domenica 4 giugno 2017

A due anni dalla Buona scuola - Matteo Saudino


La legge 107/2015, cosiddetta Buona Scuola, ha minato le fondamenta democratiche, cooperative e formative della scuola, trasformandola in un’aziendae asservendola a logiche competitive e di profitto. A due anni ormai dalla sua entrata in vigore possiamo affermare che la “Buona Scuola” renziana è tutto tranne che una scuola buona. Per tanti motivi. Innanzitutto perché la buona scuola mette al centro una logica di tagli e di risparmio, non si distacca questa riforma dalle vecchie riforme che consideravano la scuola, il sistema dell’istruzione, non una risorsa su cui investire, non un albero da far crescere, ma un albero da potare. E dunque rimane dentro la logica del risparmio, della potatura, e dunque dentro una logica di restrizione delle risorse. In quest’ottica ecco l’idea degli sponsor: le scuole devono andare a cercare sul territorio degli sponsor privati, affinché le possano alimentare e sostenere.
Tutto ciò, ovviamente, nel medio e lungo periodo creerà delle scuole di Serie A, cioè le scuole che riescono a trovare più sponsor, più fondi e le scuole di serie B, quelle di territori più poveri che non riusciranno a recuperare fondi e investimenti privati. Senza dimenticare che gli investimenti privati, nel lungo periodo, rischiano seriamente di minare l’autonomia dell’istruzione, del sapere e l’autonomia degli insegnanti che spesso dovranno portare avanti progetti voluti da questi finanziatori esterni.
Inoltre la buona scuola non è una scuola buona perché diventa Invalso-centrica, cioè fa ruotare l’apprendimento intorno al sistema valutativo degli Invalsi. Questo determina una mutazione culturale, o addirittura antropologia, dell’insegnante che si trasforma da educatore a vero e proprio allenatore, in vista della performance dei test Invalsi. Una sorta di personal trainer finalizzato alla compilazione dei test.
Questo non è insegnare, perché l’insegnamento è mettere al centro la crescita del ragazzo. E un ragazzo cresce attorno alla molteplicità dei saperi e delle intelligenze. La scuola dell’Invalsi invece uccide la didattica laboratoriale, quella sperimentale, teatrale, tutte le didattiche che sono avulse dal sistema Invalsi. Inoltre stimola la competizione negativa tra studenti, i quali vogliono primeggiare per un quiz e non crescere insieme attraverso un percorso formativo di qualità. Stimola anche la competizione negativa fra gli insegnanti, che vogliono avere i propri allievi tra i migliori nei test Invalsi o addirittura fra tutte le scuole, in maniera tale che un domani quelle con i test migliori possano avere più finanziamenti, o possano essere più rinomate nel panorama di un mercato scolastico.
Inoltre la buona scuola non è una scuola buona, perché crea una alternanza scuola-lavoro pessima in quanto è estremamente ideologica. In un’epoca di grande disoccupazione, illude i ragazzi che attraverso degli stage si possa un domani ottenere un lavoro in quelle stesse aziende, in quelle cooperative. Ma un paese che ha una scarsa crescita economica, con alti tassi di disoccupazione, non sono degli stage non retribuiti o spesso improvvisati, a creare nuova occupazione e di qualità.
È una pessima alternanza perché favorisce il lavoro con prestazioni d’opera gratuite, e prepara dunque i ragazzi a un mondo futuro di precarietà. Le aziende posso utilizzare questi ragazzi per fare le lavori scarsamente qualificati e gratuitamente. Ed è una sorta di palestra per quello che sarà il mondo del lavoro di domani, potremmo dire che la scuola prepara i lavoratori precari di domani. Ti faccio lavorare oggi gratuitamente, così capirai domani cosa ti aspetta nel mercato del lavoro, così capirai cosa vorrà dire lavorare domani senza diritti.
Inoltre è una pessima alternanza perché toglie ore di didattica, ore di discipline. In un modo complesso come il nostro, estremamente liquido come direbbe Bauman, oggi saper scegliere, dunque essere autonomi e liberi passa attraverso l’acquisizione di conoscenze e competenze. Perché essere liberi significa poter colorare la propria vita di tanti colori, ma se nel mio portapenne ho solo due colori, rosso e nero, la mia vita sarà tendenzialmente rossa e nera. Togliere ore disciplinari di matematica, di letteratura, di fisica, di latino, di laboratori di lingue, significa di fatto avere un domani meno possibilità di scelta, all’interno di un panorama liquido e precario.
La buona scuola non è una scuola buona perché conferisce troppi poteri ai presidi, i quali negli anni si sono trasformati in manager, in veri e propri capi degli istituti e hanno il potere della chiamata diretta dei professori. Ma tutto questo, in un paese come l’Italia, non sta stimolando una meritocrazia, ma forme di clientelismo. I presidi finiscono per chiamare il professore che più conoscono, i professori che sono già stati in quell’istituto, i professori a volte anche più fedeli alle linee politiche dell’Istituto, del preside.
Tutto ciò, ovviamente, indebolisce una scuola intesa come luogo di sapere critico e di orizzontalità, di libertà di insegnamento. Teniamo conto anche che tutto si unisce al fatto che i presidi hanno il potere di attribuire la premialità, cioè un aumento salariale a fine anno per gli insegnanti. In un paese come l’Italia di salari estremamente bassi, per quanto riguarda gli insegnanti, tutto ciò significa dare ai presidi un grande potere. Rischiamo di trovarci di fronte a un preside che istituisce una sorta di corte di professori di insegnanti più fedeli, più obbedienti, proprio per ottenere il bonus, la premialità.
Invece noi dovremmo stimolare una cooperazione tra gli insegnanti, non una competizione. Anche perché poi è difficile stabilire chi è l’insegnante migliore: è quello che porta avanti tutti i progetti della scuola, o che ha deciso di intraprendere il Preside; oppure l’insegnante che sa fare meglio matematica, fisica, attraverso i laboratori, esperimenti, quello che fa leggere più Platone o più Dante. Dunque, la premialità è un grandissimo potere che ha un Preside.
Perché la scuola renziana non è una scuola buona, è dato dal fatto che gli studenti sono stati praticamente ignorati da questa riforma. Questa è una riforma che li esclude. È calata dall’alto sugli studenti che non vengono interpellati perché considerati dei consumatori di sapere, degli utenti di prestazioni, dei clienti degli istituti. Devono consumare programmi, devono consumare progetti, acquistare certificazioni, e viene dunque eliminato quell’aspetto fondamentale, in un processo formativo, che è la creatività degli studenti. Hanno uno spirito collaborativo e critico che va alimentato e sostenuto, e non eliminato o tarpato sin dall’inizio.

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