martedì 30 aprile 2024

Due avanzi di spazzatura, di nome Salvini e Valditara

A tutta prima li prendi per due dementi, e non ti sbagli. Ma, comunque, due dementi “dotati di coscienza di classe”, come ebbe a dire di sé Max Weber, che invece tutto era salvo che privo di materia cerebrale.

Sono Salvini, vice-premier del governo Meloni, e Valditara, ministro dell’istruzione con scarsa cognizione dell’italiano (*), presenti nella cronaca di questi giorni per le loro sparate sul tetto agli “studenti stranieri”, protagonisti di un classico esempio di razzismo di stato – che si aggiunge alle misure del governo Meloni contro gli sbarchi, alla creazione di kampi per richiedenti asilo in Albania, ai rinnovati accordi con i kapo libici e tunisini per rendere le migrazioni verso l’Italia quanto più costose e dolorose (e perciò “educative”) possibile, alle intimidazioni perché le “comunità” degli immigrati si tengano alla larga dalle manifestazioni per la Palestina, e così via.

Il tandem ha strillato per l’ennesima falsa “emergenza” dovuta alle popolazioni immigrate. A loro dire, le scuole sarebbero sull’orlo della “disgregazione”, del “caos”, dell’anarchia dove “ognuno pensa e fa ciò che vuole”, perché non è stato fissato un tetto inderogabile del 20% agli “alunni stranieri” in ogni classe. Dunque: bisogna porre rimedio quanto prima a questo sconcio, altrimenti qui crolla tutto.

I due hanno già avuto una serie di risposte ragionevoli, centrate per lo più sui dati di fatto: 1. del milione circa di studenti figli di immigrati, quasi il 70% è nato in Italia: è “straniero” solo perché una legislazione di merda esclude lo ius soli, e quindi non gli dà la cittadinanza; 2. di questi studenti, gli ignari della lingua italiana sono solo il 3-4%, nei primissimi anni di scuola – e per rimuovere questo ostacolo già alla partenza, basta davvero poco per la nota versatilità dei piccoli ad apprendere le lingue per esigenze di socialità; 3. in almeno otto scuole su dieci il numero degli studenti “stranieri” per la legge è largamente al di sotto del 20%, quindi non esiste alcun tipo di “emergenza”; 4. se comunque il dato percentuale degli studenti figli di immigrati è in crescita, ciò si deve alla decrescita delle nascite da coppie italiane, sempre più consolidata grazie anche (non solo) alle politiche di precarizzazione del lavoro e della vita adottate negli scorsi decenni dai partiti di Salvini e Valditara; 5. mettere il tetto auspicato dal duo introdurrebbe una brutale discriminazione contro i figli degli immigrati nelle zone urbane con la più alta densità di popolazione immigrata, l’Emilia-Romagna in primis, perché costringerebbe questi ragazzi ad andare a scuola in altri paesi o città, o almeno in altre zone della stessa città lontane dalla propria abitazione; 6. tra le scuole di più alto spessore culturale ci sono, in Italia, proprio quelle di regioni con alta densità di immigrazione come appunto l’Emilia-Romagna, tali perché – con tutti i limiti del caso – hanno preso sul serio la trasformazione dell’Italia nell’ultimo mezzo secolo in un paese multinazionale, multirazziale, multiculturale.

Si tratterebbe, semmai, di potenziare ulteriormente gli strumenti e le iniziative atti ad aiutare i figli e le figlie degli immigrati a superare le loro difficoltà perché, anche se nati in Italia, non hanno alle spalle famiglie che parlano correntemente italiano. Si tratterebbe, semmai, di modificare radicalmente in senso multiculturale, anzi: transculturale, il processo di formazione delle/degli insegnanti, la quasi totalità delle/dei quali sa poco o niente, e perfino meno di niente, delle nazioni e delle culture da cui provengono le popolazioni immigrate. Si tratterebbe, insomma, di prendere atto dell’enorme trasformazione sociale e culturale avvenuta nell’ultimo trentennio con l’arrivo in Italia di milioni di immigrati/e da tutto il mondo, e assecondarla nel senso del pieno sviluppo delle sue potenzialità, abbattendo ignoranza, pregiudizi e discriminazioni istituzionali e di fatto.

