La casa affaticata si era addormentata e respirava rumorosamente nei pressi
della stanza di mia madre. Nell’ombra del corridoio mi muovevo con attenzione
per non svegliarla mentre lottavo contro la complessa sistemazione della
valigia dell’esilio. È vana la pretesa di sbrogliare in maniera razionale
l’archetipica e irriducibile questione dell’essenzialità del carico da
trasportare quando si tratta del viaggio di sola andata. Non sappiamo chi siamo
alla partenza di un viaggio di questo tipo e nemmeno quello che saremo
all’arrivo. Meglio lasciare all’inconscio la cernita degli oggetti da asportare
dal mondo dell’origine per il trapianto verso l’ignoto. Dieci minuti per
ordinare i vestiti potevano bastare. Nudi arriviamo, nudi partiamo.
Mi fermai davanti alla libreria. Anche lì la scelta era stata automatica e
arrogante in un atteggiamento da sacerdote unto da gesti rituali segreti. Vocatus
atque non vocatus deus aderit. Presi in primo luogo il Grande
Sertão:Veredas[1] di Guimarães Rosa in un’edizione
economica della Nova Fronteira ancora vergine di appunti. Poi
allungai la mano per prendere Ficciones e El Aleph,
di Jorge Luis Borges, che erano vicino all’altro nello scaffale della prosa.
Dalla sezione di poesia scelsi Rubayyat, di Omar Khayyam, in una
bella traduzione di Octavio Tarquinio de Souza, piena di rose, vino e amori
incantati in bilico fra la vita e la morte. Per ultimo, mi avvicinai allo
scompartimento dedicato agli argomenti tecnici e presi La
Tecnica de la Orquesta Contemporánea di Alfredo Casella e V.
Mortari tradotta dall’italiano allo spagnolo e pubblicata dalla cara Ricordi
Americana di Buenos Aires.
Strana scelta. Portare in esilio un solo libro brasiliano in mezzo ad altri
quattro libri stranieri, due dei quali scritti da un argentino! Suprema
ingiuria! Roba da fare rivoltare nella tomba il patriota Nelson Rodrigues ed
evocare il suo personaggio Sobrenatural de Almeida per
spiegare una così stramba contraddizione. Ma le stranezze non si fermano qui:
perché avevo preso solamente libri che avevo maltrattato a lungo a furore
invadente di penna e matita sugli spazi bianchi di ogni foglio? C’erano altri
nuovi volumi da leggere che da mesi aspettavano sulla parte alta degli
scaffali. L’ultima visita alla Livraria Brasileira al centro
di Rio, quasi imbattibile per i libri usati e antichi, era stata una follia.
Per quello il compagno commesso Marcos all’insaputa dell’avido proprietario
aveva fatto un grande sconto al cliente che se ne andava dal Brasile traditore
e vile dei tempi di Fernando Collor de Mello. Come mai paradossalmente
dimenticavo gli ultimi acquisti?
Nel mio intimo è rimasta la certezza di aver scelto libri infiniti da
mettere in valigia. Melita Richter mi ha chiesto perché sarebbero infiniti
questi libri. Non so se riuscirò a spiegarmi o solamente a dimostrare
caparbietà. Adesso me ne rendo conto che sono già passati diciassette anni.
Magris disse una volta che il Grande Sertão: Veredas di
Guimarães Rosa colpisce come un pugno allo stomaco ed è forse
la sintesi migliore che si può fare riguardo alla sua opera. Il grande
triestino dal suo osservatorio al Caffè San Marco inquadrò
perfettamente la trappola del romanzo che parla di battaglie mentre si scaglia
sul lettore ignaro di essere capitato in un combattimento e lo stende. A mio
avviso la lettura del Grande Sertão è una sorta di partita a
scacchi. Guimarães Rosa era un appassionato di questo antico e misterioso
gioco. Probabilmente ha trasportato nel suo romanzo quella stessa matrice
strategica e matematica, infinita anche se rigorosamente limitata allo spazio
fisico della scacchiera. Da una parte ci sono le pedine bianche del Bene e dall’altra
le pedine nere del Male. È inevitabile la tentazione di stare dalla parte delle
pedine bianche, questo perché ci identifichiamo con il Narratore e le sue lotte
in favore di quello che ci viene presentato come il Bene. L’Autore invece si
mette nella posizione di Dio o di gran maestro: gioca con ambedue i colori
delle pedine facendoci credere di essere liberi, perfino di poter avere
opinioni personali riguardo l’infinita questione Bene versus Male. Ci sconfigge
e ci arricchisce in maniera diversa ad ogni lettura.
