Passano gli anni e le stagioni e il calendario, inesorabilmente,
torna a fermarsi a quel giorno. 5 giugno ed è una stretta al cuore. 5
giugno, il giorno della nascita e della morte di Dino Frisullo.
Nei momenti più difficili e drammatici, quando annaspiamo nella folle corsa
mozzafiato di questo nostro mondo traboccante di iniquità e ingiustizia, di
disumanità e barbarie, nelle curve più pericolose, nelle vette più ripide, il
suo volto, il suo esempio, il faro che ha illuminato ci compaiono davanti e ci
danno forza. Ma il 5 giugno è sempre una stretta al cuore, è il giorno in cui
il dolore si rinnova più che mai.
Come ricordarlo
degnamente? Come
cercare di essere all’altezza del testimone che ci ha lasciato? È difficile
rispondere davanti a una militanza totale e appassionata, dalle mille e più
esperienze. In questi ultimi mesi probabilmente la commemor-azione più vera e
forte l’abbiamo avuta il 14 settembre a Piacenza: Abdesselem el Danaf che stava
lottando per i diritti di tutti, impegnandosi per lavoratori che vivevano una
precarietà e uno sfruttamento che non lo coinvolgevano in prima persona, ha
raccolto nella maniera più vera e sentita il testimone dell’impegno e della
passione di Dino (anche se chissà se ne ha mai sentito parlare o l’ha mai
conosciuto…). E fa tornare alla mente un altro che non è più tra noi, ricordato
ormai da pochissimi, Mohammad Muzaffar Alì, Sher Khan.
Ma non basta rinnovare il dolore, lasciare che nuove lacrime solchino i
nostri volti. Se ci fermassimo a questo, se rimanessimo fermi e immobili
aspettando che il calendario scorra da solo, non serviremmo a nulla. Tradiremmo
la memoria di Dino, di Abdesselem, di Sher Khan. Davanti al 5 giugno di Dino,
che implacabile torna, non abbiamo altra scelta che commemorare, che cercare di impegnarci
per rinnovare la storia di coloro che, da sempre, si son schierati con gli
ultimi e
gli indifesi, con i deboli e i senza-voce, gli impoveriti e gli emarginati di
ogni latitudine. Per Dino c’era solo un filo della lettura del mondo. Ed era,
anzi è, questo. È quel filo che univa le corse in bicicletta da Bari a Roma, per poter lasciare il
rimborso ferroviario agli operai “fino a quando te lo potevi trovare al
mattino, sdraiato davanti alla tua porta di casa a dormire” che ti dava il
buongiorno dicendo “Sono arrivato tardi. Non ho suonato per non disturbarti e
mi sono messo qui” come ha raccontato Eugenio Melandri, l’impegno per un
migrante rimasto senza documenti, per i naufraghi del Natale 1996 denunciando
le mafie dei trafficanti e al fianco dello straordinario e perseguitato popolo
curdo, contro tutte le guerre e per i diritti degli altri fino a dimenticarsi
completamente di ogni propria esigenza personale.
È quel
filo rosso, rosso sangue, che unisce mai come oggi tutte
le latitudini. Dalla Siria al Kurdistan, dall’Iraq all’Afghanistan (sedici anni
di guerra mai ininterrotta, chi si accorge che ancora oggi lì si muore,
quotidianamente assassinate dalle guerre dei “nostri governanti”?!) dai
lavoratori a cui viene tolto ogni diritto alle donne sfruttate, violentate, stuprate
(anche a pochi passi da noi, nel silenzio e nel disinteresse più totale, ma non
vien la nausea, un immenso dolore fisico, come è possibile dormire la
notte davanti alla denuncia documentata della più turpe schiavitù sessuale nel
ragusano?), dai bambini congolesi imprigionati nelle miniere del coltan a chi
la crisi economica (anche nella nostra civile e moderna Europa) ha tolto anche
un tetto, dai malati a cui non viene garantito il diritto alla dignità e alle
cure alle vittime (di ogni età, troppo spesso anche bambini di pochi mesi)
nella “Terra dei Fuochi” o nella Taranto prigioniera dell’inquinamento più
massiccio del continente. E l’elenco potrebbe continuare per ore e ore. E
troppo spesso in primo piano, nelle “discussioni politiche” che di politico non
hanno nulla ma puzzano di compromesso, di meschini interessi di bottega, di
disinteresse di chi non sa (e non vive) cosa quotidianamente accade, le
vittime, i più deboli, coloro che non hanno scuderie e cancellerie dei grandi
interessi vengono dimenticati. Trionfano, anche in quella che dovrebbe essere
la “sinistra”, la geopolitica, il campismo, lo schierarsi con un potere
piuttosto che un altro, la “ragion di stato” e di convenienza. Lo abbiamo visto nella Taranto dell’Ilva
e sulla Siria, ma che senso ha continuamente pensare a Trump e Putin, Assad e
l’Iran ma, al centro, non porre il popolo siriano, le famiglie costrette a
fuggire e i bambini che mai hanno saputo cosa significa giocare su un verde
prato in una bella giornata di sole?!
Riccardo Orioles pochi giorni dopo la morte di Dino scrisse che era
appartenuto alla storia di coloro “raramente a proprio agio nei palazzi, il
loro ambiente naturale era la vita dei poveri, la strada. Il loro modo
d’esprimersi, un po’ impacciato e timido nei dibattiti ufficiali, attingeva
un’eloquenza inaspettata negli appelli di piazza o anche – come nel caso di
Dino – davanti ai giudici militari”. E che, davanti a tutti noi, ci lascia due
strade: “La sinistra dei binghi, dei salotti romani e dei compromessi, oppure
la sinistra degli organizzatori, delle testimonianze di vita, dei compagni. Non
è possibile essere tutt’e due: c’è da fare una scelta”. Si
torna a sentire la vicinanza delle elezioni politiche e, puntualmente, stanno
tornando tutte le ritualità e le dinamiche che da tanti, troppi
anni, vediamo sempre in azione. La “lista della sinistra”, “l’unità delle
sinistre”, “l’unità dei comunisti”, le riunioni e i dibattiti di segreterie e
grandi “esperti”, non ripeteremo arcobaleni e rivoluzioni civili, ecc. ecc. Ma si
riuscirà mai, per dirla con don Lorenzo Milani, a far strada agli impoveriti
senza farsi strada, lasciar parlare chi non ha passerelle e cancellerie senza
che alla fine trionfino il politicismo e gli interessi particolari? Lasciar parlare chi è rimasto per
strada senza che alla fine diano carte i palazzi? Portare al centro della
politica gli ultimi, gli emarginati, gli impoveriti, i lavoratori, chi lotta
contro le ingiustizie, le mafie, la disumanità e la barbarie delle guerre,
facendo quanti più passi indietro perché siano loro a farne almeno una volta,
almeno uno, avanti? La discriminante, l’asse intorno a cui tutto sta già
ruotando, è la domanda “quanto sono lontano da Renzi e dal Pd?” (con poche
varianti è la stessa da illo tempore. Per carità, non che non condivida, anzi,
chi sta scrivendo queste righe la distanza incolmabile la vedeva già ai tempi
del primo Prodi e del D’Alema premier).
Ma non
sarebbe quasi ora di domandarsi, anche se non so quanti hanno
fratelli che sono figli unici, se siamo ancora convinti che esistono gli sfruttati,
i malpagati, i frustati, i calpestati e gli odiati e
la vicinanza/distanza da loro?
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