venerdì 16 giugno 2017

ricordo di Marc Porcu, poeta

(poesie tradotte da Giovanni Dettori)

Mi accosterò all’Isola
I.Per parlare di lei
una lingua d’involo
nuvole nella voce
e vederla di nuovo
staccata dalla terra
Dal fronte di luna che emerge dall’argento
delle montagne
fino all’orlo di schiuma del suo scialle raccolto
sulle spalle
la seta del tempo
come una sera di stelle al canto del nomade.
Ma chi veglia si fa pietra nella fissità dell’immagine
dove lo sguardo scava il proprio nulla
allora lascia andare la parola
sui paralleli del vento che trapianta
la sua memoria d’argilla
sopra il sale delle partiture.
II.
Per parlare di lei
braccia di mare
l’aria intera a forgiare i miei polmoni
e in fondo all’acqua abbracciarla
con la lingua delle correnti
dall’ossidiana del suo ventre
alla sorgente oscura delle nascite
il sale delle reni a disegnarmi sulla pelle
questa carta del cielo dove i velieri vedono
presagi
aprirsi al respiro del canto.
Ma la memoria non mi ha visto che nascere
all’altra riva del canto.
Separandomi dalle sue palpebre
i venti di sabbia del deserto
ingorgarono i rosoni del mio sangue
con la cadenza di una preghiera ripetuta
preghiera di inserire sopra il mare
il nome dell’isola e dell’amata.
III.
Da una riva all’altra fu necessario vivere
il lungo viaggio di un esilio
con lische nella gola
bocca piena di spine
lingua gelata dall’estraneità
come un pesce che giacesse sopra l’area
alla superficie dell’epitaffio.
Un vecchio moriva
in quale asilo
nello specchio degli occhi il mare ne rinchiudeva i segreti
il suo rantolo riconduceva alla barca
l’orrore dell’ultimo bando
sotto le scaglie della memoria
raschia vocaboli strani
per dire lingua egli diceva “limba”
lasciando emergere dal fondale dei limbi
la corda logora dell’elegia.
E io sono cresciuto nella leggenda di un’sola
avvolta nel suo sudario.
E io sono cresciuto nel silenzio del sangue che fluiva
dentro le mie vene.
IV.
E ho amato il mondo per tutta questa assenza
per l’attesa bruciatura delle castagne
per questo carbone in scintillare di stelle
strappato come un frutto
al ventre della terra
per la basculla nell’ordine vegetale
dove veniva a pesarsi la mandria delle nubi
per l’ombra delle rondini prigioniere
di uno stupore invernale
quando il sole rientrava nella stalla esalando
i vapori della sera.
Per un alfabeto sopra la neve della soglia
dove scrivevo all’antracite
il nome di un amore sconosciuto
il volto vero dei suoi segni.
V.
Ho amato il mondo per colei che venne
col mareggiare dei corpi e l’onda del cuore
con l’ombralùce degli occhi e il diamante di fuoco
ad aprirmi le braccia come una poesia.
E ho amato il mondo per le launéddas
questo sogno di pastori con labbra di canne
riposando le palpebre alla loro polifonia
placando il granito sull’orlo del delirio.
E l’isola si riempì di un sussurro d’ali
fu mia guida nella voce
la mia “vita nova” per cantarla
E con l’anfora della poesia
intonerò a piena voce
la metafora delle sue anche
e la sonora ebbrezza del mio canto.
VI.
Dalla confusione delle lettere
al paradigma dell’esilio
mi accosterò all’isola
dall’interno del nome
seguendo le tracce di una fenicia
che apre nella danza il corsetto del vento
e slaccia i sandali all’aurora
ICHNUSA
coronata di asfodeli al cerchio sacro
dei tuoi flutti approderò a piedi nudi
Investire il sole
Colmare l’attesa
Hài! il dolore delle madri
Nereggiare il pane con l’incendio delle messi
Usurare la lancia delle parole verticali
Sanguinare della pietra fino all’essere
Avanzare di un passo nella memoria del luogo.
VII.
