Zone rosse…di vergogna
incostituzionale - Vincenzo
Scalia
L’istituzione
delle zone rosse nelle grandi città, attraverso la direttiva ministeriale del
17 dicembre 2024, rappresenta il punto di arrivo di un processo di
ridefinizione degli spazi urbani e della vita sociale iniziato oltreoceano
negli anni novanta del secolo scorso.
(da Sinistra
Sindacale)
Il sociologo statunitense Mike Davis, analizzando il
contesto metropolitano di Los Angeles di trent’anni fa, evidenziava una
tendenza alla distruzione dello spazio pubblico. I luoghi urbani abdicavano al
loro ruolo di aggregazione, di incontro, di scambio, per trasformarsi in
contesti deputati al mero consumo e alle interazioni di mercato, da fruire e
attraversare per il periodo di tempo necessario ad usare gli esercizi
commerciali.
In altre parole, si può prendere un hamburger al Mc
Donald’s, visitare i negozi delle catene internazionali, ma poi bisogna
andarsene. La presenza nei centri urbani è consentita solo per scopi
funzionali. Non a caso, nei paesi anglosassoni, esiste il reato
di “loitering”, ovvero di bivacco, che colpisce chi non ha una ragione
giudicata fondata dalle autorità per trovarsi in un luogo.
La posta in gioco in questo processo, come mostrò la
politica di “tolleranza zero” implementata sul versante orientale, a New York,
dal sindaco Rudolph Giuliani, è evidente. Da un lato si punta a portare avanti
progetti di riqualificazione urbana che assecondano le esigenze della rendita
fondiaria: centri direzionali, alberghi, shopping center e negozi di generi di
lusso sono molto più lucrativi del fornaio di quartiere o del biciclettaio
dell’angolo. Dall’altro lato, la realizzazione di questi progetti si compie
attraverso una vera e propria opera di bonifica sociale, che incrocia la
domanda di sicurezza, ovvero la paura del pubblico, nei confronti di individui
e gruppi sociali considerati pericolosi.
Nomadi, migranti, senzatetto, sex workers, attivisti
politici, vale a dire gli esclusi, gli oppositori e i marginali della società
del consumo globale, percepiti come una minaccia dalla società affluente, vanno
rimossi dal tessuto urbano, sia in quanto elementi antiestetici e
disfunzionali, sia come potenziali molestatori.
La direttiva ministeriale, oltre a muoversi in questo
solco, si spinge anche oltre. In primo luogo perché individua delle specifiche
categorie sociali giudicate pericolose. Si parla esplicitamente di persone che
hanno precedenti penali, in particolare per furto, reati connessi al possesso e
all’uso di sostanze, alla violazione delle leggi sul porto d’armi e ai reati
contro la persona. Una definizione a maglie strette, ma assolutamente gravida
di pregiudizi. Innanzitutto perché presuppone la recidività, stabilendo
l’esistenza di una vera e propria propensione a delinquere da parte di chi
commette certe tipologie di reato. Inoltre perché, su una questione controversa
relativamente all’uso e al consumo di sostanze, sorvola sul fatto che il
processo di criminalizzazione è stato portato avanti sull’onda di due leggi
molto discutibili, come la Jervolino-Vassalli e la Bossi-Fini. Laddove altri
paesi, cominciando per esempio a legalizzare la cannabis, si muovono su binari
diversi.
In secondo luogo, la direttiva delega al controllo
capillare da parte delle forze dell’ordine l’individuazione dei presunti
profili criminali. Se da un lato non potrebbe essere diversamente, dal momento
che i microchip che Philip Dick immaginava nei suoi romanzi sono ancora (per
fortuna) di là da venire, dall’altro lato è fin troppo evidente chi saranno i
destinatari dell’azione selettiva dei corpi preposti alla repressione.
Dubitiamo che un poliziotto fermerà mai un manager in
grisaglia per controllare il contenuto della sua 24 ore, o una signora in
tailleur Armani per accertarsi che il secchiello dernier cri di Luis Vuitton
non contenga sostanze illecite. Né accerterà le loro generalità in questura per
conoscerne la fedina penale.
Ad essere fermati saranno i soliti noti, quelli che
hanno il colore sbagliato della pelle, che parlano male italiano, che vestono
in modo trasandato, che stonano con l’immensa vetrina a cui, ormai da anni,
sono stati ridotti i nostri centri storici. Controlli che si aggiungono a
quelli che già questi gruppi sociali subiscono quotidianamente nei loro luoghi
di residenza, destinati ad alimentare la spirale di criminalizzazione.
