lunedì 27 gennaio 2025

Zone rosse

 

Zone rosse…di vergogna incostituzionale - Vincenzo Scalia 

L’istituzione delle zone rosse nelle grandi città, attraverso la direttiva ministeriale del 17 dicembre 2024, rappresenta il punto di arrivo di un processo di ridefinizione degli spazi urbani e della vita sociale iniziato oltreoceano negli anni novanta del secolo scorso.

(da Sinistra Sindacale)

Il sociologo statunitense Mike Davis, analizzando il contesto metropolitano di Los Angeles di trent’anni fa, evidenziava una tendenza alla distruzione dello spazio pubblico. I luoghi urbani abdicavano al loro ruolo di aggregazione, di incontro, di scambio, per trasformarsi in contesti deputati al mero consumo e alle interazioni di mercato, da fruire e attraversare per il periodo di tempo necessario ad usare gli esercizi commerciali.

In altre parole, si può prendere un hamburger al Mc Donald’s, visitare i negozi delle catene internazionali, ma poi bisogna andarsene. La presenza nei centri urbani è consentita solo per scopi funzionali. Non a caso, nei paesi anglosassoni, esiste il reato di “loitering”, ovvero di bivacco, che colpisce chi non ha una ragione giudicata fondata dalle autorità per trovarsi in un luogo.

La posta in gioco in questo processo, come mostrò la politica di “tolleranza zero” implementata sul versante orientale, a New York, dal sindaco Rudolph Giuliani, è evidente. Da un lato si punta a portare avanti progetti di riqualificazione urbana che assecondano le esigenze della rendita fondiaria: centri direzionali, alberghi, shopping center e negozi di generi di lusso sono molto più lucrativi del fornaio di quartiere o del biciclettaio dell’angolo. Dall’altro lato, la realizzazione di questi progetti si compie attraverso una vera e propria opera di bonifica sociale, che incrocia la domanda di sicurezza, ovvero la paura del pubblico, nei confronti di individui e gruppi sociali considerati pericolosi.

Nomadi, migranti, senzatetto, sex workers, attivisti politici, vale a dire gli esclusi, gli oppositori e i marginali della società del consumo globale, percepiti come una minaccia dalla società affluente, vanno rimossi dal tessuto urbano, sia in quanto elementi antiestetici e disfunzionali, sia come potenziali molestatori.

La direttiva ministeriale, oltre a muoversi in questo solco, si spinge anche oltre. In primo luogo perché individua delle specifiche categorie sociali giudicate pericolose. Si parla esplicitamente di persone che hanno precedenti penali, in particolare per furto, reati connessi al possesso e all’uso di sostanze, alla violazione delle leggi sul porto d’armi e ai reati contro la persona. Una definizione a maglie strette, ma assolutamente gravida di pregiudizi. Innanzitutto perché presuppone la recidività, stabilendo l’esistenza di una vera e propria propensione a delinquere da parte di chi commette certe tipologie di reato. Inoltre perché, su una questione controversa relativamente all’uso e al consumo di sostanze, sorvola sul fatto che il processo di criminalizzazione è stato portato avanti sull’onda di due leggi molto discutibili, come la Jervolino-Vassalli e la Bossi-Fini. Laddove altri paesi, cominciando per esempio a legalizzare la cannabis, si muovono su binari diversi.

In secondo luogo, la direttiva delega al controllo capillare da parte delle forze dell’ordine l’individuazione dei presunti profili criminali. Se da un lato non potrebbe essere diversamente, dal momento che i microchip che Philip Dick immaginava nei suoi romanzi sono ancora (per fortuna) di là da venire, dall’altro lato è fin troppo evidente chi saranno i destinatari dell’azione selettiva dei corpi preposti alla repressione.

Dubitiamo che un poliziotto fermerà mai un manager in grisaglia per controllare il contenuto della sua 24 ore, o una signora in tailleur Armani per accertarsi che il secchiello dernier cri di Luis Vuitton non contenga sostanze illecite. Né accerterà le loro generalità in questura per conoscerne la fedina penale.

Ad essere fermati saranno i soliti noti, quelli che hanno il colore sbagliato della pelle, che parlano male italiano, che vestono in modo trasandato, che stonano con l’immensa vetrina a cui, ormai da anni, sono stati ridotti i nostri centri storici. Controlli che si aggiungono a quelli che già questi gruppi sociali subiscono quotidianamente nei loro luoghi di residenza, destinati ad alimentare la spirale di criminalizzazione.

