Me lo vedo benissimo, come se fossi lì, come se la sua
figura si stagliasse con forza davanti ai miei occhi adesso. Mi capita spesso.
E’ come se ci fossimo già incontrati, come se i nostri sguardi si fossero
incrociati, almeno una volta, in un tempo lontano. I nostri sguardi, sì. Pieno
di riverenza il mio, denso di compassionevole tenerezza il suo.
Quindi adesso lui è lì,
davanti a me. Catapultato in mezzo alla folla di un piccolo centro del Baden
Württenberg, la mattina del 30 ottobre 1955, io pendo letteralmente dalle sue
labbra. Heidegger, il grande Heidegger, sta parlando ai suoi concittadini, radunati
a commemorare il 175esimo anniversario della morte di un musicista del luogo.
Non capiscono nulla, tutti questi contadini, ma lo ascoltano distrattamente,
sgomitandosi frasi come: “E’ diventato un grande professore, il buon Martin”,
oppure: “Ma non era un uomo di Hitler?”. Non lo capiscono, no, ma restano
appiccicati a quel suo sguardo ammaliante e profondo, che fa capolino da sopra
un paio di lenti scintillanti e nuove di zecca. “L’uomo del nostro tempo è in fuga dinnanzi al pensiero”
tuona pacato il Filosofo.
Ci scommetto, ne sono più che
certo: in questo preciso momento la sua mente sta sfogliando, rapida, le parole
di un altro gigante di quel pensiero da cui ormai l’umanità è in fuga. Sta rileggendo, dietro ai suoi occhi, un
breve e dirompente discorso del 1845, senza il quale il suo celebre Essere e tempo mai
avrebbe visto la luce. Sì, sono sicuro: Heidegger ha in mente Kierkegaard. Le sue parole commemorano, ricordano, ma ad un
tempo accarezzano uno dei tre discorsi edificanti del
grande Filosofo danese che, poco più che ventenne, lo aveva conquistato una
volta per sempre.
L’uomo è in fuga davanti al pensiero. E lo dice
proprio in quel momento, Heidegger. Centodieci anni dopo le parole di
Kierkegaard e sessant’anni prima di oggi. Oggi, sì. Oggi che quel pensiero
nemmeno più riusciamo a pensarlo.
Il Professore di Me kirch,
di fronte ai suoi disorientati compaesani, invita a distinguere pensiero calcolante da pensiero meditante. Da una parte il pensiero che fa i
calcoli, che considera le cose e le azioni a seconda della convenienza e della
loro utilità; dall’altra, il pensiero che riflette disinteressatamente, che
cerca il senso dell’esistenza, che si apre e si abbandona all’urgente Mistero
della vita. L’uomo è in fuga dinnanzi a questo tipo di pensiero;
dinnanzi alla meditazione, alla riflessione esistenziale, a quell’unico tipo di virtù che
lo caratterizza, che costituisce la sua stessa profondissima essenza. In altre
parole, drammaticamente: l’uomo è ormai in fuga da se stesso. E se Heidegger lo
constata sessant’anni fa, che ne è, oggi, di quella capacità meditativa, di
quella ricerca del senso, del rispetto per il Mistero che la nostra vita
costituisce, nell’era della tecnologia e dello sfruttamento selvaggio della
natura, delle sue risorse e di quella stessa umanità che dovrebbe concepirsi
come unico fine di sé?
“La rivoluzione della tecnica
che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a
stregare, ad incantare, ad accecare l’uomo così che un giorno il pensiero
calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ad essere effettivamente
esercitato“
Di questa fuga dalla
nostra essenza, di questa refrattarietà nei confronti del nostro stesso essere,
è responsabile una controcultura che insistentemente insegna a consumare, a
calcolare vantaggi e svantaggi, a non far nulla gratuitamente. Un’aberrante
mentalità “calcolante” che rivendica il primato della materia sulla forma,
dell’apparenza sull’autenticità, del progresso sulla felicità, della velocità
sulla qualità, della visibilità sull’essenza. Un contro-pensiero – che
Heidegger ha intravisto da lontano – che scaturisce da un’involuzione
programmata, e sviluppata fulmineamente nel corso di un solo secolo, dagli
interessi economici di chi tiene i fili del teatrino. Di chi non vuole certo
che l’uomo mediti, che rifletta sul giusto e sullo sbagliato. Di chi vuole in
noi la bestia che agisce, consuma, e che se utilizza il cervello non lo fa per
esercitare un controllo su di sé ma, al contrario, per calcolare il modo migliore
per ottenere il massimo del vantaggio economico.
E io? Io non ho voglia di
guardare sempre nella direzione verso cui mi impongono di voltarmi, quando
quelli strillano con i loro apparecchi infernali. Io preferisco fissare negli
occhi il Maestro. Preferisco leggere nel riflesso delle sue lenti tutta la
banalità e la pochezza che il nostro tempo ha saputo concentrare, da lui fino a
me, nel totale disprezzo per la vita, per il suo misterioso significato e per
il suo sacro rispetto. Preferisco meditare su cosa significhi, oggi, istruire
l’uomo di domani. Oggi che l’unico pensiero che la nostra misera scuola
propugna è proprio quel calcolare da quattro soldi. Quel contar debiti e crediti come
si stesse in banca, quello studiar solo “ciò che serve”, quel rifiutar discorsi
o temi che non si dimostrino in grado di assicurare una smagliante carriera, o
un ragguardevole conto in banca, o un minaccioso potere. Preferisco non
nascondermi quella generalizzata rinuncia ad educare, come se la morale,
persino dopo Kant, potesse ancora dirsi “relativa” e opinabile. Quel computare
il comportamento di uno studente nella media del suo profitto (e quindi nel suo
bel mucchietto di punti), come se anche l’agire correttamente andasse
perseguito solo in cambio di qualche vantaggio.
L’uomo è in fuga dal pensiero. Gli hanno insegnato a
sfuggirgli con gli effetti speciali, lo sballo, la moda, le automobili, i
cellulari. Glielo hanno insegnato quelli che tirano i fili, gli stessi che
fanno dell’esser ostentatamente giovani, costantemente visibili, sfacciatamente
ricchi e spudoratamente potenti, l’altare a cui ogni ragazzo debba imparare,
tra i banchi di scuola, a sacrificare progressivamente la sua dignità.
E se i nostri giovani non
hanno più nulla da meditare, se hanno
ormai rinunciato a leggere e a capire, se si curano solo di apparire, se –
ancora – vanno in brodo di giuggiole di fronte a una telecamera, disposti a
qualsiasi idiozia pur di farsi notare o ammucchiar “mi piace”, se si postano su
YouTube mentre guidano contromano in autostrada o si riempiono di birra finendo
giù dal balcone di un hotel durante una gita scolastica… Beh, se tutto questo accade è perché c’è una
precisa volontà.
Trasformarli tutti in una
mandria di patetici bovini che reagiscano d’istinto agli stimoli imposti dai
loro padroni e che si tengano, costantemente e prudentemente, in fuga dal pensiero.
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