giovedì 8 giugno 2017

La guerra di religione a Standing Rock - Francesco Martone

Terroristi di stile jihadista, una forma di insorgenza ideologizzata con forte componente religiosa”, questi i termini usati per descrivere i difensori dell’acqua di Standing Rock, che nel corso di vari mesi si sono opposti alla costruzione della Dakota Access PipeLine su terre ancestrali del popolo Sioux.
La rivista The Intercept ha reso pubbliche a fine maggio un centinaio di corrispondenze interne di un’agenzia privata di sicurezza, la TigerSwan, che ha lavorato con polizie di almeno 5 stati per contrastare con metodi di contro-terrorismo e contro-insorgenza le mobilitazioni contro la DAPL. I documenti contengono informazioni dettagliate sulle tattiche di sorveglianza, schedatura e collaborazione con le polizie locali e di stato. Proprio a Standing Rock si è mostrata con evidenza la deriva delle forze di polizia sempre più militarizzate e addestrate a tattiche di guerra contro la protesta e le mobilitazioni sociali.
Non è un caso allora che TigerSwan abbia costruito un’immagine dei difensori dell’acqua che giustifica l’adozione di strategie simili a quelle utilizzate contro il DAESH, essendo la mobilitazione contro le “pipeline”, considerata come una minaccia di lunga durata che giustificherebbe uno stato di emergenza continuo anche dopo la costruzione della DAPL. In effetti anche ora, a oleodotto completato, TigerSwan continua ad operare per contro della compagnia Energy Transfer Partners, estendendo il suo raggio di azione ed intelligence contro le mobilitazioni contro oleodotti e gasdotti che si stanno moltiplicando in tutto il paese.

Il caso di Standing Rock non è un caso isolato, anzi replica un paradigma di criminalizzazione dei movimenti per la difesa della terra e dell’ambiente ormai diffuso a macchia d’olio in ogni parte del pianeta. Movimenti e leader indigeni ed indigene, contadini, attivisti ed attiviste per l’ambiente oggi sono sulla prima linea di trincea. Lo dimostrano i dati: dei 282 difensori e difensore dei diritti umani uccisi ed uccise nel 2016 almeno la metà erano attivisti ed attiviste di popoli indigeni o ambientalisti e ambientaliste. I dati di FrontLine Defenders rispecchiano quelli raccolti nel rapporto sui difensori dell’ambiente e della terra presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal Relatore Speciale ONU per i Difensori dei Diritti Umani, Michel Forst.
E sono dati che chiaramente svelano una forte correlazione tra l’aumento esponenziale delle aggressioni e omicidi mirati di attivisti per la terra e l’ambiente e l’espansione delle frontiere estrattiviste in ogni parte del mondo, dimostrazione ulteriore dell’enorme impatto non solo socio-ambientale ma anche sui diritti umani e la democrazia provocato  dal modello di sviluppo dominante. A ben guardarli, quei dati, vien da pensare: secondo Global Witness, dei 185 difensori della terra e dell’ambiente uccisi in 16 stati nel 2015 (un aumento del 59% dall’anno precedente, una media di oltre 3 attivisti e attiviste uccisi e uccise a settimana), almeno 42 sono stati uccisi per essersi opposti ad attività minerarie o estrattive, 15 per la loro resistenza alle grandi dighe o per la protezione dell’acqua, 20 per opporsi all’agribusiness e 15 per le loro attività contro l’estrazione illegale di legname.

