Il surplus –
l’eccedenza – di messaggi e di energia negativa dell’evento, e il deficit di
pensiero con cui è stato elaborato. L’accaduto è (non riesco a trovare altra
parola) “inusitato”: una folla ferma, ordinata, fino ad allora tranquilla d’improvviso
impazzisce, senza altra apparente ragione se non la folla stessa. Qui non ci
sono hooligans che aggrediscono, come all’Heysell trent’anni fa. E nemmeno un
attacco terroristico: di terroristi nemmeno l’ombra, solo molto terrore
sottocutaneo che evidentemente attraversava come una corrente elettrica quella
massa di corpi assiepati. Per tre giorni si è cercato un episodio,anche minimo,
che possa aver scatenato il panico: un petardo, uno spray urticante, delle urla
minacciose, un gesto provocatorio. Nulla. Almeno fino ad ora. Tutto sembra
parlare di un fenomeno (“inusitato”, appunto) di autocombustione della folla.
Di un evento (terribilmente distruttivo) privo di causa efficiente. E di un
“autore”.
È questa la cosa – il monstrum,
grande come una piazza grande – su cui dovremmo alzare l’allarme e applicare il
cervello: questa gigantesca sindrome mentale che ci rende irriconoscibili a noi
stessi (e inspiegabili), materializzatasi nel cuore di Torino. E invece è
partita subito la banale caccia all’errore da cronaca quotidiana, la più trita
polemica politica sulle colpe amministrative e sui loro colpevoli: il prefetto,
il questore, il sindaco, il capo dei vigili, che pure qualche errore avranno
fatto se alla fine si sono contati oltre 1500 feriti (in gran parte, bisogna
dirlo, non gravi). Ma che non possono certo essere indicati all’origine del
disastro (a meno di pensare che un’ordinanza, qualche transenna meglio
posizionata, un centinaio di vigili o agenti in più avrebbero potuto per
miracolo arginare quel fiume di folla impazzita). E la focalizzazione sui quali
serve solo a rassicurare e rimuovere il carattere tremendamente perturbante dei
fatti.
Invece quel perturbante dobbiamo tenerlo
ben fermo davanti agli occhi. Per decodificare ciò di cui ci parla. E la prima
cosa che ci dice, attraverso quelle immagini notturne, un po’ gotiche, di
quella piazza in preda ai fantasmi, è che siamo cambiati. Nel profondo. La
guerra a bassissima intensità che da anni si combatte nel cuore d’Europa (a
fronte di quella ad altissima intensità che si consuma oltre i suoi confini),
questa guerra le cui armi sono coltelli, martelli, furgoni, Suv Van e Tir,
oggetti domestici o quasi, ha avuto in realtà un fortissimo impatto mentale,
sulla nostra sfera psichica. Quello stillicidio di attacchi, da Charlie Hebdo a
Bataclan a Nizza Berlino Londra Manchester… ha depositato sul nostro sistema
nervoso collettivo una pellicola tossica. Ha riconfigurato i nostri
neuroni-specchio sui codici del panico. E ha abbassato la soglia di allarme fin
quasi a zero, così che il meccanismo della chiusura difensiva verso ogni altro
scatta pressoché “per nulla”. Siamo davvero tutti dei “mutanti”, anzi ormai dei
mutati.
La seconda cosa che Torino ci dice è che
la profezia annunciata dalla signora Thatcher all’inizio degli anni ’80, si è
pienamente adempiuta. «La società non esiste, esistono solo gli individui»,
predicava. E in effetti in quello spazio pubblico per eccellenza che è la
piazza centrale della città la Società non c’era. C’erano solo individui. Atomi
solitari, ognuno accecato da un «si salvi chi può» esclusivo, arrestato al
confine del proprio Io. Ognuno in guerra disperata col proprio vicino in una
fuga da non-si-sa-cosa verso non-si-sa-dove… Chi c’era racconta cose che chiede
di non ripetere, di nasi fratturati a gomitate, gambe storpiate, bambini
calpestati e neppur visti, abiti stracciati nel tentativo di sopravanzare chi
era davanti come ostacolo, i più fragili abbattuti dai più muscolosi, i più
lenti dai più veloci… È come se lì si fosse materializzata, in forma di girone
infernale, l’immagine plastica del paradigma che definiamo “neo-liberista”. La
potenza dissolvente del suo negativo, in una rappresentazione drammaturgica del
suo individualismo possessivo, anzi predatorio. La sua competitività – il suo
mors tua vita mea – eletta a dato strutturale e naturale. La rottura dei legami
sociali visti come ostacolo e rallentamento. L’assenza di senso che non sia
quello del mero sopravvivere. La dissoluzione di ogni lavoro – anzi “mestiere”
– in astratta ed effimera funzione. Non è senza significato che gli unici
“eroi” di quella notte, coloro che hanno fatto scudo e salvato Kelvin, il
bambino di origine cinese, siano un bodyguard nero e un ex soldato italiano,
due che hanno ritrovato nella propria “professione” la risorsa per “restare
umani”. E che il giovane che, a braccia larghe, si sforzava di calmare i vicini
perché non era “successo niente” – uno dei pochi “spiriti critici” in quella
follia – sia stato selezionato come possibile colpevole, fermato e interrogato
per ore.
Curare questa doppia sindrome dovrebbe
essere compito della politica. Che invece oggi più che mai mostra la propria
miseria, miopia e, in qualche caso, vocazione sciacallesca, nel ricercare nel
proprio competitor immediato il colpevole di tutti i mali.
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