Ficciones è un libricino composto da diciassette racconti corti divisi in due
parti precedute da prologhi (il titolo della prima parte detta Giardino
Dei Sentieri Che Si Biforcano è probabilmente un’avvertenza perché al
centro del racconto dallo stesso nome palpita un labirinto). L’opera
dell’argentino Jorge Luis Borges inizia con la scoperta di una cospirazione per
creare dal nulla una geografia, natura e civiltà ad opera di scienziati, uomini
di lettere e artisti sostenuti da un folle miliardario nordamericano (per
forza!) con la finalità di inglobarle in maniera subdola nella realtà (sempre
provvisoria) da noi conosciuta. Lungo i racconti scritti da Borges una
biblioteca infinita e caotica scrutata dagli abitanti, disperati bibliotecari
che si improvvisano cosmologi e teologi (la Biblioteca de Babel)
, convive accanto alla storia di Pierre Menard, il francese che provò a
diventare uno scrittore del secolo XVII sotto il sole del secolo XX
ricostruendosi come Cervantes. No quería componer otro Quijote - lo
cual es facil - sino “el” Quijote. Inútil agregar que no encaró nunca una
transcripcion mecanica del original; no se proponía copiarlo. Su admirable
ambición era producir unas páginas que coincidieram - palabra por palabra y
linea por linea - con las de Miguel de Cervantes.
Sono piccoli e sempre in numero di diciassette[2] i racconti dell’altro libro di
Borges messo quella notte in valigia, El Aleph. Il racconto
iniziale intitolato El inmortal parla della ricerca di un
fiume le cui acque sarebbero in grado di rendere immortale il felice bevitore
- el río secreto que purifica de la muerte a los hombres. Il
protagonista, il tribuno romano Marco Flaminio Rufo, dopo aver superato molti
ostacoli riesce ad arrivare alla splendente, deserta e mostruosa Città degli
Immortali senza però trovare un fiume dove abbeverarsi per guadagnarsi
l’immortalità. Nell’area scorre solamente un rigagnolo sporco. Al di fuori della
Città degli Immortali abitano uomini primitivi - los trogloditas -
che non dormono mai, mangiano carne di serpente e girano nudi come bestie,
incapaci della parola. Con il tempo Flaminio si affeziona ad uno di loro che lo
segue ovunque, lo chiama Argo come il cane di Ulisse. Inutilmente cerca di
insegnargli il nome appena ricevuto. Rimanendo con i trogloditi fino a
diventare membro del gruppo il tribuno si abitua ai piaceri semplici della
natura e sembra dimenticare tutto il resto. Un giorno, sotto la pioggia, chiama
Argo con insistenza e lui risponde inaspettatamente con un verso dell’Odissea:
- Ya habrán pasado mil cien años desde que la inventé. Tutto viene
chiarito. Argo era Omero e i trogloditi gli Immortali che, stanchi della
civiltà soffocante, avevano distrutto nove secoli prima la loro maestosa città
per poi ricostruirla in maniera assurda, come fosse una parodia o un tempio
dedicato agli dei dell’irrazionalità che controllano il mondo e dei quali non
sappiamo niente tranne che non sono simili all’Uomo. Il fiumiciattolo sporco
costituiva l’ambita fonte dell’immortalità. Marco Flaminio a quel punto
comincia a vivere sulla propria pelle il paradosso dell’essere immortale: Nadie
es alguien, un solo hombre inmortal es todos los hombres. Como Cornelio Agrippa
, soy dios, soy héroe, soy filósofo, soy demonio y soy mundo, lo cual es una
fatigosa manera de decir que no soy. Dunque il tribuno decide di
partire alla ricerca di acque contrarie alle precedenti. Passano i secoli prima
che riesca ad abbeverarsi al fiume della Morte e dormire un’altra volta. In un
altro racconto, El Aleph, il Narratore guidato dall’amore per una
certa Beatrice e dall’esaltato amico poeta Carlos Argentino Daneri[3] finisce per entrare in un
sotterraneo dentro il quale esiste la possibilità di contemplare il Tutto. È
quello El Aleph, la percezione dell’Infinito ridotto ad un punto
nello spazio. Dice il Narratore dopo l’utilizzo di una vertiginosa enumerazione
poetica di elementi sconnessi come metafora dell’intuizione della Totalità:..vi
