Centotrenta morti annegati di fronte alla Libia, mentre in Italia ci si accapiglia sulle riaperture sì sulle riaperture no, su come distribuire duecento miliardi, una parte dei settecento e cinquanta miliardi del cosiddetto Next Generation Eu che sono poi solo un anticipo rispetto ai mille e oltre miliardi del Quadro finanziario poliennale 2027, europeo naturalmente, mentre si litiga sull’ora in cui andare a cena o sulla licenza di aperitivo, si invoca l’intervento di schiere di psicologi per sanare lo spirito dei giovani incrinato dall’impossibilità della frequenza scolastica, si grida alla “liberazione” perché una zona arancione verrà promossa a gialla… Qualcuno osserverà: quanta demagogia, che cosa c’entrano quei morti con le nostre giuste pretese, con i nostri ricchi progetti, con le future attese, con il pil che s’alzerà di botto. Forse non c’entrano proprio nulla: stiamo scrivendo di mondi separati, noi qua loro là. Questa è la vita, questa è la realtà, come ci richiamano i titoli di alcuni quotidiani, che magari non dimenticano l’ennesima sciagura, ma con fermezza e con ampiezza ci spiegano che per loro conta altro.
I titoli dei
giornali
Prendete Repubblica. Sotto la testata “Cento
migranti morti. Le Ong: colpa dell’Europa”, il titolo grande e grosso ci
riporta alle questioni che ci preoccupano davvero: “Il big bang dei 5Stelle”.
Non aspettavamo altro. Il “popolo” italiano non attendeva altro.
Prendete Il fatto: “Vitalizi, due
sberle/ al corrotto Formigoni”. Si direbbe: giustizia è fatta, ci siamo levati
un peso.
Prendete il Corriere: “Virus: così
riapre l’Italia”. Un sospiro di sollievo: libertà, libertà… Foto notizia: “La
nostra nave in un mare di corpi”. Testimonianza dei soccorritori.
Prendete Libero: niente (foto
notizia a pagina dieci).
Ovviamente devo citare il Manifesto:
“Strage di Stati”. E la Stampa:
“Il mare della nostra vergogna”. Mi pare che in senso politico e in senso
morale colgano il significato di quanto è accaduto.
Quanto è accaduto non è il
caso di un giorno. E’ una lunga storia che somma migliaia e migliaia
di vittime, non
solo gli annegati, anche i malati, i bambini senza scarpe, gli attendati sotto
la neve nei campi profughi immersi nel fango ai confini con i paesi del
benessere, i vecchi che trascinano a stento qualche bagaglio, gli abbandonati
che dormono sotto qualche portico, gli schiavi dei campi che sopravvivono nelle
baracche, i bastonati, i picchiati, gli affamati… Quanti sono? Non sappiamo
contarli. Li vediamo? Possibilmente no, perché “non
è mai colpa nostra”,
anche se “noi” siamo i governi che questo mondo esprime.
Europa senza una
strategia
La responsabilità è degli
“Stati”, come ricorda il Manifesto.
Più precisamente la responsabilità è dell’Europa, che sta a guardare, che non sa
proporre una strategia unitaria, che mette una pezza qui e una là, che in
trenta o quarant’anni non è riuscita individuare una strada. Non è accoglienza,
non è rifiuto. E’ perenne conflitto di interessi, è ipocrisia. Il Giornale di Sallusti rispolvera
un’espressione che gli è cara: “L’ecatombe buonista…”, ispirato evidentemente da Salvini
(“… altro sangue sulla coscienza dei buonisti”, i buonisti che “di fatto
agevolano gli scafisti” ) e monta la polemica contro chi organizza i soccorsi,
contro chi crede nell’ospitalità e nella solidarietà.
Ma il Giornale,
nella sua nauseante attenzione al cortile, trascura il termine vero,
“ecatombe”, che, buonisti o no, mette angoscia e vergogna e che rimanda alla
miserabile cultura del privilegio da salvaguardare, dell’autodifesa, della paura, che
conosciamo da molto tempo, quando sulle nostre spiagge o giù di lì comparvero i
“vu cumprà”, quando dalle carrette arrugginite sbarcarono sulle coste pugliesi
migliaia di albanesi o dall’orizzonte di Lampedusa si avvicinarono alla costa i
primi barconi (con i primi cadaveri). “Ecatombe” rimanda anche al deserto
della politica,
senza voce, senza autorevolezza, senza piani, senza condivisione. Si potrebbe
rifare il percorso della “nostra politica”, dagli eroici moti leghisti
capeggiati da Bossi e dall’indimenticabile Borghezio alla difesa delle nostre
coste esercitata dal capitano Salvini. Ricostruire servirebbe. Vado alla fine
di una eventuale ricostruzione, ricordando da quanto tempo si trascina la discussione
sullo jus soli. I giovani, che ne avrebbero il
diritto, saranno intanto diventati madri e padri.
Sarebbe pure utile non dimenticare la
storia della migrazione, senza per forza ricorrere a tempi lontani, ad epoche
antiche, alla fuga dall’Italia verso le Americhe o al dopoguerra nel vecchio
continente. Basterebbe appunto risalire ai nostri ultimi trent’anni: uno
sguardo all’Italia, uno sguardo agli altri paesi che stanno ai nostri confini,
per un bilancio d’umanità ma anche di scelte che non hanno quasi mai superato
l’occasione.
La catastrofe
umanitaria
Il nostro presidente del
Consiglio a Tripoli ha proposto un accordo globale,
che aiuterà la Libia a ritrovare forse stabilità, che riguarderà economia,
infrastrutture, energia, ha proposto il rafforzamento della guardia costiera
libica, lo smantellamento dei campi di detenzione, la possibilità di rimpatri
(anche attraverso incentivi economici), corridoi umanitari per chi avrebbe
diritto d’asilo. Ma nessuno può pensare che l’Italia da sola possa far fronte a
quella che non è difficile definire “catastrofe umanitaria”. Le definizioni spiegano la storia:
siamo passati dalle metafore aggressive, tipo invasione, ondata, tsunami, alla
resa dei conti della “catastrofe”. Di fronte alla catastrofe l’Europa tutta
dovrebbe battere un colpo, dopo quelli battuti in ritirata negli anni passati,
l’ultima volta nel 2019, quando le navi militari europee impegnate davanti alle
coste libiche ripiegarono nei loro porti d’origine e la missione Sophia
si chiuse tristemente,
grazie al premuroso impegno dell’allora ministro Salvini e del primo governo
Conte.
I morti annegati dell’altro
giorno, ultimo per ora quadro di una sofferenza che è difficile immaginare da
casa nostra e che forse proprio per questo ci pare lontana e ci lascia
indifferenti, chiedono qualche cosa di più della pietà dell’ora dopo o del
giorno dopo. Ricordiamo Alan Kurdi, il bambino, il corpicino immobile
sulla spiaggia, 2 settembre 2015. Mai più, si era detto. Quante altre volte?
Una domanda ancora: può prosperare l’Europa del Recovery plan alla maniera di
una fortezza che si affaccia sul Mediterraneo diventato una tomba? la fine di
questa tragedia non è una condizione del progresso europeo, che quei miliardi
dovrebbero consentire?
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