I germanisti ci sperano sempre. In un qualche piccolo segnale di
ripresa dell’etica e della cultura tedesca. A maggior ragione dopo una lunga
sequenza di aspre critiche contro le forme che andava assumendo l’egemonia
germanica sull’Europa: dall’ultimo pamphlet di Ulrich Beck alla pesantissima
accusa rivolta da Jürgen Habermas al governo di Berlino di aver dissipato
in una sola notte (quella dell’imposizione del Memorandum ad Atene) l’intero
patrimonio di apertura e affidabilità europeista accumulato dopo la
fine della seconda guerra mondiale.
Sarebbe di fronte all’ «immane tragedia» dell’immigrazione che alla Germania si offrirebbe ora l’occasione del riscatto, l’opportunità di correggere l’egemonia finanziaria con una «egemonia morale tedesca», come si intitola l’editoriale di Gian Enrico Rusconi su La Stampa del 27 agosto.
Del resto quel grande fenomeno storico che nei nostri libri di testo viene designato con l’espressione alquanto sprezzante di «invasioni barbariche» nelle scuole di lingua germanica è chiamato die Völkerwanderung, ossia la migrazione dei popoli.
Una espressione che però difficilmente vedremmo oggi applicata al gigantesco spostamento di popolazioni da numerose aree devastate del pianeta verso i più ricchi paesi d’Europa. Sarà perché questi uomini e queste donne non sono guidati dai rispettivi monarchi, dai quali, al contrario, rifuggono o perché l’unica arma di cui dispongono è quella del numero, di uno squilibrio intollerabile e, infine, di una necessità storica.
Di qui l’illusione che si tratti di una «emergenza umanitaria» e non di un processo incontenibile destinato a mutare radicalmente la composizione e la cultura delle società europee. Certo, l’ecatombe quotidiana, via terra e via mare, e le sue orripilanti circostanze (i sepolti vivi nelle stive dei barconi e nei camion), rivelano e celano al tempo stesso.
Rivelano la violenza spropositata delle condizioni di «viaggio» imposte ai migranti da trafficanti e guardie confinarie e dunque l’«emergenza umanitaria», ma celano la natura strutturale e affatto contingente dei flussi migratori.
Ma vediamo più da vicino in che cosa consiste l’ «esempio morale» di Angela Merkel. Sfidando i fischi e gli insulti di un gruppo di contestatori ultranazionalisti in quel di Heidenau, cittadina teatro di ripetute violenze dell’estrema destra, la cancelliera ha condannato con toni duri razzismo e xenofobia.
Qualunque altro governante europeo non avrebbe potuto fare altrimenti. A maggior ragione di fronte a una escalation di attentati e aggressioni di matrice razzista o neonazista come quella che la Germania ha lasciato crescere al suo interno, spesso civettando con l’ideologia della «priorità nazionale».
Fin qui, dunque, nulla di straordinario. Più rilevante, invece, la decisione di sospendere la regola di Dublino che impone ai richiedenti asilo di rimanere nel primo paese dell’Unione in cui sono arrivati. Un buon motivo per far tirare il fiato ai paesi di confine come il nostro. Ma c’è un però.
La Germania apre le porte ai soli siriani, considerati la punta dell’iceberg «umanitario». Così facendo propone un modello che di morale non ha proprio nulla.
Se anche si assumesse come solo motivo di legittima fuga la guerra guerreggiata, in che cosa si distinguerebbe chi fugge da Mosul da chi fugge da Aleppo, da Kandahar o dallo Yemen?
Se il «paradigma siriano» può alleggerire una contingenza esso introduce tuttavia una delirante tassonomia dei migranti, suscettibile di continue partizioni: profughi di guerra (da suddividere sulla base di un qualche indice bellico?), rifugiati politici (da ripartire secondo un diagramma della repressione?), rifugiati climatici ( da individuare sulle statistiche meteo?), perseguitati religiosi (da definire secondo una misura della libertà di culto?) migranti economici (tanto peggio per loro).
Infine la distinzione più assurda di tutte: quella tra paesi sicuri e paesi insicuri. Un paese, infatti, non è parimenti sicuro o insicuro per tutti. Per un omosessuale l’Iran non è, per esempio, un paese sicuro, come non lo è l’Arabia saudita per una donna desiderosa di guidare un’automobile e l’elencazione potrebbe procedere all’infinito.
Possiamo immaginare i burocrati dei centri di identificazione e registrazione alle prese con questo ginepraio. Così, di fronte a tanta complicazione che manda in pezzi la stessa dimensione «umanitaria», il modello tedesco procede verso una ulteriore restrizione del diritto di asilo (del resto più volte ridimensionato nel corso degli ultimi anni) alla quale sta alacremente lavorando il ministro degli interni Thomas de Mazière.
A questo si affianca una politica di restrizione del welfare e degli strumenti assistenziali (per i migranti in primo luogo, ma non solo) tali da rendere il paese sempre meno appetibile per chi intendesse stabilirvisi.
