Chi sono i
rifugiati ambientali? Secondo Essam
El-Hinawi, che ha introdotto questo termine nel 1985, si tratta di
“persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat abituale,
temporaneamente o per sempre, a causa di una significativa crisi ambientale
(naturale e/o provocata da attività umane, come per esempio un incidente
industriale) o che sono state spostate in via definitiva da significativi
sviluppi economici o dal trattamento e dallo stoccaggio di scarti tossici,
mettendo così a repentaglio la loro esistenza e influenzando gravemente la
qualità delle loro vite”.
Un’altra
definizione da prendere in considerazione è quella dell’Oim(Organizzazione internazionale delle
migrazioni) che, si badi bene, parla di migranti ambientali e non di profughi.
Vedremo che in un diverso contesto la differenza è molto importante. Per l’Oim
(2007) i migranti ambientali sono
“persone o gruppi di persone che, per pressanti ragioni di un cambiamento
improvviso o graduale che influisce negativamente sulle loro vite o sulle loro
condizioni di vita, sono costretti a lasciare le loro dimore abituali o
scelgono di farlo, temporaneamente o per sempre, e che si spostano sia
all’interno del loro paese che oltre confine”.
Entrambe
queste definizioni collocano i profughi o i migranti ambientali fuori dal diritto alla protezione
internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, in
base alla quale le persone a cui spetta il diritto di asilo sono solo quelle
costrette a fuggire da un fondato timore di persecuzione (da parte di uno
Stato) per cinque ragioni: razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza
a un particolare gruppo sociale.
Successivamente
il diritto di asilo è stato esteso includendovi ogni tipo di violenza e, in
particolare, la guerra. In ogni caso il termine profugo (refugee) si applica solo alle
persone che varcano il confine del proprio Stato, mentre le persone che si
spostano al suo interno per cause di forza maggiore, siano esse la guerra, la
violenza o il degrado ambientale, sono chiamate (displaced
persons) e non possono ovviamente essere fatte oggetto di protezione
internazionale.
La
correttezza del termine profugo ambientale è stata comunque contestata
soprattutto sulla base di due considerazioni.
Primo, il
rapporto tra degrado ambientale ed esodo all’estero non è quasi mai diretto.
Prima di abbandonare il proprio paese le vittime di un processo di degrado
ambientale cercano per lo più altre strade: si spostano in un altro territorio,
spesso dalla campagna alla città o dalle regioni periferiche alla capitale.
Solo in un secondo tempo tentano la via dell’estero. Ricostruire l’eziologia di
questo esodo è pertanto molto difficile. “I disastri – afferma il professor
Roger Zetter dell’Università di Oxford, una delle massime autorità negli studi
su questo argomento – non spostano la gente. È la
loro vulnerabilità sociale e politica e la loro esposizione agli shock a
predisporli allo spostamento. L’ambiente non ‘perseguita’ come possono
farlo una dittatura o una guerra”.
Secondo, il
tentativo di estendere ai migranti ambientali la protezione internazionale
garantita dalla Convenzione di Ginevra, in particolare in un periodo in cui la
sua applicazione viene messa in forse da molti Governi, rischia di diluire e
compromettere anche la protezione accordata alle persone che la Convenzione
deve proteggere.
Altri
studiosi ritengono invece che i profughi ambientali siano effettivamente
vittime di una violenza,
quella dei cambiamenti climatici provocati
dall’Occidente e dei disastri prodotti dai suoi investimenti, che rendono tutti
gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi processi responsabili del
destino di chi è costretto a fuggire. Per il professor Francois Gemenne
dell’Università di Paris Vincennes, i profughi ambientali sono effettivamente
vittime di violenza: quelli propri dell’antropocene,
cioè dei cambiamenti climatici e dei disastri
ambientali provocati dall’Occidente, dai suoi consumi e dai suoi investimenti,
che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi flussi
responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per questo hanno diritto
a una protezione internazionale. Quale
che siano le ragioni che spingono sia i profughi di guerra che i migranti
ambientali a fuggire dai loro paesi, oggi sono entrambi esposti allo stesso
carico di maltrattamenti, violenza, sfruttamento, rapine e rischi mortali durante
il loro viaggio verso l’Europa, dato che nessun corridoio umanitario viene
predisposto per facilitare il loro arrivo.
