venerdì 9 giugno 2017

La madre del terrorista - Bruno Tognolini



Ho scoperto mercoledì che Valeria Collina, la madre del terrorista del London Bridge, è una mia vecchia compagna di teatro: ho lavorato con lei a Bologna per anni, ho scritto e ha portato in scena i miei testi, li abbiamo provati e discussi insieme, fin quando, circa trent’anni fa, in tempi non sospetti, si convertì alla fede musulmana. Come banalmente ma umanamente accade in questi casi, un filo di notizie, che in altri giorni si sarebbe intrecciato e perso con gli altri fili a tessere l’arazzo del terrore quotidiano, è saltato ai miei occhi in luce potente.
Il primo verso de La ballata delle madri, in cui Pasolini allinea una mesta sequela di vili e miseri d’Italia, si apre così: “Mi domando che madri avete avuto”… Le mie prime riflessioni son state quelle: da un punto di sguardo per una volta ravvicinato, anche se lontano trent’anni, mi sono chiesto che donna sia stata, che donna sia, la madre che ha cresciuto un ragazzo terrorista.
Ho richiamato il suo ricordo. Valeria era una vera “teatrante”, come allora si diceva e si faceva. Seria e profonda, rigorosissima nella ricerca, nel traininig fisico e filosofico quotidiano di quel teatro che era, assai più che arte del recitare, disciplina di vita e pensiero: il teatro severo e liturgico di Eugenio Barba e di Jerzy Grotowsky, che Valeria praticava con zelo monacale. Una monaca laica e atea in pantaloni di tela larga e maglie casuali, potente e agile e solenne nei gesti, attenta e calma e gentile nelle parole.
Non so trarre conseguenze da queste riflessioni. Malgrado questo balcone privilegiato sui fatti, non so cosa e chi fosse in realtà Valeria trent’anni fa; non so cosa sia diventata in questi trent’anni (ognuno di noi cambia e diventa se stesso); non so come e fino a che punto chi e cosa lei fosse e divenisse possa aver plasmato, o anche solo influenzato, l’essere e il fare fatale del suo figlio terrorista.
Sono domande antichissime e smisurate, non so o non voglio qui rispondere. Perché voglio parlare di un’altra cosa, che mi ha colpito forse ancora di più.
I giornali hanno sempre poco spazio, poche righe a disposizione per conquistare l’attenzione del conteso lettore. Devono tracciare sintesi, parole semplici che il lettore conosce; parole attuali che si sentono oggi; che si sentono molto, parole trendy; che si comprendano subito, d’immediato rilascio; autoevidenti, stand alone, virali, che basta sganciarle e come un missile Tomahawk fanno il loro trend nella mente dei lettori fiutando il bersaglio.
In diversi articoli mercoledì Valeria Collina, e quel fiume complesso e innumerabile che è la vita di una persona, era definita con tre di queste tre parole Tomahawk: “è stata hippy, poi buddista, poi musulmana”.
Non un cenno alla sua sete di rigore, purezza, oltranza dello spirito e della vita. A quella ricerca intransigente di senso profondo (“I can’t get no satisfaction”), che per molti giovani allora (e oggi?) non trovava cammino nelle chiese della domenica e nelle sezioni giovanili dei partiti: ben altra acqua cercava quella sete. La trovava nella lotta clandestina; o nell’eroina; o nella strada, in viaggio, in India; oppure nel teatro più duro e puro del mondo. La strada scelta in questo quadrivio ci dice già chi era questa donna. Altri inquieti vagabondi del dharma si sono perduti nella prima, innumerabili nella seconda. Ma per Valeria non bastava, “to get satisfaction”, nemmeno questa terza, l’allora cosiddetto “Terzo Teatro”, “la via che ha un cuore”, come diceva Eugenio Barba. E allora ecco pronta una via novissima, allora, nitida e forte, temperata dalla crescita ardua in terra straniera. Un Islam che forse per i suoi stanchi fedeli in madrepatria era come le oziose messe per noi, ma che trapiantata nella terra lontana e ostile lussureggiava di novissimo fulgore, per alcuni, i primi allora, irresistibile.
Ecco, io l’ho conosciuta in quegli anni. Non so se prima della conversione all’Islam fosse buddista, forse sì, altri teatranti in quegli anni lo erano: negli intervalli delle già ascetiche prove si rintanavano in angoli appartati, contro un muro a praticare il loro Gongyio. Ma questo era un dettaglio secondario, potevano essere altrettanto vegetariani, tifosi dell’Inter, appassionati di pesca. Valeria non era “buddista”, non era “hippy”: era “teatrante”.
So bene che l’articolista non userebbe mai quella locuzione: il caporedattore casserebbe. Non è attuale, non è trendy, non è Tomahawk, non si completa nella mente del lettore di news online, che legge svelto con le dita pronte al commento. E inciampando in quella parola sbigottirebbe (“teatrante?”) per un solo nanosecondo e schizzerebbe via.
Mentre invece la tripletta hippy-buddista-musulmana (complimenti all’autore: conosce i suoi polli) il lettore medio social la capisce subito, sorride, annuisce, e passa al sodo: digitare i commenti ghignanti, saccenti, violenti, e profondamente avvilenti che sotto quegli articoli ho letto.
Ah ecco! Si capisce. E cos’altro ci si poteva aspettare da una italiana figlia di un partigiano decorato e “poi hippy, poi buddista, poi musulmana”? Il redattore, dato che c’era, poteva scrivere direttamente: hippy + buddista = musulmana.
Mercoledì 7 sera, in una lunga intervista a Sky, prima ancora di avere conferma dal web (dall’articolo sunnominato), avevo riconosciuto Valeria dalla voce, dall’eloquio, dal fugacissimo scorcio di profilo che nell’inquadratura dietro il velo s’è scorto. Dati incerti, dopo trent’anni, ma consolidati dal rigore intellettuale e morale, lo stesso di allora.
Il rigore con cui una madre, forse nel paradosso di un’ultima postuma redenzione del figlio perduto, lo disconosce, ne condanna il gesto e i motivi; accoglie e approva addirittura, con che dolore per una donna di fede si può solo immaginare, la sua sepoltura sconsacrata. E poi prende la parola, si concede a tante interviste, troupe dopo troupe, faccia contrita di reporter dopo faccia contrita, con “santa” pazienza.
Perché? Per testimoniare. Si sente benissimo dalla voce, dall’eloquio, dal filo etico forte del suo argomentare, che non rilascia quelle interviste spinta dalla equivoca triste fame di visibilità di tanti altri “parenti nel dolore”, da cui le troupe spietate suggono lacrime. Si sente che le motivazioni che la spingono non sono tacite inconfessabili speranze che vedano il servizio in tutto il quartiere e poi la guardino al market. Non lei.
Sono altre: testimoniare. È quello il compito che si è data, ne sono certo. In un breve inciso, nell’intervista mormora, per un attimo un po’ smarrita: “Questa cosa l’ho già detta… ma forse a voi no… la devo ridire”. Valeria Khadija Collina sta testimoniando, con la sua abiura del figlio e coi discorsi fermi e profondi, di cui conosco le fonti, l’esistenza e il disperato grido di un Islam dei pii e dei giusti.
Quell’Islam che, dice Valeria in calma coerenza con ciò che diceva e faceva trent’anni fa, “è cultura e conoscenza”. Una voce preziosissima, da incoraggiare.
E noi come l’accogliamo? Una hippy, poi buddista, poi musulmana. E sotto, roghi fiammanti di odio.

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