Declinarlo senza fine nell’imperativo del poema
disseppellendo i fonemi dalle loro
tombe di millenni
S A R D E G N A
Nominata da Sardus nel risalire il Nilo
profanata da Cartagine e calpestata da Roma
Sardegna
mucchio di pietra eccedente cui diede forma
un Dio
leggendario
impronta del suo piede
o altare sopra il mare
di un rito di passaggio
nutrendo gli uccelli che alla prua
offerta delle navi
vanno disseminando la tua ombra
VIII.
Sotto l’ala della memoria
sotto l’acrostico del nome
mi accosterò all’isola
come a una donna celata sotto le acque del poema
fissando il suo volto alla marea delle parole.
IX.
Salutare il poeta che decifra l’isola
nei gineprai del cuore ustionato
da mali indelebili
salutare lo scultore Sciola che scruta
i megaliti della parola.
Evocare Sant’Antioco isola ai bordi dell’isola dove
un martire africano un cristo nero delle catacombe
battezzò la rivolta perenne degli avi.
Riannodare con la barca dell’esilio il filo del viaggio
dove il mio sonno è andato alla deriva con il corpo di un pescatore
fino al delirio delle lingue.
Sciogliere il segreto delle pietre dove la luna va cercando
i pozzi di un volto.
Confessare l’amore di una vocale nella grotta marina
dove ho bevuto al calice delle sue labbra
la consonanza amara delle solitudini.
Implorare sul filo dei giorni che le lacrime cessino
nella loro aspra ostinazione
di acuire l’avidità delle armi.
Gemere per l’ulivo squarciato dalla folgore
per l’urna funeraria frantumata dal gelo.
Nominare dall’interno questo accostarmi al luogo.
Nuoro dove veglia uno sparviero
sopra il merletto dei punti cardinali.
Consumare il sale nella dispensa dei morti
innalzare nuraghi con gli occhi all’orizzonte e
abitarne il sogno con una mandria d’ombre.
X.
Con l’aquila nella voce
sorvolando i vulcani
Con l’aria nei polmoni
per rivestirne il grido
Con i venti del deserto
loro rosario minerale
Con l’elegia della brina
nelle labbra d’argilla
Con un corpo che emerge
dalla folgore degli alberi
Con l’alfabeto della soglia
e la luce del pane
Con il crinale dell’essere
nella verticale delle pietre
Con la calce viva delle nubi
smembrando le scogliere
Con i frammenti di un cielo
nel ricamo delle stelle
XI.
Ho sorvolato quanto basta i versanti del tuo nome
Ho versato olio quanto basta sulle ceneri della tua fronte
Ho distillato quanto basta il sambuco delle tue lettere
Quando per lo strappo del tempo tu sembri diffidare
dei santuari effimeri crollati sul tuo ventre
dei lacci della poesia che ti serrano la gola
Quando lasci di nuovo tra me e il tuo nome
tutto il sale dell’esilio
tutto lo spazio del desiderio.
*
 Lettera a Gramsci *
Io ti scrivo, gramsci,
dove tu non leggerai più,
in questo sito di memoria,
luogo della tua nascita da dove irraggi,
manciata di vocali,
cristalli di sale sopra l’asse del mondo
ALES
Attorno il pensiero ha generato il movimento
pietra e vento uno contro l’altro
saggiavano la forza di ogni evocazione,
l’acqua penetrava la terra
attirata dal fuoco che ne attizzava gli sforzi,
la carne indissociabile dal sangue
desiderava
le curve del corpo celebrando la bellezza,
sementi nuove nella lingua,
la tua parola disvelava un MONDO
che bisognava dire in altro modo.
Mentre ti scrivo, le tue ceneri
raccolte da pasolini in un soffio tra le pagine,
si mischiano all’inchiostro facendolo più amaro
più dolce,
le raccolgo di nuovo in questi versi,
corona di silenzio intessuto di scirocco,
sul cuore muto dell’ISOLA
intanto l’ala del tempo porta intorno la mia storia
disseminando il mio canto tra AFRICA e
EUROPA.
Orfano di lingua in questa lettera
vorrei parlarti di mia madre, gramsci,
nel lavoro duro senza scuola il suo nome è una traccia
letta con pena,
un’eco forse, delle leggende siciliane che
accompagnava suo padre
dietro un cavallo di polvere guidava le pietre del deserto
dove sotto il grande cielo
blu dell’AFRICA
si sarebbe incantato il suo destino.
