L’arresto del leader carismatico del Rif, Nasser
Zefzafi, non ferma la protesta dei pescatori berberi in Marocco. Sono poveri e
arrabbiati.
Determinati a scendere in piazza finché il re non darà risposte concrete.
Sui media
francofoni adesso trionfa l’immagine e la storia di una donna: Nawal Ben Aissa, marocchina,
trentasei anni e quattro figli (leggi, ad esempio, Nawal
Ben Aissa, figure montante de la contestation dans le Rif marocain).
Capelli biondi e lisci, niente velo, jeans e t-shirt, è la portavoce ufficiale del movimento
sociale spontaneo hirak, che da mesi riempie le piazze con le
rivendicazioni del popolo.
«Non appartengo a nessun partito, associazione o
sindacato», assicura lei. Anche
Nawal come Nasser (accusato di aver «insultato l’imam, seminato odio e pronunciato
discorsi provocatori», e perciò in carcere dal 31 maggio scorso) arringa bene
il popolo.
«Mi rivolgo
ai marocchini: il Rif è dissanguato! Lo
Stato ci opprime. Tutti i diritti dei rifains sono calpestati». È molto
temeraria perché non ha nulla da perdere e inoltre è sostenuta dalla sua
famiglia. «Posso essere arrestata in qualsiasi
momento – dice – ma la prigione è per me un onore. Combatto per dei
diritti universali: quello all’istruzione e alla sanità».
Le forze dell’ordine al soldo di re Mohammed VI, che pensavano d’aver interrotto il crescendo di contestazioni al nord, si ritrovano per le mani un osso
ancora più duro. L’arresto di Nasser Zefzafi doveva servire a smorzare
l’effetto domino. Così non è stato. Il testimone passa a Nawal. Che usa i
social, sta sul pezzo, rilascia interviste ai quotidiani francesi e spagnoli.
Affronta argomenti davvero concreti. Ed inoltre, essendo una donna libera,
piace anche ai francesi perché icona della ribellione al femminile.
«Non abbiamo un ospedale in grado di
curare le donne malate di cancro al seno – dice lei a le Monde – Ho
incontrato donne che non si possono permettere di pagare cento dirham (nove
euro) per le analisi». Nawal posta video su facebook, si schiera apertamente
dalla parte delle sue coetanee senza voce.
Il re invece
in questo braccio di ferro è perdente, quanto meno agli occhi dei media
europei. Molto concentrato su mega-progetti
urbanistici e commerciali finanziati da cinesi e monarchie del
golfo, trascura le rivendicazioni dal basso. I soldi per gli ospedali del Rif
non si trovano, quelli per rinnovare il mall più grande d’Africa (settantamila
metri quadrati su tre livelli) invece sono stati già spesi.
Presto a
Rabat svetterà la torre-grattacielo più alta d’Africa, frutto di una joint-venture con i cinesi.
Sul sito
ufficiale del faraonico centro commerciale di Casablanca Golfo-style è
partito il countdown: mancano poco più di
cinquanta giorni al Morocco Mall shopping festival, alla sua terza edizione.
Un’orgia di consumi, concerti, feste, acquisti. Ma non c’è solo questo: i
giornali sono pieni di notizie di “grandi opere” che altereranno decisamente lo
skyline delle città marocchine. Come il progetto del mega-parco industriale vicino Tangeri,
finanziato dai cinesi.
Cosa chiede
invece il popolo del nord berbero, escluso dalla mania di grandeur del re?
Anzitutto che la principale attività produttiva, la
pesca, sia promossa e non boicottata.
La storia di Mouhcine Fikri , il
trentunenne pescivendolo ambulante,
rimasto ucciso nell’ottobre scorso mentre cercava di recuperare da una
discarica la sua merce (pesce spada la cui vendita è vietata in certi mesi
dell’anno), è rimasta nel cuore di Al Hoceima. La
sua morte brucia ancora. Più passa il tempo e meno la gente dimentica.
Mouhcine è adesso un simbolo. Impresso persino in un disegno che lo
rappresenta. Gridare il suo nome è ancora una costante in piazza. Il divieto di
pesca delle sardine e di altre specie, ostacola non poco i pescatori dei
villaggi che vivono di questo e di turismo. Ma si tratta per lo più di turismo
interno e molto concentrato in alcuni periodi dell’anno. I marocchini berberi
vogliono di più: vogliono potersi curare liberamente, ad esempio. Chiedono poi
scuole. Università, strade. Acqua. Le risposte sono lente e le promesse non
bastano.
La
ricercatrice e sociologa Khadija Mohsen Finan della Sorbonne spiega che «le
rivendicazioni sociali ed economiche parlano di un malessere profondo. La gente
chiede lavoro e dignità, di
avere ospedali e università. Non so se si tratta proprio di un divorzio tra il
re e la regione del Rif. Ma c’è sicuramente un distacco dalle grandi città, che
invece sono molto sviluppate».
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