delle case di Seneca Village non riuscirono a far valere i propri diritti di fronte a una campagna stampa che li descriveva come ladri e abitanti abusivi di un villaggio di negri.
Memoria e archeologia
Il gruppo del Seneca Village Project, formato per lo più da archeologi e storici, aveva iniziato mettere insieme reperti nella seconda metà degli anni ’90. Da allora il gruppo lavora senza tregua e nel 2011 è riuscito a ottenere il permesso per effettuare uno scavo archeologico a Central Park, attraverso il quale furono trovati frammenti di stoviglie, ossa di manzo, bottoni, bottiglie, pipe, uno spazzolino da denti e la suola della scarpa di un bambino. Viviamo nel paese di Pompei, Paestum e Tarquinia e quindi può sembrarci strano che siano necessari scavi per capire chi abbia abitato una città solo 150 anni fa. Eppure questi ritrovamenti (a onor del vero accompagnati da una ricca documentazione catastale) spiegano il valore simbolico di questo luogo. La demolizione di un minuscolo villaggio raso al suolo per costruire un luogo che sarebbe stato apprezzato da milioni di persone si colloca in una narrazione molto più ampia, come ha spiegato una delle fondatrici del Seneca Village Project, Diana Wall, partendo da una frase apparentemente priva di interesse scritta alla fine della placca commemorativa presente a Central Park: “I residenti e le istituzioni del villaggio di Seneca non hanno ristabilito la loro comunità in un’altra posizione”. Secondo Wall è qui la chiave di lettura: “Molti dei residenti rimasero a New York, ma non insieme. Questo è l’aspetto tragico: una volta c’era una comunità, poi è scomparsa”. C’è anche un altro aspetto rilevante: secondo lo storico Manevitz, sebbene nel 1855 il villaggio contenesse solo l’1 per cento della popolazione nera della città, il 20 per cento dei proprietari terrieri e il 15 per cento degli elettori neri risiedeva proprio lì.
Mettere le toppe, 150 anni dopo
 La Central Park Conservancy, l’organizzazione no profit che gestisce Central Park, lavora attraverso mostre e visite guidate per cercare di dare una nuova vita agli insediamenti presenti nel parco prima della sua edificazione. Il sindaco De Blasio ha spinto affinché si lavori a nuovi monumenti per onorare l’elite nera che abitava nell’area. Come i Lyons, una famiglia di attivisti neri che possedevano terreni ed edifici a Seneca Village. Un gesto importante, seppur estremamente tardivo, anche per ricordare i soprusi (e gli atti terroristici) che gli afroamericani subivano nella liberal Lower Manhattan. Del resto, spesso ci dimentichiamo che alla fine del 1700 New York City era uno degli epicentri del commercio di schiavi e che, probabilmente, dopo Charleston, Carolina del Sud, era la città con più africani in catene di tutti gli Stati Uniti.
Gli storici sanno ben poco di quello che è successo agli ex residenti. Trovare i pro-nipoti degli abitanti del Seneca Village è un’azione disperata. Sappiamo tutti che la storia non si fa con i se. Ma proviamo per un attimo a evadere questa regola: pensate a come sarebbe diversa New York se nel centro di Manhattan ci fosse un quartiere popolato da proprietari terrieri afroamericani.
Intanto, ora siete a Central Park: guardatevi intorno, godetevi il bellissimo parco e prima di farvi un selfie pensate a cosa abbia significato sradicare una esigua comunità di ex schiavi per permetterci di “passeggiare e incontrarci”.

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