“Tutti noi abbiamo due memorie.
Una memoria che la morte ammazza e un’altra memoria, la memoria collettiva, che
vivrà mentre viva l’avventura umana nel mondo”.
E proprio la prima, che altro non è che la memoria individuale, è quella che
l’amministrazione comunale della città di León, nel Nord della Spagna, ha
voluto ammutolire ed uccidere qualche giorno fa, prendendo alla lettera queste
profetiche parole di Eduardo Galeano.
Sì, perché il tempo vola ad ali spiegate, e pare solo l’altro
ieri che il generalissimo Francisco Franco, con un colpo di stato militare, ha rovesciato la
Repubblica spagnola democraticamente eletta, mentre in realtà sono passati ben 79 anni. Così come sembra sia successo appena
stamane il colpo di stato naturale che ha rovesciato il mortalissimo Franco
Francisco e dittatura al seguito, quando invece di anni ne sono trascorsi già
40.
Di questo passo, tra uno o due colpi d’ala del volatile
tempo, ed altrettante generazioni, non rimarrà nessuno sulla faccia della terra
che possa guardarci dritto agli occhi della coscienza, come fa chi non mente, e
raccontarci a viva voce, come fa chi non dimentica: “Avevo allora tre anni. Una
notte prelevarono mia madre da casa e la fucilarono. Io e mio fratello
dormivamo. Non sapemmo più nulla di lei. Mio padre lo avevano ammazzato un mese
prima. Stanno ancora sotterrati nelle fosse.”
Oppure: mio padre “stava facendo un pisolino dopo pranzo a
casa dei miei nonni, a Escacena, quando sono apparsi cinque fascisti del paese.
Lo hanno messo in prigione ed è rimasto dieci giorni incarcerato. Il primo
giorno, col calcio del fucile, gli hanno rotto i denti.” Poi “l’hanno
ammazzato”. Quel giorno, “era un intero camion che trasportavano, pieno di
gente”, al muro del cimitero di Siviglia. “Là, ci sono migliaia di persone e
lui si trova in una delle fosse comuni, quella che chiamano il campo di
calcio”.
A parlare sono due ostinati vecchietti – Antonio Narváez, 82enne e Antonio Martínez, classe 1935 – , che ancora non
si rassegnano al silenzio dell’oblio e in cerca di giustizia, l’11 settembre
scorso, hanno testimoniato presso il tribunale di Siviglia al cospetto della
giudice argentina María Servini che, da Buenos Aires, istruisce il
caso per i delitti non prescrivibili di genocidio e lesa umanità commessi
durante il franchismo. Ai giudici spagnoli, infatti, non è dato ficcare il naso
tra i panni sporchi nazionali. La Ley de Amnistía del 1977, criticata recentemente anche
dall’Onu, glielo vieta. O sarà che tutto il mondo è paese, e anche da queste
parti bisogna che venga il dito forestiero a puntare le ovvietà che non
vediamo pur fissandole continuamente?
Il tempo, sappiamo, incalza e stringe e la memoria, quella di
una vita umana, è sincronizzata per svanire, nel migliore dei casi, con l’ultimo
respiro. Poco fiato rimane ai due Antonio per arrivare ad una conclusione,
seppur amara, e finalmente far riposare le loro tanto vissute ossa. La giustizia agognata è a portata di mano, di secchio e di
pala: chiedono che si salvino dall’anonimato di una fossa comune le poco
vissute ossa dei propri cari, affinché trovino riposo e pace, e che
dall’anonimato escano anche i carnefici e i mandanti di quelle esecuzioni, che
dalle tombe più sfarzose del camposanto fanno bella mostra dei loro nomi,
affinché si scuotano dalla pace in cui riposano.
Il governo di Spagna, però, temporeggia, rimanda, nega. Non
vuole verità e poco collabora con chi fruga tra le malefatte della dittatura.
Si fa scudo con la legge della memoria storica, forte della convinzione che la
memoria sia ad orologeria, e si impegna a far trascorrere frettolosamente la
storia, rimandandola oltre i tempi lunghi delle sue risoluzioni. Di acqua sotto
i ponti ne è passata tanta e, sperano loro, poca ne rimarrà ancora da far
passare se ciò che resta della memoria individuale avrà la durata di una o due
generazioni.
Acqua che, abbondante e puntuale come non mai, mossa dalle
scope e dagli idranti di zelanti spazzini mandati dal comune di León – che
giusto del Partito Popolare doveva essere – ha cancellato gli
oltre seimila nomi scritti con gesso bianco, nell’arco di un’intera giornata,
sulle mattonelle del piazzale antistante l’antico carcere di San Marcos,
per mano di un gruppo di artisti, volontari e familiari di vittime del
franchismo.
L’edificio, oggi trasformato in hotel di lusso e
priva di qualsiasi tipo di targa commemorativa, venne usato sin dal 1936 come
prigione per dissidenti e campo di concentramento di repubblicani, modello
esemplare di repressione e di durezza, vantando optionals altamente disumani
per i fortunati avventori, quali fame, mancanza di igiene, sovraffollamento e
botte continue.
Una gabbia di tortura a cinque stelle, insomma, dove sono
transitati migliaia e migliaia di uomini e donne, colpevoli di non leccare gli
stivali e i manganelli del potere, o di non pensarla come loro. Tra le pareti
del prestigioso grand hotel furono almeno 791 i fucilati, 1.563
coloro che ne uscirono con la scorta per essere fucilati altrove e 598 i morti
senza identità, quelli che nemmeno l’acqua delle autobotti comunali hanno
potuto diluire, perché giunti a noi già lavati del loro nome.
Ma l’acqua a cui è stato chiesto di spegnere la fiamma del
ricordo è la stessa che sfama la terra e ci disseta. È acqua santa e benedetta,
adorata dai cristiani e prima ancora dai pagani. Acqua sono le nuvole del
cielo, dove sonnecchiano i nostri dei, che con l’acqua ci castigano quando
smettiamo di sognarli. In una bolla d’acqua siamo nati tutti prima di nascere,
e di acqua son fatte le emozioni che sgorgano dagli occhi e bagnano la vita.
L’acqua è il sale quotidiano e il riflesso dell’eterno. Perché l’acqua non ha
tempo. Ma ha memoria. Memoria che non dimentica nell’arco di una o due
generazioni. E se oggi diluisce, dilava, cancella, spegne e se ne va, domani,
tra un anno, un secolo o mille, ritorna e ravviva, riporta, rivela e pulisce.
Chissà se ai parenti delle vittime del franchismo e di tutte le dittature, fermi e
determinati nell’attesa, il tempo darà la soddisfazione di veder fluttuare il
cadavere putrefatto dell’ingiustizia subita tra le correnti insidiose del fiume
della verità. Di una cosa possono stare certi: quel cadavere passerà, loro o no
presenti, perché di acqua è fatto il fiume, e se il tempo lascia scorrere
l’acqua, l’acqua non lascia scorrere la memoria. Infinita e paziente è la
memoria dell’acqua, che ha vissuto e vivrà ben oltre l’avventura umana nel
mondo.
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