La legge 107/2015, cosiddetta Buona Scuola, ha minato le fondamenta
democratiche, cooperative e formative della scuola, trasformandola in un’aziendae asservendola a logiche competitive e di
profitto. A due anni ormai dalla sua entrata in vigore possiamo affermare che
la “Buona Scuola” renziana è tutto tranne che una scuola buona. Per tanti
motivi. Innanzitutto perché la buona scuola mette al centro una logica di tagli e di risparmio, non si distacca questa riforma
dalle vecchie riforme che consideravano la scuola, il sistema dell’istruzione,
non una risorsa su cui investire, non un albero da far crescere, ma un albero
da potare. E dunque rimane dentro la logica del risparmio, della potatura, e
dunque dentro una logica di restrizione delle risorse. In quest’ottica ecco
l’idea degli sponsor: le scuole devono andare a cercare sul
territorio degli sponsor privati, affinché le possano alimentare e sostenere.
Tutto ciò, ovviamente, nel medio e lungo periodo creerà
delle scuole
di Serie A, cioè le scuole che riescono a trovare più
sponsor, più fondi e le scuole di serie B, quelle di territori più poveri
che non riusciranno a recuperare fondi e investimenti privati. Senza
dimenticare che gli investimenti privati, nel lungo periodo, rischiano seriamente di
minare l’autonomia dell’istruzione, del sapere e
l’autonomia degli insegnanti che spesso dovranno portare avanti progetti voluti
da questi finanziatori esterni.
Inoltre la buona scuola non è una scuola buona perché
diventa Invalso-centrica,
cioè fa ruotare l’apprendimento intorno al sistema valutativo degli Invalsi.
Questo determina una mutazione culturale, o addirittura antropologia, dell’insegnante che
si trasforma da educatore a vero e proprio allenatore, in vista della performance dei test Invalsi. Una sorta di personal
trainer finalizzato alla compilazione dei test.
Questo non è insegnare, perché l’insegnamento è mettere
al centro la crescita del ragazzo. E un ragazzo cresce attorno alla
molteplicità dei saperi e delle intelligenze. La scuola dell’Invalsi invece uccide la didattica laboratoriale, quella
sperimentale, teatrale, tutte le didattiche che sono
avulse dal sistema Invalsi. Inoltre stimola la competizione negativa tra studenti, i quali
vogliono primeggiare per un quiz e non crescere insieme attraverso un percorso
formativo di qualità. Stimola anche la competizione negativa fra gli
insegnanti, che vogliono avere i propri allievi tra i migliori nei test Invalsi
o addirittura fra tutte le scuole, in maniera tale che un domani quelle con i
test migliori possano avere più finanziamenti, o possano essere più rinomate nel
panorama di un mercato scolastico.
Inoltre la buona scuola non è una scuola buona, perché
crea una alternanza scuola-lavoro pessima in quanto è estremamente ideologica.
In un’epoca di grande disoccupazione, illude i ragazzi che attraverso degli
stage si possa un domani ottenere un lavoro in quelle stesse aziende, in quelle
cooperative. Ma un paese che ha una scarsa crescita economica, con alti tassi
di disoccupazione, non sono degli stage non retribuiti o spesso improvvisati, a
creare nuova occupazione e di qualità.
È una pessima alternanza perché favorisce il
lavoro con prestazioni d’opera gratuite, e prepara
dunque i ragazzi a un mondo futuro di precarietà. Le aziende posso utilizzare
questi ragazzi per fare le lavori scarsamente qualificati e gratuitamente. Ed è
una sorta di palestra per quello che sarà il mondo del lavoro di domani,
potremmo dire che la scuola prepara i lavoratori precari di domani. Ti faccio
lavorare oggi gratuitamente, così capirai domani cosa ti aspetta nel mercato
del lavoro, così capirai cosa vorrà dire lavorare domani senza diritti.
Inoltre è una pessima alternanza perché toglie ore di didattica,
ore di discipline. In un modo complesso come il nostro, estremamente liquido
come direbbe Bauman, oggi saper scegliere, dunque essere autonomi e liberi
passa attraverso l’acquisizione di conoscenze e competenze. Perché essere
liberi significa poter colorare la propria vita di tanti colori, ma se nel mio
portapenne ho solo due colori, rosso e nero, la mia vita sarà tendenzialmente
rossa e nera. Togliere ore disciplinari di matematica, di letteratura, di
fisica, di latino, di laboratori di lingue, significa di fatto avere un domani
meno possibilità di scelta, all’interno di un panorama liquido e precario.
La buona scuola non è una scuola buona perché conferisce troppi poteri ai presidi,
i quali negli anni si sono trasformati in manager, in veri e propri capi degli istituti e
hanno il potere della chiamata diretta dei professori. Ma tutto questo, in un
paese come l’Italia, non sta stimolando una meritocrazia, ma forme di
clientelismo. I presidi finiscono per chiamare il professore che più conoscono,
i professori che sono già stati in quell’istituto, i professori a volte anche
più fedeli alle linee politiche dell’Istituto, del preside.
Tutto ciò,
ovviamente, indebolisce una scuola intesa come luogo di sapere critico e di
orizzontalità, di libertà di insegnamento. Teniamo conto
anche che tutto si unisce al fatto che i presidi hanno il potere di attribuire
la premialità, cioè un aumento salariale a fine anno per gli insegnanti. In un
paese come l’Italia di salari estremamente bassi, per quanto riguarda gli
insegnanti, tutto ciò significa dare ai presidi un grande potere. Rischiamo di
trovarci di fronte a un preside che istituisce una sorta di corte di professori
di insegnanti più fedeli, più obbedienti, proprio per ottenere il bonus, la
premialità.
Invece noi dovremmo stimolare una cooperazione tra gli
insegnanti, non una competizione. Anche perché poi è difficile stabilire chi è
l’insegnante migliore: è quello che porta avanti tutti i progetti della scuola,
o che ha deciso di intraprendere il Preside; oppure l’insegnante che sa fare
meglio matematica, fisica, attraverso i laboratori, esperimenti, quello che fa
leggere più Platone o più Dante. Dunque, la premialità è un grandissimo potere
che ha un Preside.
Perché la scuola renziana non è una scuola buona, è dato
dal fatto che gli studenti sono stati praticamente ignorati da questa riforma.
Questa è una riforma che li esclude. È calata dall’alto sugli studenti che non vengono
interpellati perché considerati dei consumatori di sapere, degli utenti di
prestazioni, dei clienti degli istituti. Devono consumare programmi, devono
consumare progetti, acquistare certificazioni, e viene dunque eliminato
quell’aspetto fondamentale, in un processo formativo, che è la creatività degli
studenti. Hanno uno spirito collaborativo e critico che va alimentato e
sostenuto, e non eliminato o tarpato sin dall’inizio.
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