Esiste quindi un filo rosso che lega i nostri modelli di consumo  fondati  sull’estrazione crescente di risorse e valore dalla terra, e l’aggressione continua ai difensori dell’ambiente e della terra. Un’emergenza che dev’essere affrontata e messa a nudo in ogni occasione. Ad esempio, guardando al tema del clima e dei mutamenti climatici risulta evidente che a fronte della mancanza di determinazione e volontà politica della comunità internazionale di aggredire alla base le cause del cambiamento climatico, in primis la dipendenza da combustibili fossili, (nel caso degli Stati Uniti dalla decisione di Donald Trump di abbandonare l’accordo di Parigi, non che il liberalissimo Canada di Justin Trudeau non sia anch’esso attraversato da mobilitazioni indigene contro le “pipeline”) una delle possibili vie d’uscita sarà quella di rafforzare le mobilitazioni e vertenze dal basso.
Questo significa ad esempio riconoscere il ruolo centrale dei popoli indigeni e delle comunità locali nelle attività di adattamento e mitigazione, visto che da secoli attraverso l’utilizzo della loro conoscenza tradizionale riescono ad assicurare una gestione efficace delle risorse naturali, ad esempio le foreste. O mettere in atto pratiche di adattamento ai mutamenti climatici. Inoltre,  attraverso le mobilitazioni e iniziative di resistenza all’invasione delle loro terre da parte delle imprese petrolifere e del fossile, contribuiscono nei fatti a tenere il petrolio ed i fossili sotto terra, riducendo così le emissioni di gas serra.
Ed invece come dimostra il caso di Berta Caceres, o i numeri stessi di Global Witness, chi difende la terra, la Madre Terra, e protegge il clima viene ucciso o perseguitato. E non solo altrove. Anche da noi in Europa ed in Italia lo spazio di agibilità dei comitati, e delle organizzazioni che lavorano per proteggere la terra e l’ambiente viene sempre più compresso. Non si arriva ai casi estremi registrati altrove, ma si notano strategie ricorrenti di restrizione dell’agibilità e di criminalizzazione della protesta e della protezione della terra e dell’ambiente.

Dalla definizione di cantieri di infrastrutture strategiche come zone rosse, alla militarizzazione del territorio, all’equiparazione di chi si oppone alle grandi opere a nemico dell’interesse nazionale, all’uso strumentale della legge per accusare chi assicura il diritto all’informazione  di diffamazione, alla delegittimazione, queste sono le strategie ricorrenti. Ne è prova la Val di Susa, ma ne sono prova le esperienze vissute anche da altri comitati locali che resistono. Vale la pena a tal riguardo ricordare l’importante sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli proprio sulle Grandi Infrastrutture, e sulla criminalizzazione dei movimenti ambientalisti, una traccia ricorrente nelle sessioni del Tribunale dedicate alle imprese ed ai diritti dei popoli.
Nella sua sentenza sui “Diritti Fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere. Dalla Tav alla realtà globale” emessa a Torino nel novembre 2015, il Tribunale ha  dichiarato nel caso della Val Di Susa, che “Il controllo militare del territorio nella zona del progetto di Val di Susa costituisce un uso sproporzionato della forza. In uno Stato democratico in tempo di pace, l’esercito non può intervenire su affari interni, limitando i diritti di cittadinanza garantiti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalla Convenzione europea dei diritti umani.”
Chi siano oggi i difensori della terra e dell’acqua nel nostro paese e come lavorare assieme per assicurare il diritto all’agibilità democratica, ed al rispetto della libertà di iniziativa politica e sociale, sarà un compito essenziale per chi oggi si batte per la protezione dei difensori dei diritti umani in altre parti del mondo. Su questi temi è particolarmente attiva ora in Italia la rete “In Difesa Di – per i diritti umani e chi li difende” (www.indifesadi.org) Un primo importante passo potrà essere rappresentato dalle iniziative organizzate da movimenti e società civile a Bologna in occasione del vertice del G7 ambiente, che verranno aperte proprio dai rappresentanti dei movimenti e comitati locali che resistono alle grandi opere, all’estrazione petrolifera, ed alla costruzione del gasdotto TAP, assieme ad un rappresentante dei “water protectors” di Standing Rock.

Già perché esiste un neanche tanto sottile filo rosso che lega Standing Rock a chi si batte per proteggere il proprio ecosistema nel nostro “Sud”. Ce lo dice chiaramente Alberto Saldamando, avvocato per i diritti dei popoli indigeni per l’Indigenous Environmental Network , attivo in sostegno alle mobilitazioni contro il DAPL, incontrato di recente a Bonn in occasione dei negoziati ONU sul Clima:” Dobbiamo sostenere le comunità in resistenza ovunque nel mondo. Gli indigeni non hanno il monopolio delle connessioni spirituali con la terra. Anche chi da voi lotta per proteggere ulivi secolari lo fa perché quegli ulivi sono stati curati per generazioni, esiste una relazione intrinseca con l’ecosistema, chi li protegge ha acquisito una profonda conoscenza del proprio ambiente e della propria terra. Per questo noi non consideriamo la vittoria o la sconfitta come una delle possibili prospettive. Noi guardiamo alla lotta, alla lotta spirituale, ci rivolgiamo alla Terra ed ai nostri antenati, questa è la nostra forza, possono fare qualsiasi cosa, militarizzare la nostra terra, metterci in galera, ma non ci fermeranno”.

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