Quando la
voce tonante del “marshall” del Congresso americano ha annunciato “the Pope of the Holy See”, nell’aula del Campidoglio di Washington che ospitava i deputati, i
senatori, i giudici della Corte Suprema e i vertici militari del Paese,
c’era benevola attesa, e un lieve,
diffuso imbarazzo. L’ho sentito dire dai commentatori americani e mi è
sembrato di percepirlo da spettatore che conosce il rito. Piccoli schiarimenti
di voce, e una sedia o due che si muovono. Poi il silenzio teso, che non è
tipico delle assemblee politiche. Salvo gli applausi, brevi e intensi ma
raramente comuni a tutti, e le ovazioni (sette) non tutte unanimi. Ma il silenzio è stato il vero tributo.
Quest’uomo
ha qualcosa da dire e bisogna ascoltarlo. C’era una sfida implicita
nell’evento. Nessun Papa ha mai parlato al Congresso degli Stati Uniti, e
benché introdotto come un capo di Stato, ci si aspettava che la sua sarebbe
stata una omelia ricca
di apprezzamenti, di ammonimenti, di incitamenti a sperare, insomma la
religione. Francesco invece ha parlato, col passo un poco rallentato dalla
lingua estranea e la voce appena sotto tono, in un luogo di voci stentoree. E
con le sue parole ben misurate e senza un solo inciampo o ripetizione, ha presentato al Congresso americano lo stato
del mondo. Il suo è stato un
grande discorso politico. E chi, fra i commentatori americani, ha
provato a usare l’argomento come rimprovero, si è trovato isolato. Il silenzio,
gli applausi quasi mai unanimi ma forti, le ovazioni non al Papa ma al leader
che sta attraversando un’epoca e il mondo, il pianto commosso e impossibile da nascondere dello speaker della Camera Boehner (cattolico, ma capo
di una destra rigida da cui, dopo aver ascoltato Francesco, ha deciso di
dimettersi) quando ha accompagnato il Papa per il saluto alla folla hanno
confermato la cosa strana e mai accaduta: chi ascoltava, da un luogo
privilegiato e potente, si è accorto di essersi spostato a un livello più alto
non perché religioso, ma perché ti mostra l’intero orizzonte di un’epoca e ti chiede di scegliere. Bello il
titolo del New York Times del 25 settembre: “Il Papa chiama ad
agire”, che dato il luogo, la sede e i protagonisti, mostra la qualità
straordinaria dell’evento.
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Il discorso
di Francesco è grande perché rovescia il discorso politico. Invece di
annunciare, raccoglie la voce di chi non ha la voce. Invece di accusare spiega
che ciascuno di noi è il nemico nel momento in cui diventa spietato e crudele
credendo di rimettere in ordine la civiltà. Invece di decidere che cosa è bene
o male, indica dei percorsi, e li segue insieme a chi lo ascolta. Nomina
Lincoln, che è la libertà,Martin Luther
King, che è il grande protagonista della nonviolenza ma anche del non
rassegnarsi, Dorothy Day,
la donna oggi ignorata da tanti americani, iniziatrice del Movimento dei
Lavoratori Cattolici per organizzare la difesa del lavoro anche quando lo
sfruttatore del lavoro era la Chiesa cattolica. E Thomas Merton che crea, nel discorso del Papa, due legami,
con il mondo della cultura che lo ha sempre riconosciuto come un grande, e con
quello del monachesimo contemplativo.
Bello il suo
elenco dei fondamentalismi da
cui stare lontani, quello religioso, che non è solo islamico ma anche
cristiano, anche cattolico, e quello del capitalismo, quando vuole trasformare
l’impresa in santuario, invece che riconoscere il luogo del rispettato lavoro
insieme. Importante, e d’ora in poi dottrina della Chiesa, la condanna del più
malvagio degli espedienti del potere: trasformare in nemico interno chi si
oppone e non sta al gioco.
Il rifiuto
della pena di morte giunge
inaspettata e a metà di un applauso di chi credeva che finalmente il Papa
stesse per parlare diaborto.
Invece, in nome della sacralità della vita umana, ha chiesto all’America di
abolire subito e per sempre la pena di morte. Ha voluto che la sua voce
portasse forza e risonanza mondiale a quella di chi, da decenni (i Radicali
italiani) ha iniziato e non ha mai smesso una campagna di liberazione dal boia
che continua anche adesso all’Onu. La condanna delle armi che portano morte e
si producono e si vendono con grandi profitti, detto in quel punto e in quel
modo del suo discorso, ha affrontato un ostacolo molto grande che tormenta la
democrazia americana, e a cui solo un leader come Obama ha il coraggio di
opporsi. L’altro, il tentativo di respingere l’immigrazione, lo ha affrontato
allargando le braccia, lo strano uomo in bianco in quella grande aula del
potere per dire: “Io sono un emigrante.
Sono nato da italiani sbarcati in Sudamerica. Voi tutti, in quest’aula siete
emigranti, anche se di diverse generazioni. Come possiamo decidere chi non
entra, chi lasciamo morire?”. Papa Francesco aveva di fronte un Congresso
ammirato, disorientato, incerto tra l’ovazione e il dissenso. Ma anche stupito.
Quel suo sguardo sul mondo era… è più grande della politica.
Il Fatto
Quotidiano, 27 settembre 2015
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