A Yanar e alle mie sorelle in
Iraq e in Siria
Penso al listino del mercato delle schiave
sessuali dell’Isis in cui donne e bambine sono prezzate come il bestiame.
L’Isis ha dovuto calmierare i prezzi per timore di un calo del mercato: 40
dollari per le donne fra i 40 e i 50 anni, 69 dollari per le trenta-quarantenni,
86 per le venti-trentenni fino a 172 per le bimbe da 1 a 9 anni. Le
ultracinquantenni non compaiono neppure in lista, considerate prive di valore
di mercato. Vengono gettate via come i cartoni di latte scaduti.
Ma non ci si limita ad abbandonarle in qualche
fetida discarica. Prima probabilmente vengono torturate, decapitate, stuprate,
poi gettate su un cumulo di cadaveri in putrefazione.
Penso al corpicino in vendita di una bambina
di un anno, a un soldato trentenne corpulento, affamato di guerra e di sesso
che la compra, la incarta e se la porta a casa, come un televisore nuovo.
Cosa proverà o penserà scartando quella carne
bambina e stuprandola con un pene delle dimensioni del suo corpicino?
Penso che nel 2015 sono qui a leggere un
manuale online sul modo corretto di praticare la schiavitù sessuale, con tanto
di istruzioni e regole puntigliose su come trattare la propria schiava,
pubblicato da un’istituzione molto ben organizzata (l’Ufficio della schiavitù
sessuale) di un governo canaglia, incaricata senza alcun imbarazzo di
regolamentare gli stupri, le percosse, l’acquisto e la riduzione in schiavitù
delle donne.
Cito qualche esempio tratto dal manuale: «E’
permesso percuotere la schiava come forma di percosse disciplinari, ma è
vietato ricorrere alle percosse massacranti, percosse allo scopo di ottenere
gratificazione, oppure percosse come tortura. Inoltre è proibito colpire al
volto».
*
Mi chiedo come facciano i burocrati dell’Isis
a distinguere i pugni, i calci e lo strangolamento inflitti a scopi
disciplinari dagli atti mirati alla gratificazione sessuale.
Ogniqualvolta una schiava verrà picchiata
interverrà una squadra a verificare se c’è erezione? E come faranno a stabilire
cosa esattamente l’ha provocata? Certi uomini si eccitano soltanto nel momento
in cui affermano il proprio potere. E se verrà stabilito che il soldato
picchia, strangola e prende a calci la sua schiava per puro piacere, in che
modo sarà punito? Lo costringeranno a restituire la schiava perdendo il
deposito, a pagare una multa salata, o semplicemente dovrà pregare di più?
*
Penso alla facilità con cui si considera
l’Isis una mostruosa aberrazione quando in realtà è l’esito di una lunga serie
ininterrotta di crimini e disordini.
Le atrocità sessuali inflitte dall’Isis si
differenziano solo nella forma e nella prassi da quelle perpetrate da molti
altri signori della guerra in altri conflitti. Sconvolgente e nuovo è lo
sfoggio sfrontato e impudente che si fa di questi crimini pubblicizzati su
internet, lo sdoganamento commerciale di queste atrocità, le app in cui il
sesso è usato come mezzo di reclutamento. Le azioni e la rapida proliferazione
dell’Isis non nascono dal nulla, sono frutto di un’escalation legittimata da
secoli di impunità della violenza sessuale dilagante.
Mi vengono in mente le Comfort Women, le prime
schiave sessuali dell’era moderna, giovani donne asiatiche rapite nel fiore
degli anni dall’esercito imperiale giapponese durante la seconda guerra
mondiale e detenute nelle “stazioni di conforto”, per soddisfare le esigenze
sessuali dei soldati al servizio del loro Paese.
Le donne subivano anche 70 stupri al giorno.
Quando, esauste, non riuscivano più a
muoversi, venivano incatenate al letto e stuprate ancora come sacchi molli.
A queste donne la vergogna ha tappato la bocca
per quarantacinque anni e per altri venticinque hanno marciato e atteso,
vigili, sotto la pioggia, chiedendo giustizia.
Sono rimaste in poche ormai e non più tardi di
un mese fa il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha perso l’ennesima occasione
di fare ammenda.