Su questa terra, gramsci.
sulle sue rive al termine delle onde,
vagheggiando porpore fenicie a rivestire la vostra
ISOLA in lutto,
un pescatore condusse la sua barca
per alti fondali fuggendo
l’acqua stagnante del fascismo per salvare i figli.
Qui è cresciuto mio padre,
la madre morta negli occhi
il cuore spento in questo ESILIO e il corpo avvolto
da un velo rosso
colore di un manifesto di PARIGI dove un poeta ( 1 )
d’ARMENIA
ha messo a nudo anche il cuore ( 2 )
a disarmare le infamie.
Io ti parlo di loro poiché nel loro sorriso
tu sopravvivi, gramsci,
le loro ceneri confuse alle tue hanno varcato
la frontiera degli inganni
mai più vi befferanno
le bandiere ripiegate a lutto.
Africano universale il mio primo grido d’
AFRICA ombelicale il mio primo giorno
la stessa luce ardeva sull’ISOLA,
intorno a me neonato straniero,
parole strane,
straniero anche in FRANCIA
dove ho appreso a leggere, a scrivere,
a contare anche gli amici
e formiche di diciotto metri ( 3
mescolando i loro piedi alle vecchie canzoni
dove Orlando soffiava nel suo corno
mentre Rousseau chiamava “bons sauvages”
noi che tra i roveti
raccoglievamo biancospini
tra rovi che sempre ci graffiavano
anticipando i fiori del male
come l’alba le illuminazioni
e sempre dal fondo delle tombe
la coscienza tratteneva l’occhio aperto ( 4 )
nell’ora di morale
venivamo da ogni parte del mondo
per imparare da Rabelais
tutti matti da legare
nella gran nave del battello ubriaco ( 5 )
in funzione dei campi magnetici ( 6 )
si poteva anche pesare i nostri nervi ( 7 )
le parole ci risalivano nel sangue
era l’unica nostra emoglobina
non si aveva la medesima faccia
eppure nessuno si sentiva straniero
poiché sapevamo che si potrebbe vivere
nel silenzio del mare ( 8 )
quando le montagne diranno il loro nome.
Così, mentre tu scrivevi le tue lettere
dal carcere,
io ti scrivo liberamente dalla Francia,
paese dove ti ho letto
come legate al pane quotidiano si leggono
queste tre parole che bisogna ridire
per dire l’umana identità:
LIBERTA’ – EGUAGLIANZA – FRATERNITA’
Ti scrivo in poesia, gramsci,
lingua senza altro padrone tranne il ritmo
del corpo
rifugio della verità non alterata
quando discorsi di cristallo e ferro
tagliano
le labbra ai figli e
piagano
le mani ai padri
lingua
lo sai che scardina le porte
delle carceri e dei bunkers
fa crollare i muri
lingua che ancora oggi cantano i morti
dei campi
dentro la nebbia che ne riveste l’ombra
lingua infine mia infine nostra dappertutto
essa abita il MONDO
in essa la sua tragedia genera un canto
un canto dell’indomani
e domani
dal fondo dell’abisso
alla spuma accecante del pensiero
le tue lettere scritte per l’al-di-là dei muri
per l’al-di-là dei mari
si raccoglieranno ancora nella posta dell’alba
e decifrandole per caso
in strade senza battesimo
migrazioni future di bambini
grideranno nomi che potrebbero salvarli.
Ti scrivo di notte, gramsci,
perché non muoia la farfalla della memoria,
resti nera farfalla questa seta nell’aria,
dove un attimo freme lo splendore d’essere,
nelle sue frasi che muoiono, nelle sue frasi
per rinascere sotto le dita dei ciechi,
in questa luce interiore
dove l’opale del silenzio riconcilia
le mani che si staccano dal loro senso,
questo secolo dove tante ali
bruciate dalle radiazioni
non si aprono che per chiudersi come spoglie
dentro scrigni di oblio.
