Lunedì 26
giugno, alla Camera dei deputati, inizia la discussione sulla proposta di legge che prevede l’introduzione del
reato di tortura nell’ordinamento italiano. Un intervento atteso da trent’anni
che rischia però di produrre un paradosso: lasciare di fatto impunita la
tortura, rendendo inapplicabile la norma.
Il testo
licenziato dal Senato, infatti, è in netta contraddizione con
la Convenzione ONU del 1984 e con le indicazioni contenute nella sentenza
di condanna contro l’Italia della Corte europea per i diritti umani del 7
aprile 2015 (Cestaro vs Italia per il caso Diaz).
È la ragione
per cui i magistrati che si sono occupati dei processi legati alle violenze del
G8 di Genova 2001 hanno scritto una lettera aperta alla presidente della Camera,
Laura Boldrini. Ecco il testo.
All’Onorevole
Presidente della Camera dei Deputati sig.ra Laura Boldrini
Quali
magistrati, impegnati a vario titolo, come Giudici e Pubblici Ministeri, nei
procedimenti penali che hanno avuto ad oggetto i fatti accaduti durante il G8
di Genova (in particolare quelli relativi all’irruzione delle forze di polizia
nella scuola Diaz e quelli verificatisi presso il centro di detenzione
temporanea di Bolzaneto), sentiamo il dovere di richiamare l’attenzione dei
Deputati impegnati nella discussione del disegno di legge già approvato
dal Senato il 17 maggio 2017 (“Disposizioni per l’introduzione
del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”), del Presidente della Camera
e dei Parlamentari tutti sulla grave contraddizione che potrebbe crearsi tra la
concreta applicazione del testo normativo su cui si è realizzato un largo
accordo politico parlamentare e lo scopo della legge: adempiere finalmente agli
obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali.
I fatti
oggetto di accertamento giudiziale definitivo nei processi in questione sono stati
qualificati come torture e trattamenti inumani e degradanti dalla Corte Europea
dei diritti dell’uomo ancora una volta proprio in questi giorni. Eppure tali
fatti potrebbero in gran parte non essere punibili come tortura secondo la
diversa e contrastante definizione che il Parlamento ha fin qui prescelto.
Le critiche
alla legge in discussione, ribadite da
ultimo in una lettera indirizzata ai parlamentari dal Commissario per i diritti
umani del Consiglio d’Europa, non ci sembrano frutto di
dissertazioni astratte né di speculazioni teoriche perché trovano un concreto e
tangibile riscontro nella nostra diretta esperienza di magistrati.
È infatti
indiscutibile: che alcune delle più gravi condotte accertate nei processi di
cui si tratta siano state realizzate con unica azione; che le acute sofferenze
mentali cui sono state sottoposte molte delle vittime abbiano provocato per
ciascuna conseguenze diverse non in ragione della maggiore o minore gravità
della condotta, ma in ragione della differente personalità di coloro che
l’hanno subita; che – come attestano le evidenze scientifiche – nulla consente
di definire in termini di maggiore gravità e intensità la sofferenze provocate al
momento dell’inflizione di una tortura di tipo psicologico da quelle che
residuano e – come richiesto dalla legge in corso di approvazione – si
manifestano in un trauma “verificabile” (e dunque diagnosticabile e duraturo).
La
necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la
vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure
affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza
dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è
conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma
esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui
si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano
sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia
e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma
della “minorata difesa”.
Se ai casi
che sono stati esaminati nei processi di cui ci siamo occupati fosse stata
applicata la normativa oggi in discussione non avremmo potuto agevolmente fare
ricorso neppure a quella che pare configurarsi come una condotta alternativa:
l’agire con crudeltà. Secondo l’interpretazione corrente dell’omonima
aggravante comune, infatti, la crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non
facilmente ravvisabile nell’agire del pubblico ufficiale che potrebbe sempre
opporre di aver operato avendo di mira finalità istituzionali.
Si tratta di
difficoltà interpretative già da più parti segnalate che è assolutamente
necessario evitare in una materia, come quella penale, che è soggetta a stretta
interpretazione e non dovrebbe lasciare un così ampio spazio alla
discrezionalità giudiziale
Rimane
un’evidente constatazione di sconcertante semplicità: l’adozione di una
definizione della condotta di tortura in stretta aderenza alla convenzione ONU
(quella già avuta come riferimento dai giudici nazionali e dalla Corte EDU) non
comporterebbe alcun problema di applicabilità.