Ma è esattamente questo che non va ai due bestioni.

E qui vien fuori la loro, istintiva per lo meno, coscienza di classe. Perché a preoccuparli non sono le difficoltà delle maestre o dei docenti in generale, chiamate in causa in modo sfacciatamente strumentale; a loro interessa tutt’altro: il “rispetto per la nostra cultura”, il “nostro sistema valoriale” perché “non c’è futuro per una comunità che non abbia identità”. Ed ecco la solita spazzatura razzista sugli immigrati come fattore di rischio, pericolo, inquinamento della “nostra identità” (quale?) da cui difendersi: il nemico esterno diventato nemico interno, che torna utile, se non indispensabile, in tempi di ormai ufficiale preparazione alla guerra. Ne abbiamo parlato in lungo e in largo nel n. 3 del Cuneo rosso, e non è il caso di ripeterci (nel caso chi legge fosse interessato/a a conoscerlo, può scrivere a com.internazionalista@gmail.com – ne abbiamo ancora pochissime copie). La posta in gioco, alla fine, è la ricomposizione unitaria di un proletariato multinazionale, che avrebbe una forza eversiva dello stato di cose presenti semplicemente esplosiva, o l’eccitazione di odi e false contrapposizioni tra proletari autoctoni e immigrati affinché l’intera classe lavoratrice resti divisa e schiava della classe dominante.

Ci teniamo soltanto a ribadire che la prospettiva delle “guerre di civiltà” (Clash of Civilizations) tracciata da M. Huntington e ribiascicata dalla coppia Salvini-Valditara registra un dato reale, e gli oppone una soluzione disperatamente reazionaria. Il dato reale è il vero e proprio passaggio d’epoca avvenuto con la globalizzazione dei rapporti sociali capitalistici degli ultimi decenni, che – sia pure nelle più estreme disuguaglianze – ha legato in un unico meccanismo e in un unico destino le popolazioni che vivono ai quattro angoli del pianeta. Una delle più importanti conseguenze sociali e culturali di tale processo – data anche l’intensificazione delle migrazioni internazionali – è la creazione di società sempre più plurinazionali. Per Huntington e soci tutto ciò è, in qualche misura, contro-natura e porterà al collasso l’emisfero nord. Per noi invece è il versante ancora “progressivo” del capitalismo decadente in quanto rende possibile, difficile certo, ma possibile, andare finalmente oltre i compartimenti-stagni nazionali (così come sono stati, e da lungo tempo, superati i compartimenti stagni in ambito economico); andare oltre la gretta convinzione dell’auto-sufficienza delle singole culture e il loro carattere escludente, verso società che accettino e vivano la loro composizione multi-nazionale e multi-culturale come una grande ricchezza; che riconoscano nella piena parità effettiva di diritti delle popolazioni che le compongono la condizione prima perché questa ricchezza si manifesti; che sappiano, perciò, incamminarsi oltre l’attuale assetto delle relazioni sociali capitalistiche – perché sono proprio queste relazioni intrinsecamente appestate di nazionalismo e di razzismo ad impedire che la grande ricchezza di cui stiamo parlando diventi, da potenziale o soffocata com’è ora, libera ed effettiva.

Con enorme fatica, tra le più acute contraddizioni e non senza portare dentro di sé i residui corposi di tale esperienza, la specie umana ha superato l’orda, la tribù, l’etnìa, la città-stato, la marca, il feudo, conquistando la più ampia e ricca dimensione economica, istituzionale e culturale della nazione (moderna). Non da ora, però, la dimensione nazionale appare in ritardo rispetto all’evoluzione materiale e culturale in atto. Si sono già abbondantemente create le basi per il superamento effettuale delle nazioni – sebbene, e non va dimenticato!, ci siano ancora popoli senza stato. Pochi fenomeni lo segnalano con la stessa forza delle migrazioni internazionali e della esperienza degli emigranti-immigrati che vivono “a cavallo” tra due o più nazioni, lingue, “razze”, culture, continenti. Dopo la compiuta mondializzazione dei rapporti sociali capitalisti, sui presupposti da essa gettati e negandone i criteri ordinativi, è diventato finalmente possibile fuoriuscire (via rivoluzione sociale! – non certo con la scheda elettorale) dai rapporti materiali di dominio e dalla logica di dominio propri del capitalismo, ed avviarci verso una nuova affascinante epoca di interazioni tra liberi ed eguali e di fusione tra le nazioni e le culture.