Se poi mettiamo le zone rosse in relazione con il
decreto anti-rave varato dalla coalizione governativa al momento del suo
insediamento, e pensiamo al Ddl 1660 in fase di approvazione, ecco che il
cerchio si chiude. Le zone rosse re-introducono in modo surrettizio il
controllo su adunate presuntamente sediziose di persone che pensano che le
città non siano delle Disneyland a cielo aperto, ma luoghi da vivere
profondamente e quotidianamente.
Si tratta di una direttiva che viola palesemente le
libertà civili, a cui bisogna rispondere mettendo in pratica un vecchio slogan:
riprendiamoci la città. Ma facciamolo presto. Prima che ce la tolgano per
sempre.
Il triste spettacolo delle Zone Rosse - Legal Aid – Diritti in Movimento
Dopo Milano, Napoli,
Bologna e Firenze, le Zone Rosse volute dal governo arrivano a Roma, a
cominciare dall’Esquilino. L’obiettivo dell’odioso, inquietante e
anticostituzionale provvedimento dei prefetti, che limita la libertà di
movimento ad alcune categorie di persone, resta elevare la percezione della
sicurezza (negli ultimi dieci anni in Italia i reati sono calati quasi del
20%). Insomma uno spettacolo che va in scena nello spazio urbano. In una
puntuale riflessione del team di “Legal Aid – Diritti in Movimento” di Roma
(attivo nel Polo civico dell’Esquilino sui temi dell’accoglienza e
dell’inclusione sociale), tra l’altro, si legge: “Ciò incontriamo nelle nostre
missioni in strada è un’umanità persa e già concretamente e tristemente esclusa
dalle maglie urbane dei diritti sociali…”
Le ordinanze prefettizie che istituiscono le famigerate Zone Rosse, che a Roma sono ancora oggetto di dibattito politico, rappresentano quella ormai storica strategia ideata per consolidare le azioni di prevenzione e di contrasto della criminalità, non tanto per assicurare la massima sicurezza sociale, come vedremo dopo, ma per elevare la percezione della sicurezza con un atto performativo, uno spettacolo che va in scena nello spazio urbano, dove le più grandi conseguenze dell’emarginazione sono visibili. Si tratta dello stesso spettacolo che va in scena nelle frontiere europee dove parte dell’umanità viene detenuta e controllata, se non criminalizzata, alimentando una percezione di invasione. Lo strumento utilizzato da questi provvedimenti riguarda il divieto di attraversamento e stazionamento per persone già denunciate per alcuni reati indicati nell’ordinanza. Dal 2018 queste ordinanze si sono ripetute in alcune città sollevando diverse critiche da autorevoli associazioni di giuristi oltre che censure dei giudici amministrativi (TAR Toscana).
Da un punto di vista giuridico, un genere di divieto ad attraversare
zone specifiche rivolto a intere categorie di persone, attraverso azioni
che vengono demandate alle forze di polizia, viola la Costituzione che
con gli artt. 13 e 16 garantisce senza distinzioni sia la libertà di movimento
che la libertà personale. Inoltre, sul piano del diritto amministrativo sembra
gravare di irragionevolezza quando si determina l’automatismo tra le passate
denunce e i presunti comportamenti incompatibili con la “vocazione delle aree
definite come zone rosse” dalle ordinanze. Si presume infatti che le persone da
allontanare dalle aree, come per esempio la stazione di Roma Termini, possano
“impedire ad altri cittadini di fruire ed accedere a quei luoghi…”. Si tratta
di una stigmatizzazione tramite ostracismo di persone presuntivamente
pericolose.
I presupposti delle ordinanze tendono a scavalcare, mediante l’impiego
dell’art. 2 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza (un testo del 1931 che in
linea con il contesto dell’epoca offriva uno strumento di potere prefettizio “a
tutela dell’ordine pubblico”), i poteri sindacali ordinari demandati agli enti
locali proprio per gli stessi scopi attraverso i regolamenti della polizia
urbana, ai sensi del TUEL. Già la Corte Costituzionale con sentenza n. 26/1961,
ha dichiarato illegittimo questo disposto normativo del TULPS proprio in
relazione al potere prefettizio che in tale previsione lede i principi
dell’ordinamento giuridico, ovvero il sistema di controllo politico e civico
degli organi di rappresentanza popolare come i consigli comunali e le giunte.