Come si è
visto, le cause che spingono i profughi e i
migranti ambientali ad abbandonare il loro paese sono diverse. Più in
particolare esse rientrano in una delle seguenti categorie:
·
Eventi
ambientali estremi come terremoti, alluvioni. Uragani, siccità, carestia, ecc.;
·
Lento
degrado del suolo anno dopo anno, come desertificazione, innalzamento del
livello del mare, esaurimento degli acquiferi (tutti fenomeni che dipendono dai
cambiamenti climatici);
·
Interventi
umani che cambiano lo stato di un territorio, come miniere, pozzi petroliferi o
per l’estrazione del gas, appropriazione del suolo o dell’acqua, costruzione di
grandi infrastrutture come dighe, oleodotti, ferrovie, strade, impianti
turistici, sviluppo urbano o grandi manifestazioni come Giochi Olimpici o
esposizioni internazionali.
I profughi e
i migranti ambientali abbandonano i loro luoghi di origine secondo modalità differenti a seconda dei fenomeni che li hanno spinti a farlo.
Quando sono
in gioco eventi estremi e improvvisi, quasi tutti gli abitanti di un’area si
spostano insieme verso altre aree il più possibile vicine a quelle che
lasciano, per lo più all’interno dello stesso paese. Quando invece il fattore
determinante è un degrado graduale dell’habitat, l’emigrazione è in genere più
selettiva. Si spostano (da soli o in piccoli gruppi) solo alcuni membri di una
famiglia o di una comunità, in genere giovani, spesso i più istruiti e persino
i più benestanti, anche perché devono sostenere i costi del loro viaggio,
tutt’altro che indifferenti, con le risorse delle loro famiglie o con quelle di
parenti che si trovano già all’estero e che li attendono. Spesso, prima di
imbarcarsi in un viaggio rischioso verso l’Europa, raggiungono una città o la
capitale del paese, dando origine a nuovi slum. Il loro obiettivo principale è
guadagnare e mandare del denaro a casa per integrare le scarse risorse delle
loro famiglie. Il modello di migrazione seguito dalle persone cacciate dalla
costruzione di un’infrastruttura o da qualche altro progetto di sviluppo
riproduce quello delle persone colpite da un evento estremo, anche quando il
loro trasferimento è organizzato da un’agenzia di governo. Il modello della
gente che fugge da una guerra è invece spesso simile a quello seguito dalle
persone cacciate dal degrado del loro habitat, anche quando la loro fuga assume
le caratteristiche di una valanga, come oggi in Siria.
In entrambi questi schemi di esodo, la maggioranza delle persone desiderano
tornare prima o poi da dove sono venuti, anche se pochi riescono poi a farlo.
Improvvisi disastri ambientali o lento degrado di un habitat sono spesso causa
di conflitti armati o di guerre, perché un ambiente immiserito riduce le
risorse di una comunità che vive di un’economia di sussistenza, inducendo
gruppi etnici o armati ad accaparrarsi quel che resta a spese di altri gruppi
anche con le armi. È questo, per esempio, il caso del confitto che coinvolge
Boko Haram nel nordest della Nigeria,
o di quello che aveva devastato il Ruanda.
Spesso l’economia nazionale o le politiche del Governo non sono in grado di far
fronte alla rapida crescita di conglomerati urbani provocati da una migrazione
interna. È questa una situazione che sfocia facilmente in rivolte urbane che,
in un contesto vulnerabile, possono poi esplodere in una guerra aperta,
soprattutto se delle potenze straniere cercano di trarre vantaggio dalla
situazione per raggiungere i loro scopi.