Io ti scrivo da LIONE,
gramsci,
dove al tuo passaggio nel ventisei
pochissimi intesero
quanto avevi detto:
contro il fascismo non c’era una sola
parola giusta
la parola giusta doveva aprirsi a ogni voce,
abbracciare ogni corrente che incessante sognava
la confluenza in un comune grido, ( 9 )
e tuttavia più tardi, da questa comunione
nasceva della città l’altro nome
LIONE
CAPITALE DELLA
RESISTENZA
e intorno, nella notte frugata dai laser,
risuonano parole ancora vive sfuggendo
la monomania degli schermi,
passano nella luce del pensiero i volti
delle vittime
e insieme a te affermano:
“storia nostra prigione
storia nostra libertà”.
E così io ti scrivo, gramsci,
desiderando con una lingua infine mia
riannodare i fili della storia,
aprire un solco sopra il mare,
designando alla fine
l’ISOLA,
in questo pugno di sale
dove ancora risplende
ALES
cristallo di libertà.
Colpito in pieno soffio al molo di partenza
questo viaggio di ritorno che non potrai più fare
nella mia lettera sia il tuo partire
e ritornare.
15 aprile MMIII
(traduzione di Giovanni Dettori)
p.s. :
mi sono permesso di azzardare qualche nota. In sequenza:
(1) pg. 109 … “couleur d’une affiche à Paris où un poète d’ARMENIE”… riferimento alla poesia di Aragon« L’affiche rouge », in memoria del poeta armeno Manouchian,combattente nella Resistenza francese.
(2) stessa pagina … “a mis aussi son coeur à nu”… Baudelaire: “Mon coeur mis à nu”.
(3) pg. 110 … « et des fourmis de dix-huit mètres »… poesia-cantilena di Robert Desnos imparata da Marc alle elementari.
(4) stessa pagina … « et toujours du fond des tombeaux / la conscience gardait l’œil ouvert»… poesia di Victor Hugo « La conscience ou Caino ».
(5) pg. 111 … « la grande nef du bateau ivre » … Rimbaud « Le bateau ivre ».
(6) stessa pagina … « on pouvait même peser nos nerfs » … Artaud « Le pèse-nerfs ».
(7) verso seguente … « en fonction des champs magnétiques » … André Breton e Philippe Soupaut « Les champs magnetiques ».
(8) stessa pagina … « dans le silence de la mer » … Vercors. « Le silence de la mer ».
(9) pg. 113 … « au confluent d’un cri commun » … riferimento a « Confluent », rivista clandestina alla quale collaborava, a Lione, il padre del regista Bertrand Tavernier.


Vieilles femmes de Sardaigne
Elles ont vidé l’eau des fontaines
Et sculpté leur visage en des miroirs de glaise
Loin des reflets aux trahisons certaines
Sans le regard d’un faux jour qui pèse
Où perche la parole au bord de l’effritement.

Elles ont brûlé leurs doigts
A l’arête des pierres
Limé leurs ongles
Aux écailles du ciel
Et dans leur main fermée
Tremblent
L’ombre des bois
Le gong des artères
Et les ruisseaux de fiel.
Cicatrices d’argent élargies de soleil
L’haleine du silence aux soies des plaies cousue
Par l’épine du figuier de barbarie vêtu
Aux rails de sang sec sur des bavures d’acier.
Sous les pans de la nuit
Glissent leurs cheveux de neige
Saupoudrée par le temps
En ce pays torride
Et de leurs jupes longues
Dépliant les falaises
Noircies de veille à la lueur des morts
Repoussent le rêve encore
De dissoudre le sel de leur ventre
De l’absoudre au grés compact des marées
Sous la croix étoilée d’une mer emmurée.