Se poi mettiamo le zone rosse in relazione con il decreto anti-rave varato dalla coalizione governativa al momento del suo insediamento, e pensiamo al Ddl 1660 in fase di approvazione, ecco che il cerchio si chiude. Le zone rosse re-introducono in modo surrettizio il controllo su adunate presuntamente sediziose di persone che pensano che le città non siano delle Disneyland a cielo aperto, ma luoghi da vivere profondamente e quotidianamente.

Si tratta di una direttiva che viola palesemente le libertà civili, a cui bisogna rispondere mettendo in pratica un vecchio slogan: riprendiamoci la città. Ma facciamolo presto. Prima che ce la tolgano per sempre.

da qui



Il triste spettacolo delle Zone Rosse - Legal Aid – Diritti in Movimento

Dopo Milano, Napoli, Bologna e Firenze, le Zone Rosse volute dal governo arrivano a Roma, a cominciare dall’Esquilino. L’obiettivo dell’odioso, inquietante e anticostituzionale provvedimento dei prefetti, che limita la libertà di movimento ad alcune categorie di persone, resta elevare la percezione della sicurezza (negli ultimi dieci anni in Italia i reati sono calati quasi del 20%). Insomma uno spettacolo che va in scena nello spazio urbano. In una puntuale riflessione del team di “Legal Aid – Diritti in Movimento” di Roma (attivo nel Polo civico dell’Esquilino sui temi dell’accoglienza e dell’inclusione sociale), tra l’altro, si legge: “Ciò incontriamo nelle nostre missioni in strada è un’umanità persa e già concretamente e tristemente esclusa dalle maglie urbane dei diritti sociali…”


Le ordinanze prefettizie che istituiscono le famigerate Zone Rosse, che a Roma sono ancora oggetto di dibattito politico, rappresentano quella ormai storica strategia ideata per consolidare le azioni di prevenzione e di contrasto della criminalità, non tanto per assicurare la massima sicurezza sociale, come vedremo dopo, ma per elevare la percezione della sicurezza con un atto performativo, uno spettacolo che va in scena nello spazio urbano, dove le più grandi conseguenze dell’emarginazione sono visibili. Si tratta dello stesso spettacolo che va in scena nelle frontiere europee dove parte dell’umanità viene detenuta e controllata, se non criminalizzata, alimentando una percezione di invasione. Lo strumento utilizzato da questi provvedimenti riguarda il divieto di attraversamento e stazionamento per persone già denunciate per alcuni reati indicati nell’ordinanza. Dal 2018 queste ordinanze si sono ripetute in alcune città sollevando diverse critiche da autorevoli associazioni di giuristi oltre che censure dei giudici amministrativi (TAR Toscana). 

Da un punto di vista giuridico, un genere di divieto ad attraversare zone specifiche rivolto a intere categorie di persone, attraverso azioni che vengono demandate alle forze di polizia, viola la Costituzione che con gli artt. 13 e 16 garantisce senza distinzioni sia la libertà di movimento che la libertà personale. Inoltre, sul piano del diritto amministrativo sembra gravare di irragionevolezza quando si determina l’automatismo tra le passate denunce e i presunti comportamenti incompatibili con la “vocazione delle aree definite come zone rosse” dalle ordinanze. Si presume infatti che le persone da allontanare dalle aree, come per esempio la stazione di Roma Termini, possano “impedire ad altri cittadini di fruire ed accedere a quei luoghi…”. Si tratta di una stigmatizzazione tramite ostracismo di persone presuntivamente pericolose.

I presupposti delle ordinanze tendono a scavalcare, mediante l’impiego dell’art. 2 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza (un testo del 1931 che in linea con il contesto dell’epoca offriva uno strumento di potere prefettizio “a tutela dell’ordine pubblico”), i poteri sindacali ordinari demandati agli enti locali proprio per gli stessi scopi attraverso i regolamenti della polizia urbana, ai sensi del TUEL. Già la Corte Costituzionale con sentenza n. 26/1961, ha dichiarato illegittimo questo disposto normativo del TULPS proprio in relazione al potere prefettizio che in tale previsione lede i principi dell’ordinamento giuridico, ovvero il sistema di controllo politico e civico degli organi di rappresentanza popolare come i consigli comunali e le giunte.