È questo il
caso della Siria: alle origini della guerra che la
sta devastando ci sono anni di siccità che avevano strappato un milione e mezzo
di contadini dalle loro terre, facendoli confluire verso città già
sovraffollate. Qui, in una fase di radicalizzazione e internazionalizzazione
del conflitto, l’obiettivo principale dello Stato islamico è stato quello di
accaparrarsi le risorse strategiche del paese: in particolare i pozzi
petrolifere e soprattutto le risorse idriche attraverso il controllo delle
dighe. Tornando a una visione di insieme, le seguenti carte dell’Africa
centrale e settentrionale – prese dalla relazione di Grammenos Mastrojeni al
convegno Il secolo dei profughi ambientali?, Milano, 24.9.2016 –
mostrano come ci sia una sovrapposizione
quasi completa tra le aree segnate da degrado ambientale (1), i paesi coinvolti
in una guerra o in un conflitto armato (2), le aree colpite da una carestia (3)
e le zone da cui proviene la maggioranza dei flussi migratori (4); a riprova di
quanto sia difficile distinguere i profughi di guerra da quelli cacciati da un
disastro ambientale. È sbagliato considerare questi conflitti questioni
puramente regionali. Il peggioramento dell’ambiente globale e l’allargamento
delle aree gravemente colpite dai cambiamenti climatici provocano un conflitto
crescente tra i paesi “sviluppati” e la moltitudine dei profughi che cercano la
sopravvivenza in paesi meno coinvolti dai cambiamenti climatici. Un documento
prodotto dal Pentagono già nel 2004 così prospettava il futuro che ci attende:
Le prossime
guerre saranno combattute per ragioni di sopravvivenza.
Nei prossimi venti anni diventerà evidente un
sensibile calo della capacità del pianeta di sostenere la popolazione
esistente. Milioni di persone moriranno a causa di guerre o carestie, finché gli
abitanti del pianeta non saranno stati ridotti a un numero sostenibile. I paesi
più ricchi, come gli Stati uniti e l’Europa si trasformeranno in “fortezze
virtuali” per impedire l’arrivo di milioni di migranti espulsi dalle loro terre
sommerse o non più in grado di produrre cibo per mancanza di acqua. Ondate di
profughi in arrivo via mare creeranno gravi problemi. Rivolte e conflitti
finiranno per spezzare l’Africa e l’India. I Governi incapaci di garantire le risorse di base e
i servizi essenziali e di difendere i propri confini verranno spazzati via dal
caos e dal terrorismo.
Ma quanto sono i migranti o profughi ambientali? Global Estimates calcola che
dal 2008 a oggi siano stati circa 28,5 milioni ogni anno. Un’altra fonte
sostiene che solo nel 2015 ci siano stati 27,8 milioni di displaced persons,
19,2 dei quali a causa di calamità naturali e 8,6 a causa di conflitti e
violenza; L’Oim prevede 250 milioni di profughi ambientali al 2050.
Significativo il numero dei profughi provocati da progetti di sviluppo: in
Cina, tra il 1950 e il 2015 circa 80 milioni. In India 65 milioni, di cui solo
il 17 per cento sono stati ricollocati in modo più o meno appropriato.
Ecco alcune
cifre di spostamenti provocati da progetti di sviluppo ed eventi organizzati
dall’uomo (questi dati sono ricavati dal libro Crisi ambientale e migrazioni
forzate, prodotto dall’associazione A Sud, Roma, 2016).