*
Vecchie donne di Sardegna
Hanno vuotato l’acqua delle fonti
E inciso il viso sopra specchi di creta
Lontano dai riflessi di sicuri tradimenti
Senza lo sguardo di un giorno falso che pesa
Dove ai bordi della rovina la parola si annida
Hanno bruciato le dita
Agli spigoli della pietra
Limato le unghie
Alle scaglie del cielo
E trema
Nelle mani serrate
L’ombra dei boschi
Il gong delle arterie
E i ruscelli di fiele
Cicatrici d’argento dilatate dal sole
Alito di silenzio cucito dalla spina
Del ficodindia vestito di barbarie
Alla seta delle piaghe alle rotaie
Di sangue disseccato su sbavature d’acciaio
Sotto i lembi della notte
Scivolano i loro capelli di neve
Sparsi dal tempo
In questo paese arroventato
E dalle le lunghe gonne
Dispiegando le scogliere
Annerite di veglie alla luce dei morti
Respingono ancora il sogno di dissolvere
Il sale del loro ventre
Di assolverlo all’arenaria compatta delle maree
Sotto la croce stellata d’un mare murato vivo
*
Recluses entre paupières
Et mémoires
La gorge offerte avec son poids de vigne
Quand l’étranger y mord
Leur espace gisant
Entre les points cardinaux de la souffrance.
Gardiennes de mon pays
Bafoué de désir
Pour vous
et l’olivier qui regarde la mer
Dans l’attente tordue de ses bras grands ouverts
La force
A l’étranger parmi l’ombre des femmes
A l’enfant révolté par la douleur des mères
D’assassiner DIEU un jour en plein midi
Quand l’air tremble au bord de l’agonie
Jour de marché sur la place publique
Entre criée de l’aube
Et bouche affamée pleine d’un fruit pourri.
La force
A l’un ou l’autre
Sans espoir au trépas
Exilés volontaires
Sachant bien qu’ici bas
Est la seule lumière
Et que le jugement
N’est jamais hors du temps.
Ce jour voyant DIEU mort
Parmi les invendus
L’inventaire de la terre
Sera beaucoup plus clair
Sans ave sans remords
Nue devant l’inconnu.
*
Recluse tra palpebre e memoria
Il seno offerto col suo peso di vite
Quando lo straniero vi morde
Il loro spazio che giace
Tra i punti cardinali della sofferenza
Guardiane del mio paese
Beffato dal desiderio
Per voi
E per l’ulivo
che guarda il mare
Nell’attesa contorta delle sue braccia spalancate
La forza
Allo straniero tra l’ombra delle donne
Al ragazzo
In rivolta per il dolore delle madri
Di assassinare DIO un giorno in pieno sole
Quando l’aria trema al limite dell’agonia
Giorno di mercato sulla pubblica piazza
Tra vendite dell’alba
E bocche affamate piene di frutta marcita
La forza
All’uno o all’altro
Senza speranza nel trapasso
Esuli volontari
Sapendo bene
Che quaggiù soltanto
È’ l’unica luce
E che il giudizio
Non è mai fuori tempo
Quel giorno vedendo DIO morto
Tra le merci invendute
L’inventario della terra
Sarà molto piu chiaro
Senza ave né rimorsi
Di fronte all’ignoto Nudo
*
La peine de ce crime pour une résurrection
Ce léger fait divers
En mon pays d’été
Pour que l’eau aux fontaines ressource la beauté
Pour que les pierres brûlantes se noient en son regard
Pour que les doigts oublient toute idée de clôture
Et se consacrent enfin aux caresses en retard
Pour que le sel des ventres étincelle dans l’ombre
Et guide les amants aveugles jusqu’alors
Pour que la plaie fermée sur le temps du malheur
Ne soit que souvenir sur un vieux corps qui meurt.
Que le jeu d’un rayon de soleil
Et d’un cristal de givre
Fasse un collier si riche à ces esclaves libres
Pour qu’elles s’offrent leur vie au lieu de la souffrir.
*
La pena di questo crimine per una resurrezione
Questo piccolo fatto di cronaca
Nel mio paese estivo
Perché l’acqua nelle fontane faccia risorgere la bellezza
E le pietre riarse anneghino nello suo sguardo
E le dita dimentichino ogni idea di chiusura
Consacrandosi finalmente alle carezze rimandate
E il sale delle viscere risplenda nell’ombra
E guidi gli amanti ciechi fino allora
Perché la piaga richiusa sopra un tempo di disgrazia
Non sia che un ricordo su un vecchio corpo che muore
Che il gioco di un raggio di sole
E di un cristallo di brina
Faccia una ricca collana a queste schiave liberate
Per offrirsi la vita invece di soffrirla.