Ci pare si
debba riflettere su questo paradosso: una nuova legge, volta a colmare un vuoto
normativo in una materia disciplinata da convenzioni internazionali, sarebbe in
concreto inapplicabile a fatti analoghi a quelli verificatisi a Genova, che
sono già stati qualificati come tortura dalla Corte Europea, garante della
applicazione di quelle convenzioni.
Sarebbe così
clamorosamente disattesa anche l’esecuzione delle sentenze di condanna già
pronunciate dalla Corte EDU nei confronti dello Stato Italiano: uno scenario
che spiega forse il recente intervento del Commissario per i diritti umani del
Consiglio d’Europa che, assumendo un’iniziativa inedita e per molti versi
eccezionale, si è rivolto direttamente al Parlamento italiano segnalando
l’opportunità di un ripensamento.
Inattuate
rimangono infatti molte delle indicazioni della Corte Europea che richiede
rimedi legislativi per l’efficace repressione anche dei comportamenti che non
assurgono al livello di gravità della tortura ma sono qualificati come
trattamenti inumani o degradanti. Una formula definitoria di condotte che la
legge in corso di approvazione utilizza in modo insolito per introdurre una
sorta di condizione obiettiva di punibilità, confondendo da un lato profili che
nel lessico convenzionale sono tenuti rigorosamente distinti attraverso una
locuzione disgiuntiva e dall’altro dimostrandosi tautologica essendo la tortura
sempre un trattamento inumano o degradante caratterizzato dalla particolare
gravità.
Inattuate
rimangono infine – e in maniera che desta analoga preoccupazione – le
indicazioni della Corte EDU che richiede l’adozione di rimedi legislativi per
la repressione efficace dei comportamenti che non assurgono al livello di
gravità della tortura, ma sono qualificabili come trattamenti inumani o
degradanti. Anche per tali condotte, pur se integranti reati comuni, secondo la
convenzione come precisato dalla stessa Corte nelle più recenti sentenze di
condanna ( casi Cestaro e Bartesaghi Gallo) sui fatti della scuola Diaz è
imperativo evitare la prescrizione e la concessione di benefici di ogni tipo.
La legge in approvazione lascia scoperte tali situazioni che avrebbero meritato
disciplina nella medesima sede. Il processo Diaz in particolare ha infine
dimostrato quali ostacoli alle indagini abbia comportato la mancata sospensione
dal servizio dei Pubblici Ufficiali rinviati a giudizio: misura che la Corte
ritiene obbligatoria nei casi di tortura e di ogni altra violazione dell’art. 3
Cedu, così come la destituzione in caso di condanna definitiva.
Riteniamo
doveroso offrire al Parlamento Italiano queste riflessioni, quali operatori del
diritto concretamente coinvolti in procedimenti penali riguardanti fatti di
tortura e trattamenti inumani e degradanti, perché la nostra esperienza insegna
quanto siano necessarie in questi casi norme di agevole interpretazione, che
non rendano ancor più complesse ricostruzioni giudiziarie già per loro natura
delicate e difficoltose e siano soprattutto conformi ai principi chiaramente
espressi dalla Convenzione adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU che
l’Italia ha ratificato nel lontano 1988 e che solo ora si è dichiarato di voler
concretamente attuare.
***
Salvatore
Sinagra, già Presidente di Sezione della Corte di Appello di Genova e del
Collegio giudicante nel processo per i fatti della scuola Diaz
Francesco
Mazza Galanti, Presidente di Sezione del Tribunale di Genova già Consigliere di
Appello e membro del Collegio giudicante per i fatti della Diaz
Giuseppe
Diomeda, Consigliere della Corte di Appello estensore della sentenza di Appello
nel caso Diaz
Roberto
Settembre, già Consigliere della Corte di Appello estensore della sentenza nel
caso Bolzaneto
Lucia
Vignale, Giudice del Tribunale di Genova Giudice delle indagini preliminari nei
casi Diaz e Bolzaneto
Daniela
Faraggi, Giudice del Tribunale di Genova e Giudice dell’udienza Preliminare nel
caso Diaz
Enrico
Zucca, Sostituto Procuratore Generale e pubblico ministero nel processo Diaz
Francesco
Cardona Albini, sostituto procuratore della Repubblica pubblico ministero nel
processo Diaz
Francesco
Pinto, Procuratore Aggiunto della procura di Genova pubblico ministero nelle
indagini nei casi Diaz e Bolzaneto
Vittorio
Ranieri Miniati, Procuratore Aggiunto della procura di Genova pubblico
ministero nel processo Bolzaneto
Patrizia
Petruzziello, sostituto procuratore della Repubblica di Genova pubblico
ministero nel processo Bolzaneto
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