Dighe
Three Gorges
dam (China): 1,2 million
Danjiangkou
dam (China): 340.000
Narmada
(India): 3.200 dams, 250.000
Upper
Krishna dam (India): 176 villages, 93.200 families, 300.000
Shuikou and
Yantan dam (Cina): 180.000
Itaparica
dam (Brasile): 40.000
Kedung Ombo
dam (Indonesia): 32.000
Nangbeto dam
(Togo): 10.600
Eventi
Olimpic
games Seul (1988): 720.000
Olimpic
games Bejing (2008): more than 1 million
Expo Shangai
(2010): 400.000
Santo
Domingo: 500 year from Discovery of America (1992): 180.000
Quali sono le politiche dell’Unione Europea nei
confronti dei profughi?Schematizzando
molto per motivi di tempo si può dire quanto segue: L’Europa deve riuscire a
respingere il maggior numero possibile di profughi. Lo fa distinguendo tra
profughi che hanno il diritto di chiedere asilo in base alla Convenzione di
Ginevra perché fuggono guerre o persecuzioni, e “migranti
economici”, che non hanno quel diritto e devono essere rimpatriati. I
profughi ambientali rientrano in questa seconda categoria.
La selezione tra profughi di guerra e migranti
economici viene effettuata negli sulla base dei paesi di origine, classificati
in sicuri e non sicuri. Paesi come Afghanistan, Mali, Niger, Nigeria, Sudan,
Etiopia sono considerati sicuri e i profughi di quei paesi sono considerati
migranti economici e sono costretti al rimpatrio. Per
promuoverlo vengono stipulati degli accordi con i loro Stati di origine a cui
sono versati miliardi di euro in cambio di questa riconsegna. Ma vengono anche
dotati di armamento militare o strumenti di sorveglianza e recentemente, come
viene prospettato per il Niger, si progetta il trasferimento in loco di un
contingente militare per bloccare i flussi. Respingere i profughi
tra le braccia degli aguzzini da cui cercano di fuggire significa esporli al
reclutamento delle loro formazioni armate, estendere i fronti di guerra,
rendere inabitabili per tutti i loro paesi, come lo sono oggi gran parte della
Libia e i territori in mano allo Stato islamico. Costituire l’Europa in
fortezza può rendere difficile penetrarvi, ma rende anche impossibile uscirne,
perché l’intero continente sarà sempre di più circondato da guerre e bande
armate. Ma le politiche di respingimento accrescono
anche l’ostilità dei circa quaranta milioni di abitanti di origine straniera –
di cui venti di religione musulmana – già insediati in Europa come cittadini
europei o immigrati regolarizzati. Ostilità che si è già rivelata origine di un
terrorismo stragista autoctono e non importato, ma anche di una crescente
estraneità e di un crescente rancore di intere comunità che genereranno nuovi
conflitti interni su basi etniche o pseudoreligiose.
L’alternativa a queste politiche deve essere
comunque elaborata dal basso, dalla cittadinanza attiva e non solo dai governi,
coinvolgendo sia le comunità autoctone che quelle migranti. Non può essere definita in
partenza, ma alcuni dei suoi capisaldi possono essere enunciati fin da ora. Si
tratta di un programma radicale, assimilabile a un vero e proprio regime change
a livello europeo, che per ora può essere valorizzato solo come strumento di
mobilitazione e di condizionamento dei Governi, cercando i necessari
collegamenti con tutti i movimenti attivi su questi temi.
In sintesi:
Primo: Politiche di austerità e incapacità di accogliere
sono strettamente legate. “Non c’è posto” per i profughi perché non c’è più
posto per tanti cittadini europei dato che l’austerità continua a sottrarre
lavoro, reddito, casa e servizi a tutta la parte inferiore della piramide
sociale. Non si può gestire i flussi crescenti dei profughi senza affrontare
anche la disoccupazione e la povertà tra un numero crescente di cittadini
europei: con un vasto programma
di spesa non per grandi opere inutili e dannose, ma per mille e mille piccoli
interventi nel tessuto della società.