(articolo di Sergio Portas)

Ci voleva Marc Porcu (si pronuncia Porcù visto che dalla natia Tunisia a tre anni è emigrato a Lione con la famiglia, padre sardo e madre arabo-siciliana) perché riprendessi in mano il mio libro “Feltrinelli” con tutte le opere di Rimbaud, a segnalibro un biglietto per accedere alle prove del gran premio di Montecarlo datato 3 giugno1973, mi ricordo che quel giorno faceva un caldo boia. Non deve essere il mio poeta preferito. Giovanni Dettori che ha tradotto “Le cri de l’aube”, l’urlo dell’alba, il libro di Marc che presenta oggi a Milano, alla libreria dinanzi all’università statale rinascimentale di Milano, la “Ca Granda” che il duca Francesco Sforza commissionò all’architetto fiorentino che volle farsi chiamare Filarete (colui che ama le virtù), inizia invece il suo splendido lavoro proprio con una citazione del “poeta maledetto”, prendendo dalle “Illuminazioni” quel verso che termina con – aspetto di diventare un pazzo molto cattivo. E lo scrittore bittese continua chiamando a  conferma Giovenale: se la natura lo impedisce, è l’indignazione che crea il verso. Arthur Rimbaud è uno dei poeti di riferimento di Marc, aveva 17 anni quando a Sedan, due passi da casa sua Charleville, finì ingloriosamente, mercè i prussiani del feldmaresciallo von Moltke, il secondo impero francese di Napoleone terzo, era il 1870. Se ne andò a Parigi dove i “comunardi” avevano ristabilito una repubblica a misura d’uomo, e l’avventura fece così paura al governo borghese di Versailles che la “Comune” venne spenta in un bagno di sangue, proletario. Il giovane Rimbaud visse in quei tempi di restaurazione. Fu scrittore e poeta giusto per quattro o cinque anni, bastarono per diventare uno dei poeti più importanti e affascinanti e difficili della moderna letteratura europea. Alcune delle poesie di Marc, come scrive Dettori nell’introduzione, forse fra le più intense della raccolta, vi affondano le radici. Le altre stelle a cui guarda sono Campana e Pasolini, Senghor e Yassin Hussin e Sergio Atzeni.  A lui Porcu dedica addirittura il libro: “A Sergio, mio fratello non nato dal ventre della stessa madre, che ci lasciò nello stesso mare…” E a “Ciu Grillu” mio nonno che dal mare di sant’Antioco lasciò la Sardegna”. E ad Annick, che da anni è la compagna della vita… Ai loro sogni… Di Sergio Atzeni Porcu ha tradotto quasi tutti i libri (manca giusto Bellas Mariposas), è per questo che quando gli dico che sono guspinese mi sbalordisce vantando una conoscenza inaspettata del paese. Ma ripensando al “Figlio di Bakunin”, in cui Atzeni scrive di Montevecchio e del paese di suo padre Licio, tutto mi torna chiaro. E poi lo sbalordisco io quando gli dico: “Licio Atzeni era compagno di scuola di mia madre, l’unico in classe che portasse le scarpe negli anni venti del novecento, che suo padre faceva il calzolaio”. In quegli stessi  anni il nonno di Marc, pescatore di Sant’Antioco, già combattente con la Brigata Sassari, piuttosto che vivere in una Sardegna che si era consegnata ai fascisti del Duce, presa barca e moglie incinta, con loro il cane di casa, veleggia verso le coste africane e sbarca in Tunisia. Non la lascerà più. E la Sardegna sarà per Marc l’isola raccontata, magnificata sempre e impressa come sigillo in ceralacca sui suoi geni paterni, sul cognome che porta: Porcu, ce ne è uno di più sardo? E questa isola che non calpesterà prima dei suoi tredici anni diventa inevitabilmente parte della sua poetica. Dice Tonino Mulas, presente insieme alla moglie Pasqualina DeRiu che fa una introduzione puntigliosa al libro di Marc, “tra le più belle poesie che io abbia mai sentito dedicate alla Sardegna”. “Ritorno in Sardegna”:  “… sulla strada bianca/ scoprire l’alfabeto dei gesti/sul bordo dei crepacci/ la lussuria del cardo/ i passi dissolti dal vento”. “ Vecchie donne di Sardegna”: “…sotto i lembi della notte/ scivolano i loro capelli di neve/ sparsi dal tempo/ in questo paese arroventato”. E nella “Lettra a Gramsci”: “…Ti scrivo in poesia, Gramsci/ lingua senza altro padrone tranne il ritmo/ del corpo rifugio della verità non alterata/ quando discorsi di cristallo e ferro/ tagliano le labbra ai figli e piagano/ le mani ai padri”.  