Penso all’inerzia, al silenzio, alla paralisi
che ha bloccato e impedito le indagini e l’incriminazione nei casi di abuso
sessuale ai danni delle donne musulmane, croate e serbe stuprate nei campi
dell’ex Yugoslavia, delle donne e delle bambine afroamericane stuprate nelle
piantagioni del Sud, delle donne e delle bambine ebree stuprate nei campi di
concentramento tedeschi, delle donne e delle bambine native americane stuprate
nelle riserve degli Stati Uniti.
Ascolto le urla delle anime in pena delle
donne e delle bambine violate in Bangladesh, Sri Lanka, Haiti, Guatemala,
Filippine, Sudan, Cecenia, Nigeria, Colombia, Nepal e la lista si allunga.
*
Penso agli ultimi otto anni che ho trascorso
nella Repubblica Democratica del Congo dove un’analoga conflagrazione di
capitalismo rapace, secoli di colonialismo, guerra e violenza senza fine ha
lasciato migliaia di donne e bambine prive di organi, salute mentale, famiglia
o futuro. E penso che lo stupro ormai sia un’azione reiterata.
Penso che scrivo queste cose da vent’anni. Ho
provato a farlo con i numeri e con distacco, con passione e suppliche, con
disperazione esistenziale e anche adesso, scrivendo, mi chiedo se abbiamo
creato un linguaggio adatto a questo secolo che sia più potente del pianto.
Penso che le istituzioni patriarcali non hanno
saputo intervenire in maniera efficace e che le strutture come l’Onu
amplificano il problema nel momento in cui le forze di pacekeeping che
dovrebbero proteggere le donne e le bambine si macchiano a loro volta di stupri.
Penso all’operazione Shock
and Awe (colpisci e
terrorizza) e a come ha contribuito a scatenare questa, che potremmo definire Stupra
e decapita. Quando noi cittadini, a milioni, in tutto il mondo,
manifestavamo contro la guerra inutile e immorale in Iraq restando inascoltati,
eravamo perfettamente consapevoli del dolore, dell’umiliazione e dell’oscurità
che avrebbero generato quei letali 3000 missili Tomahawk americani.
Penso al fondamentalismo religioso, a Dio
padre, a quante donne sono state stuprate in suo nome, a quante massacrate e
assassinate. Penso al concetto di stupro come preghiera e alla teologia dello
stupro, alla religione dello stupro.
Penso che è una delle maggiori religioni
mondiali, in crescita con centinaia di conversioni al giorno, dato che un
miliardo di donne nella sua vita subirà percosse o uno stupro (dati Onu).
Penso alla velocità folle a cui si
moltiplicano nuovi e grotteschi metodi per mercificare e profanare i corpi
delle donne in un sistema in cui ciò che più è vivo, sia esso la terra o le
donne, deve essere ridotto a oggetto e annichilito per aumentare i consumi, la
crescita e l’amnesia.
Penso alle migliaia di giovani occidentali,
uomini e donne, tra i 15 e i 20 anni, che si sono arruolati nell’Isis.
In cerca di cosa, in fuga da cosa? Povertà,
alienazione, islamofobia, desiderio di avere un senso e un obiettivo?
Penso a quello che mi ha detto mia sorella,
attivista, in una conversazione su Skype da Baghdad questa settimana: «L’Isis
e’ un virus e l’unica cosa da fare con i virus è sterminarli». Mi chiedo come
si stermina una mentalità, come si bombarda un paradigma, come si fanno saltare
la misoginia, il capitalismo, l’imperialismo e il fondamentalismo religioso.
Penso, o forse non riesco a pensare,
prigioniera come sono della confusione mentale imperante in questo secolo. Sono
consapevole da un lato che l’unico modo per andare avanti è riscrivere da zero
la storia attuale, procedere a un esame collettivo approfondito e ponderato
delle cause che stanno alla base delle varie violenze in tutte le loro
componenti economiche, psicologiche, razziali, patriarcali, che richiedono
tempo e contemporaneamente so che, in questo preciso istante, tremila donne
yazide subiscono percosse, stupri e torture.
Penso alle donne, alle migliaia di donne che
in tutto il mondo hanno operato senza pausa per anni e anni, esaurendo ogni
fibra del loro essere per denunciare lo stupro, per porre fine a questa
patologia di violenza e odio nei nostri confronti, e la razionalità, la
pazienza, l’empatia, la mole della ricerca, le cifre che mostriamo, le
sopravvissute che curiamo, le storie che ascoltiamo, le figlie che seppelliamo,
il cancro di cui ci ammaliamo non contano, la guerra contro di noi infuria ogni
giorno più metodica, più sfacciata, brutale, psicotica.