Secondo: Sul lungo periodo il riequilibrio
demografico della popolazione europea con nuovi apporti
dall’esterno, per evitare che si riduca a una comunità di vecchi, è
inevitabile. Così si rischia di dover richiamare, in un domani non lontano, una
parte di quelle popolazioni che oggi ci adoperiamo per respingere e far
annegare. È appena il caso di ricordare che il milione e mezzo di profughi entrati
in Europa nel 2015, quando ancora era aperta la rotta balcanica, eguaglia a
mala pena i migranti economici accolti ogni anno in Europa per tutto il secondo
dopoguerra, fino al 2008, pur in presenza di una crescita demografica autoctona
che oggi è venuta meno.
Terzo: Per questo occorrono corridoi
umanitari di ingresso e soprattutto politiche inclusive, costruite dal basso,
fondate su progetti che promuovano la collaborazione tra cittadini europei,
soprattutto giovani, e nuovi arrivati. I campi di questi interventi sono noti:
assistenza alla persona, agricoltura innovativa di piccola taglia (al posto
dello sfruttamento e della schiavizzazione dei profughi e dei migranti non
regolarizzati in forme tradizionali di agricoltura estensiva), ristrutturazioni
edilizie, salvaguardia degli assetti idrogeologici, fonti energetiche
rinnovabili, artigianato di riparazione e manutenzione dell’usato, cultura e
altro ancora. Sono per lo più attività legate alla lotta contro i cambiamenti
climatici che, quando, e se, se ne presenteranno le condizioni, possono essere
trasferite da migranti di ritorno anche nei paesi di origine ed essere il
motore di un riequilibrio ambientale ed economico di quei territori.
Quarto: Un
programma e dei progetti del genere non possono essere affidati né al mercato,
dove ognuno si cerca un lavoro da sé, né
solo a programmi governativi. Abbinando accoglienza e lavoro, inclusione
e produzione, soltanto l’economia sociale e
solidale è adatta a concepirli, promuoverli e gestirli; ovviamente
con un massiccio sostegno dei poteri pubblici.
Quinto: Le persone fuggite da guerre e disastri per lo
più desiderano ritornare nei loro paesi se solo il degrado sociale e ambientale
venisse invertito. Sono queste le premesse per la costituzione di una
grande comunità euromediterranea.
Immigrati e profughi costituiscono un grande potenziale da valorizzare sia
nella definizione di una prospettiva politica di pacificazione dei paesi da cui
sono fuggiti e di cui conoscono bene conflitti e dinamiche; sia nella
progettazione del risanamento ambientale e sociale dei loro territori di
origine grazie ai contatti che mantengono con le comunità che hanno lasciato,
ma anche grazie alle professionalità e soprattutto alle relazioni che hanno
acquisito in Europa.
Sesto: Per questo le
loro comunità possono e dovrebbero essere aiutate a organizzarsi per essere
parti in causa in campagne per bloccare sia le guerre in corso nei loro paesi
di origine, sia le forme più devastanti della presenza economica dell’Europa in
quegli stessi territori.
Settimo: Premessa obbligata è una battaglia culturale per
riavvicinare le persone tra loro; è nello scambio culturale e nella ibridazione
dei rispettivi apporti, ma soprattutto nella vicinanza alle loro sofferenze,
che si possono creare le basi per la riconquista di una dimensione umana alla
politica. Il rigetto che molti cittadini e cittadine europee manifestano verso
profughi e migranti non è dovuto solo alla paura (di una loro propensione a
delinquere o del terrorismo). Questa certo non manca, ma viene spesso usata a
copertura del rifiuto di mescolarsi con persone e “culture” di cui si teme che
possano mettere in forse abitudini e tradizioni a cui ci si sente legati. È
questo timore del diverso che va affrontato, senza demonizzare o tacciare di
razzismo (ben presente invece in chi lo promuove e lo sfrutta) chi ne è solo
portatore o vittima. Farsi concittadini di chi era straniero: questo deve
essere il nostro impegno.
da qui
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