E quando Marc, su preghiera dei presenti, si mette a declamare in francese, pare che un ruscello di significati venga a spandersi come cascata inarrestabile di fiume a primavera. Conta questa volta anche “le phisique du role”: Marc Porcu, credo non sia io il primo a ricordarglielo, pare un moschettiere della regina, alto com’è e con quei capelli lunghi,baffi e pizzetto alla D’Artagnan. Viene da una scuola in cui si impara presto a “essere duri”, la banlieue di Lione è come quelle di ogni città del nostro mondo popolata dalla gente più fragile, la più emarginata, quella che deve strappare coi denti i diritti alla vita, qui Marc ha insegnato per anni ai ragazzi più problematici , con situazioni famigliari le più  disparate e disperate nello stesso tempo. In questo libro una delle liriche è per la morte di un ragazzino, scambiato per il fratello “delinquente”, a un posto di blocco della polizia, sul suo motorino, con il casco regolamentare che ha aiutato il destino nell’equivoco di tragedia. Non è un libro di sole poesie questo, intanto vi sono foto in bianco e nero di Louis Sclavis, uno dei più importanti jazzisti francesi della sua generazione, clarinettista di vaglia internazionale, che ha ereditato dal padre anche l’amore per la fotografia, collabora infatti con gli artisti della “Magnum” (quella di Robert Capa e Henry Cartier- Bresson) fin dal 1982. Con lui e col figlio Dimitri, anche lui buon jazzista, Marc partecipa spesso a festival di poesia internazionale. Ma è capace di andare anche a Buocammino a declamare le sue poesie ai detenuti, come ha fatto nel dicembre dell’anno scorso. A Pasqualina che ha letto la sua poesia come fatta di isole che uno si porta dentro di sé, col navigare metafora del pensare, negandole una connotazione meramente autobiografica Marc risponde di una sua poesia come sabotaggio, come veglia anche sulla lingua dei poeti, come testimonianza e presa di coscienza, col dispiacere che essa non riesca, da sola, a cambiare il mondo. Dice anche che questo libro “è un romanzo”, a pag.115: “…Noi provenivamo da un Altrove, dalle isole del Mediterraneo e dall’Africa degli esiliati, potevamo dare colori stravaganti alle vocali ma erano le sillabe a tradirci come le nostre abitudini alimentari e i nostri riti tribali”. Considerando che i suoi scritti si pubblicano oramai da trent’anni quest’ultimo può ben definirsi una sorta di compendio di vita, impastato coi ricordi di una Tunisia in cui ebbe in sorta di assistere al ritorno del leader rivoluzionario Burghiba, il padre che lavorava a costruire una diga sul confine algerino, madre analfabeta che lavorava dall’età di otto anni nelle case dei “ricchi”. La Francia che gli darà lingua e identità, la traduzione dall’italiano di scrittori quali Luciano Marroccu, Sergio Atzeni, Flavio Soriga, Giovanni Dettori. Un nonno che pescava anche con le bombe tanto da perderci una mano. Una volta che ad Asiago Marc era con Rigoni Stern , indimenticabile scrittore de “Il sergente nella neve”, gli disse: “Stai camminando sulle ossa dei tuoi antenati”, riferendosi ai caduti sardi della Brigata Sassari, tra i più numerosi dell’esercito italiano. Scrive giustamente Dettori nella prefazione: “C’è un’isola e un antenato mitico all’origine della poesia di Marc Porcu, o meglio: in principio era un’isola e un antenato che si fece mito. Che poi si farà poesia”.

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