Ma seppur fosse giustificabile tale deroga in virtù di una specifica
emergenza sociale o di ordine pubblico, l’azione di tali provvedimenti
prefettizi non è ad oggi confortata dai dati: negli ultimi dieci anni
in Italia i reati sono calati quasi del 20%. Per quanto riguarda le
stazioni ferroviarie, nel 2024 nelle aree delle grandi stazioni sono state
controllate poco più di 4 milioni di persone con un risultato alquanto modesto
che vede poco più di 1.000 arresti, circa 11.000 indagati e il sequestro di 50
kg di droga e di 250 armi (fonte Ministero Interno). Insomma, una incidenza che
non desta una straordinaria preoccupazione e che sarebbe del tutto gestibile
con le iniziative già esistenti nelle policy di prevenzione delle Grandi
Stazioni come il programma Stazioni Sicure, il Rail Safe Day, le Action Week, e
le operazioni “Oro Rosso”. Tuttavia diversi fattori contribuiscono alla
costruzione dell’ansia sociale da sicurezza; il discorso mediatico è supportato
da dichiarazioni politiche che sottolineano la necessità di interventi per
ristabilire l’ordine e la sicurezza, come l’uso del Daspo urbano e l’aumento
della videosorveglianza. La sicurezza urbana viene costruita come problema
attraverso una narrazione mediatica che enfatizza la percezione di insicurezza
e degrado, associando specifici fenomeni e soggetti marginali a minacce per
l’ordine pubblico. In sintesi anche se l’emergenza non c’è magicamente
appare.
Le zone rosse non richiamano certo criteri di efficienza ed efficacia.
Resta fuor di dubbio che si tratta di azioni che non proteggono la sicurezza
dei residenti né dei turisti ma aumentano la percezione dell’insicurezza e
specialmente per chi abita al di fuori del perimetro di queste aree
“interdette”. Ricerche sociali hanno da sempre evidenziato e dimostrato che la
sicurezza urbana si garantisce con una rosa di strumenti tra i quali certamente
non figura l’allontanamento di persone “indesiderate” dalle aree vetrina verso
altre più remote o periferiche. Come correttamente osserva l’Associazione dei
Magistrati “Area Democratica per la Giustizia”, “spostare i fattori di rischio
nascondendoli altrove, rischia di creare zone nere”, fuori dalle zone rosse. In
uno stato democratico per le autorità responsabili dell’ordine pubblico, “la
sfida dovrebbe essere quella di garantire il massimo della sicurezza e dei
diritti per tutti e tutte senza limitare le libertà personali e
costituzionali”.
A Roma si sta discutendo della zona rossa o di azione di controlli
rafforzati tra la Stazione Termini e l’Esquilino, in un botta e
risposta tra l’Amministrazione Locale e il ministero dell’Interno. A fronte
dell’ennesima azione securitaria messa in campo nella zona, diverse
reti come il Polo Civico, del quale facciamo parte come associazione Legal Aid, attiva
nella rete di Spintime, periodicamente portano avanti attività per
l’accoglienza, l’orientamento e l’inclusione sociale delle persone senza
dimora, che sostano oppure gravitano in quell’area vista la presenza di una
pluralità di servizi di tutela. Ciò che incontriamo nelle nostre
missioni in strada è un’umanità persa e già concretamente e tristemente esclusa
dalle maglie urbane dei diritti sociali. Richiedenti asilo senza
accoglienza, persone senza casa per via di un mercato delle locazioni razzista
e classista, persone migranti in transito e talvolta minori migranti non
accompagnati. Una campagna securitaria permanente, che magnifica queste
situazioni di marginalità senza risolverle ma rendendole problemi da
“spostare”, trasmette un concetto di “sicurezza” sempre più lontano dall’idea
di sicurezza sociale che potrebbe essere promossa da politiche di solidarietà e
di inclusione e dalla garanzia dei diritti sociali, civili e politici, senza
alcuna distinzione.
Il DDL 1660, noto come Disegno di Legge Sicurezza, è la cornice nella quale
questi scenari troveranno una sistematizzazione attraverso un sistema
giuridico differenziato basato sulla nazionalità o sullo status sociale,
alimentando un’ossessione per la sicurezza e giustificando politiche
repressive. Sono strategie politiche frutto di scelte ben ponderate che
accresceranno la solitudine e divideranno la comunità degli abitanti anziché
renderla coesa.
Dunque, c’è da chiedersi, quale sicurezza urbana? Quella della città sotto
assedio? Bisogna riappropriarsi dello spazio urbano come spazio pubblico, area
di coesione sociale e di consolidamento dei rapporti sociali e di solidarietà.
Il giubileo che ha questo profondo significato, non deve essere
strumentalizzato per giustificare questa guerra alla povertà.
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