Penso che l’Isis come l’aumento del livello
dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, le temperature assassine sia forse il
segnale che per le donne si approssima lo scontro finale.
*
E’ giunta l’ora in cui secoli eterni di rabbia
femminile si fondano in un’impetuosa forza vulcanica, scatenando la furia
globale della vagina delle divinità femminili Kali, Oya, Pele, Mama Wati, Hera,
Durga, Inanna e Ixchel, lasciando che sia la nostra ira a guidarci.
Penso alla cantante folk Yazida Xate Zhangali
che dopo aver visto le teste delle sue sorelle penzolare dai pali nella piazza
del suo villaggio ha chiesto al governo curdo di armare e addestrare le donne e
alle Sun Girls, la milizia femminile da lei creata, che combatte l’Isis sulle
montagne del Sinjar.
E in questo momento, dopo anni di attivismo
contro la violenza, sogno che migliaia di casse di ak47 cadano dal cielo sui
villaggi, i centri, le fattorie e le terre delle donne, questi guerrieri con il
seno che insorgono combattendo per la vita.
Sono arrivata così a pensare all’amore, a come
il fallimento di questo secolo sia un fallimento dell’amore.
Cosa siamo chiamati a fare, di che cosa siamo
fatti tutti noi che siamo in vita su questo pianeta oggi.
*
Che tipo di amore serve, quanto deve essere
profondo, intenso e bruciante.
Non un amore ingenuo sentimentale neoliberale,
ma un amore ossessivamente altruista.
Un amore che sconfigga i sistemi basati sullo
sfruttamento di molti a vantaggio di pochi.
Un amore che trasformi il nostro disgusto
passivo di fronte ai crimini contro le donne e l’umanità in una resistenza
collettiva inarrestabile.
Un amore che veneri il mistero e dissolva la
gerarchia.
Un amore che trovi valore nella connessione e
non nella competizione fra noi.
Un amore che ci faccia aprire le braccia ai
profughi in fuga invece di costruire muri per tenerli fuori, bersagliarli con i
lacrimogeni o rimuovere i loro corpi enfiati dalle nostre spiagge.
Un amore che bruci di fiamma viva tanto da
pervadere il nostro torpore, squagliare i nostri muri, accendere la nostra
immaginazione e motivarci a uscire infine, liberi, da questa storia di morte.
Un amore che ci dia la scossa, spingendoci a dare la nostra vita per la vita,
se necessario.
Chi saranno i coraggiosi, furibondi, visionari
autori del nostro manuale di amore rivoluzionario?
Parigi, settembre 2015
(*) Questo testo è ripreso da «Nonviolenza in
cammino» (del Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo: 0761
353532, nbawac@tin.it,http://lists.peacelink.it/nonviolenza) nella
traduzione di Emilia Benghi che presenta così Eve Ensler: drammaturga,
poetessa, sceneggiatrice e regista, docente universitaria, attivista per i
diritti delle donne, fondatrice e direttrice artistica di «V-Day», movimento
globale che combatte la violenza alle donne e alle bambine. Fra le opere di Eve
Ensler: «I monologhi della vagina», Marco Tropea, 2000; «Il corpo giusto», Marco Tropea, 2005; «Io sono emozione», Piemme, 2012; «Nel corpo del mondo», Il Saggiatore, 2015. Come è noto «I monologhi della vagina» ha ricevuto nel 1997 il prestigioso Obie Award, ed è stato portato
in scena con grande successo a Broadway (con star come Susan Sarandon, Glenn
Close, Melanie Griffith e Winona Ryder), a Londra (con Kate Winslet e Cate
Blanchett) e in diverse altre città del mondo. «V-Day», il movimento
internazionale contro la violenza su donne e bambine, di cui Eve Ensler è
fondatrice, dal 1999 ha finanziato più di 10.000 rifugi e programmi
antiviolenza (per informazioni: www.vday.org). Su sua iniziativa il 14 febbraio
2013 in tutto il mondo si è svolta la manifestazione «One Billion Rising» contro la violenza sulle donne (per informazioni:
http://onebillionrising.org) che da allora si ripete ogni anno. Cfr. anche il
sito di Eve Ensler: www.eveensler.org
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