la reliquia atroz de lo que deliciosamente había sido Beatriz Viterbo, vi la
circulación de mi oscura sangre, vi el engranaje del amor y la modificación de
la muerte, vi el Aleph, desde todos los puntos, vi en el Aleph la tierra, y en
la tierra otra vez el Aleph y en el Aleph la tierra, vi mi cara y mis vísceras,
vi tu cara, y sentí vértigo y lloré, porque mis ojos habían visto ese objeto
secreto y conjetural, cuyo nombre usurpan los hombres, pero que ningún hombre
ha mirado: el inconcebible universo. Contemplare il Tutto non è possibile
senza una discesa agli Inferi interiori perché in quella situazione ci
troveremo dispersi ovunque sotto le sembianze di ogni essere o cosa. Labirinti
e specchi, possibili metafore dell’infinito, sono presenti in molti punti dei
due libri come in diversi altri scritti di Jorge Luis Borges. Anche l’ombra di
William Shakesperare e di altri uomini labirintici si insinua ovunque
all’interno di Ficciones e El Aleph insieme
alla costante rivisitazione di miti e archetipi. Gli archetipi sono stati
segnalati all’interno della teoria di Carl Gustav Jung come il contenuto della
memoria della specie o inconscio collettivo. Sono indefinibili
forse perché infiniti.
Rubayyat è il nome di un’antica forma di composizione poetica persiana di
quattro versi associata in maniera indissolubile al libro che raccoglie tutto
quello che di poesia ha lasciato il sublime Ghiyath ad-Din Abul-Fath Omar Bin
Ibrahim Khayyam, conosciuto come Omar Khayyam. Omar visse quasi tutta la vita a
Nishapur ed è (forse) nato nella stessa città (forse) nel 1048. Viene
riconosciuto come il più importante matematico dell’Islam, era anche astronomo
e filosofo. I versi di Omar Khayyam invitano al vino e agli amori disperati
sotto l’ombra dell’Incertezza: Non ricordo quando sono nato / E
non so quando morirò / Vieni, dolce amica, beviamo questa
coppa / Dimentichiamoci l’ inguaribile ignoranza. Un altro
rubbayat dice: Sonno sopra la terra, sonno sotto la terra / Sopra
la terra e sotto la terra solo uomini sdraiati / Il Nulla
dappertutto. Deserto. / Uomini arrivano, uomini partono.
Avevo quindici o sedici anni quando trovai il libro di Omar all’interno di una
vecchia libreria a casa dei miei zii. Me lo sono tenuto dagli anni ’60 vicino
al letto per popolare i miei sogni con le nude ed insaziabili huri: Non
hai imparato niente dagli uomini savi/ Ma lo strusciarsi dalle
labbra di una donna sul tuo petto / Potrà rivelarti la
felicità / Hai i giorni contati. Bevi vino. A quei
tempi, però, i vini brasiliani erano velenosi e l’imitatore imberbe di Khayyam
non trovò nulla di meglio al lurido bar dell’angolo (gli avventori più sobri lo
chiamavano affettuosamente Mosqueiro ossia Angolo delle
Mosche). Alle tre di notte, di ritorno a casa, puzzavo di aceto mentre cercavo
di fare un discorso contro le religioni usando la voce del Poeta del Vino e
delle Anfore: Gente presuntuosa e ottusa inventò / La
differenza fra anima e corpo/ So solo che il vino spegne
l’angoscia / E ci devolve la calma. Mi hanno messo sotto
la doccia e confiscato il sovversivo Omar. Lo ritrovai solamente alcuni anni
più tardi per caso quando cercavo di trasformare il vecchio giradischi Paillard
di casa in amplificatore per una chitarra di fortuna: Dal mio tumulo
uscirà un odore forte di vino / Che renderà ebbri i
passanti. / E la serenità dei dintorni / Conquisterà
per me gli amanti. Gli anni sono passati e la lettura dell’opera I
Sufi di Idriss Shah mi hanno rivelato un Khayyam mistico nascosto
sotto le anfore di liquido rubino[4]. Attorno ai miei cinquant’anni un
successivo Khayyam è sbocciato dalla traduzione del maestro Yogananda. Sono
sicuro che ne troverò ancora molti altri di Khayyam coperti dal velo del
Mistero. Infatti il nome Khayyam in persiano significa
precisamente tenda: O ingenuo! Pensi di essere saggio / Sei
soffocato fra due infiniti / Dal passato e dal futuro
intrappolato / Bevi e dimentica: non puoi.