Sarebbe di fronte all’ «immane tragedia» dell’immigrazione che alla Germania si offrirebbe ora l’occasione del riscatto, l’opportunità di correggere l’egemonia finanziaria con una «egemonia morale tedesca», come si intitola l’editoriale di Gian Enrico Rusconi su La Stampa del 27 agosto.
Del resto quel grande fenomeno storico che nei nostri libri di testo viene designato con l’espressione alquanto sprezzante di «invasioni barbariche» nelle scuole di lingua germanica è chiamato die Völkerwanderung, ossia la migrazione dei popoli.
Una espressione che però difficilmente vedremmo oggi applicata al gigantesco spostamento di popolazioni da numerose aree devastate del pianeta verso i più ricchi paesi d’Europa. Sarà perché questi uomini e queste donne non sono guidati dai rispettivi monarchi, dai quali, al contrario, rifuggono o perché l’unica arma di cui dispongono è quella del numero, di uno squilibrio intollerabile e, infine, di una necessità storica.
Di qui l’illusione che si tratti di una «emergenza umanitaria» e non di un processo incontenibile destinato a mutare radicalmente la composizione e la cultura delle società europee. Certo, l’ecatombe quotidiana, via terra e via mare, e le sue orripilanti circostanze (i sepolti vivi nelle stive dei barconi e nei camion), rivelano e celano al tempo stesso.
Rivelano la violenza spropositata delle condizioni di «viaggio» imposte ai migranti da trafficanti e guardie confinarie e dunque l’«emergenza umanitaria», ma celano la natura strutturale e affatto contingente dei flussi migratori.
Ma vediamo più da vicino in che cosa consiste l’ «esempio morale» di Angela Merkel. Sfidando i fischi e gli insulti di un gruppo di contestatori ultranazionalisti in quel di Heidenau, cittadina teatro di ripetute violenze dell’estrema destra, la cancelliera ha condannato con toni duri razzismo e xenofobia.
Qualunque altro governante europeo non avrebbe potuto fare altrimenti. A maggior ragione di fronte a una escalation di attentati e aggressioni di matrice razzista o neonazista come quella che la Germania ha lasciato crescere al suo interno, spesso civettando con l’ideologia della «priorità nazionale».
Fin qui, dunque, nulla di straordinario. Più rilevante, invece, la decisione di sospendere la regola di Dublino che impone ai richiedenti asilo di rimanere nel primo paese dell’Unione in cui sono arrivati. Un buon motivo per far tirare il fiato ai paesi di confine come il nostro. Ma c’è un però.
La Germania apre le porte ai soli siriani, considerati la punta dell’iceberg «umanitario». Così facendo propone un modello che di morale non ha proprio nulla.
Se anche si assumesse come solo motivo di legittima fuga la guerra guerreggiata, in che cosa si distinguerebbe chi fugge da Mosul da chi fugge da Aleppo, da Kandahar o dallo Yemen?
Se il «paradigma siriano» può alleggerire una contingenza esso introduce tuttavia una delirante tassonomia dei migranti, suscettibile di continue partizioni: profughi di guerra (da suddividere sulla base di un qualche indice bellico?), rifugiati politici (da ripartire secondo un diagramma della repressione?), rifugiati climatici ( da individuare sulle statistiche meteo?), perseguitati religiosi (da definire secondo una misura della libertà di culto?) migranti economici (tanto peggio per loro).
Infine la distinzione più assurda di tutte: quella tra paesi sicuri e paesi insicuri. Un paese, infatti, non è parimenti sicuro o insicuro per tutti. Per un omosessuale l’Iran non è, per esempio, un paese sicuro, come non lo è l’Arabia saudita per una donna desiderosa di guidare un’automobile e l’elencazione potrebbe procedere all’infinito.
Possiamo immaginare i burocrati dei centri di identificazione e registrazione alle prese con questo ginepraio. Così, di fronte a tanta complicazione che manda in pezzi la stessa dimensione «umanitaria», il modello tedesco procede verso una ulteriore restrizione del diritto di asilo (del resto più volte ridimensionato nel corso degli ultimi anni) alla quale sta alacremente lavorando il ministro degli interni Thomas de Mazière.
A questo si affianca una politica di restrizione del welfare e degli strumenti assistenziali (per i migranti in primo luogo, ma non solo) tali da rendere il paese sempre meno appetibile per chi intendesse stabilirvisi.
Quanto a «egemonia morale» non c’è davvero che dire. Risparmio e deterrenza
in un colpo solo. Ogni breccia nei muri visibili e invisibili che dividono
l’Europa è per molti un’occasione di salvezza, ma non bisogna perdere di
vista il fatto che il «paradigma siriano» risponde a una logica di governo e
di controllo del «diritto di fuga» che, sia pure sotto la pressione di eventi
estremi ( fomentati da politiche globali senza scrupoli), risponde pur sempre
alla volontà di garantire l’impiego profittevole e competitivo delle
«risorse umane».
(Il manifesto,
28 agosto 2015)
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