Ma seppur fosse giustificabile tale deroga in virtù di una specifica emergenza sociale o di ordine pubblico, l’azione di tali provvedimenti prefettizi non è ad oggi confortata dai dati: negli ultimi dieci anni in Italia i reati sono calati quasi del 20%. Per quanto riguarda le stazioni ferroviarie, nel 2024 nelle aree delle grandi stazioni sono state controllate poco più di 4 milioni di persone con un risultato alquanto modesto che vede poco più di 1.000 arresti, circa 11.000 indagati e il sequestro di 50 kg di droga e di 250 armi (fonte Ministero Interno). Insomma, una incidenza che non desta una straordinaria preoccupazione e che sarebbe del tutto gestibile con le iniziative già esistenti nelle policy di prevenzione delle Grandi Stazioni come il programma Stazioni Sicure, il Rail Safe Day, le Action Week, e le operazioni “Oro Rosso”. Tuttavia diversi fattori contribuiscono alla costruzione dell’ansia sociale da sicurezza; il discorso mediatico è supportato da dichiarazioni politiche che sottolineano la necessità di interventi per ristabilire l’ordine e la sicurezza, come l’uso del Daspo urbano e l’aumento della videosorveglianza. La sicurezza urbana viene costruita come problema attraverso una narrazione mediatica che enfatizza la percezione di insicurezza e degrado, associando specifici fenomeni e soggetti marginali a minacce per l’ordine pubblico. In sintesi anche se l’emergenza non c’è magicamente appare. 

Le zone rosse non richiamano certo criteri di efficienza ed efficacia. Resta fuor di dubbio che si tratta di azioni che non proteggono la sicurezza dei residenti né dei turisti ma aumentano la percezione dell’insicurezza e specialmente per chi abita al di fuori del perimetro di queste aree “interdette”. Ricerche sociali hanno da sempre evidenziato e dimostrato che la sicurezza urbana si garantisce con una rosa di strumenti tra i quali certamente non figura l’allontanamento di persone “indesiderate” dalle aree vetrina verso altre più remote o periferiche. Come correttamente osserva l’Associazione dei Magistrati “Area Democratica per la Giustizia”, “spostare i fattori di rischio nascondendoli altrove, rischia di creare zone nere”, fuori dalle zone rosse. In uno stato democratico per le autorità responsabili dell’ordine pubblico, “la sfida dovrebbe essere quella di garantire il massimo della sicurezza e dei diritti per tutti e tutte senza limitare le libertà personali e costituzionali”.

 

A Roma si sta discutendo della zona rossa o di azione di controlli rafforzati tra la Stazione Termini e l’Esquilino, in un botta e risposta tra l’Amministrazione Locale e il ministero dell’Interno. A fronte dell’ennesima azione securitaria messa in campo nella zona, diverse reti come il Polo Civico, del quale facciamo parte come associazione Legal Aid, attiva nella rete di Spintime, periodicamente portano avanti attività per l’accoglienza, l’orientamento e l’inclusione sociale delle persone senza dimora, che sostano oppure gravitano in quell’area vista la presenza di una pluralità di servizi di tutelaCiò che incontriamo nelle nostre missioni in strada è un’umanità persa e già concretamente e tristemente esclusa dalle maglie urbane dei diritti sociali. Richiedenti asilo senza accoglienza, persone senza casa per via di un mercato delle locazioni razzista e classista, persone migranti in transito e talvolta minori migranti non accompagnati. Una campagna securitaria permanente, che magnifica queste situazioni di marginalità senza risolverle ma rendendole problemi da “spostare”, trasmette un concetto di “sicurezza” sempre più lontano dall’idea di sicurezza sociale che potrebbe essere promossa da politiche di solidarietà e di inclusione e dalla garanzia dei diritti sociali, civili e politici, senza alcuna distinzione.

Il DDL 1660, noto come Disegno di Legge Sicurezza, è la cornice nella quale questi scenari troveranno una sistematizzazione attraverso un sistema giuridico differenziato basato sulla nazionalità o sullo status sociale, alimentando un’ossessione per la sicurezza e giustificando politiche repressive. Sono strategie politiche frutto di scelte ben ponderate che accresceranno la solitudine e divideranno la comunità degli abitanti anziché renderla coesa.

 

Dunque, c’è da chiedersi, quale sicurezza urbana? Quella della città sotto assedio? Bisogna riappropriarsi dello spazio urbano come spazio pubblico, area di coesione sociale e di consolidamento dei rapporti sociali e di solidarietà. Il giubileo che ha questo profondo significato, non deve essere strumentalizzato per giustificare questa guerra alla povertà.

da qui

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