L’ultimo libro ad essere sistemato in fondo alla valigia era stato La
Tecnica de la Orquesta Contemporánea. Ammetto che la scelta era un pò
interessata perché pensavo di riuscire ad occuparmi seriamente di composizione
in Europa. Deliri da extracomunitario: il senso comune italiano concede agli
immigrati la raccolta di pomodori oppure la microcriminalità (la criminalità
che conta è prerogativa degli autoctoni).
Il manuale di Casella e Mortari parte dall’ottavino e dal contrabbasso
passando per la chitarra, gli strumenti a plettro, la percussione e la
fisarmonica. Esiste anche un paragrafo dedicato agli strumenti a quarti di tono
e una sezione per descrivere le allora modernissime Onde Martenot (la
prima edizione era del 1948), uno strumento elettrico con voz
sobrenatural y fantastica antenato dei pastosi e pastorizzati
sintetizzatori dei nostri tempi. Ogni strumento, dalle castagnole al bass
tuba, possiede una storia di timbro e linguaggio applicata alle
composizioni, trascina dietro di sé etica, sentimenti, emozioni e limiti
fisici. Per esempio, l’arpa nell’ultima ottava ha una sonorità rarefatta e
stridula, perde le possibilità di cantare. Nel registro grave viene
soggiogata dall’indefinito delle note e fatica a sbrigarsi con velocità nelle
scale o sequenze di suoni separati da intervalli piccoli. Al fagotto piace
tanto lo staccato, ma si quiere hacer el enamorado debe a
lo sumo resignarsi a representar la parte del viejito concupiscente “que paga”.
Non potrà mai fare i voli appassionati del violoncello nonostante la voce di
signore borghese attempato e malizioso.
Un trattato di orchestrazione porta sotto il microscopio la vita degli
strumenti nelle composizioni, ritaglia brandelli di Bach, Beethoven,
Stravinsky, Ravel o Respighi come esempi anatomici del comportamento
strumentale virtuoso o moderato, consiglia atteggiamenti e segnala i confini
della fattibilità espressiva. Allo stesso modo della scacchiera indica lo
spazio delimitato dentro il quale è paradossalmente possibile raggiungere
innumerevoli dimensioni creative in universi musicali paralleli o in fuga.
Posso sognare di essere un Claude Debussy o giocare a fare il nostromo
dell’astronave di Johann Sebastian Bach che arriverà alla prossima galassia. I
libri sono solo specchi e labirinti, all’Infinito ci pensiamo noi.
[1] Grande Sertão:
Veredas è Il titolo originale del romanzo brasiliano diversamente
da quello scelto per la traduzione italiana (Grande Sertão). La parola sertão significa
in portoghese landa desolata e corrisponde ad una vasto territorio che copre parte
del Nord Est del Brasile, mentre il termine veredas sta per
sentieri.
[2]Il numero 17 ridotto in
maniera cabalistica ( 1+7) corrisponde al numero 8 che sdraiato diventa il
conosciuto simbolo di infinito. L’opera monumentale di Jodorowski e Costa
riguardo i tarocchi (La Via dei Tarocchi) finisce la parte dedicata
all’Arcano XVII (La Stella) con queste parole: E al centro del mio
ventre, divenuto infinito, ricevo e lascio nascere la luce nella sua interezza (p.243).
A mio avviso la percezione delle coincidenze seriali o sincroniche
rappresenterebbe l’intuizione dell’infinita trama di coincidenze che possiamo
chiamare Realtà.
[3] Il nome Daneri a
mio avviso potrebbe essere stato costruito da Borges tramite l’utilizzo della
prima sillaba del nome associata all’ultima sillaba del cognome del Sommo
Poeta. La presenza nel racconto dell’amata Beatrice defunta e la discesa ad un
sotterraneo alla ricerca della Rivelazione possono forse incoraggiare questa
intuizione.
[4]Hanno dato il nome di
Omar Khayyam ad un cratere della Luna. Mi pare giusto: era un grande astronomo.
Gli antichi greci chiamavano cratere la coppa, sarebbe
impossibile un omaggio più bello al filosofo e poeta.
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