A fronte di questa prospettiva gli allarmi, le invettive, nonché le “soluzioni” proposte dai crociati Salvini e Valditara appaiono avanzi di spazzatura, al pari dei loro banditori. Ma nelle polemiche dei giorni scorsi i loro critici democratici alla Pd e annessi e connessi mostrano tutta la loro ipocrisia e inconsistenza perché, gira e rigira, vorrebbero il capitalismo – guai a chi glielo tocca, mettono mano ai carri armati e ai Taurus! – senza i suoi portati più naturali e ineliminabili, tra i quali, appunto, il razzismo e le discriminazioni ai danni delle popolazioni immigrate. È loro grande merito non aver fatto nulla per cancellare la Bossi-Fini, e non aver voluto – quando potevano – introdurre lo jus soli, o no? In fatto di guerre culturali, poi, non sono secondi a nessuno – basta vedere il tasso della loro russofobia o islamofobia. Lo stesso dicasi per ogni altro problema, o emergenza, reale che affligge realmente le scuole e gli studenti: dall’alternanza scuola-lavoro (fonte anche di infortuni e di morte) agli istituti fatiscenti che, quelli sì, crollano per davvero, dall’invadenza di militari e poliziotti/carabinieri come nuovi educatori allo strozzinaggio delle tasse universitarie e degli affitti, per non parlare, poi, del carattere di classe dell’intera struttura dell’istruzione scolastica e del nazionalismo/eurocentrismo/occidentalismo dei contenuti trasmessi. Razzismo aggressivo delle destre e razzismo democratico targato Pd&Co., ricette liberal-fascio-populiste delle destre e ricette liberal-democratico-belliciste di Pd&Co., sono due facce della stessa medaglia. Da buttare.

(*) Il ministro dell’istruzione è stato sfottuto anche per il suo claudicante italiano. Tra gli sfottò più simpatici, questo: “Nella sua classe, quanti erano gli stranieri che le hanno impedito di imparare a scrivere in italiano corretto?”.

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Da Bari a Tremestieri Etneo - Michele Gambino

 

I partiti e la questione morale

Ma che fine hanno fatto i partiti? E dov’è finita la questione morale, che una volta faceva da spartiacque tra la buona e la cattiva politica? Viene da chiederselo leggendo quel che trapela dalle delle inchieste giudiziarie su corruzione e voto di scambio che a distanza di un paio di settimane hanno travolto prima alcuni esponenti del comune di Bari e poi il piccolo municipio di Tremestieri Etneo, alle porte di Catania.

Trasformismi a tutto inganno

A Bari le indagini raccontano le storie di esponenti di partiti di destra eletti con i voti delle cosche locali e passati a sostenere il Pd e la giunta Emiliano. In Sicilia al centro dell’indagine c’è il potente Luca Sammartino, numero due della Regione Sicilia, leghista con un passato a sinistra, tanto da aver fatto a suo tempo campagna elettorale per una bandiera dell’antimafia, l’inconsapevole candidata del Partito Democratico Caterina Chinnici, figlia del giudice fatto uccidere da Totò Riina nel 1983.

Lo storico clan Santapaola

Le cronache raccontano che Sammartino, passato dal Pd alle Lega, era il deus ex machina delle vicende di Tremestieri Etneo. In questo paesino, controllato dallo storico clan Santapaola-Ercolano, un sindaco eletto con una lista civica di destra faceva favori di una certa consistenza al leader dell’opposizione di sinistra per procurarsi il suo silenzio sugli affari sporchi del Comune.

La mitologia andreottiana

Ce ne abbastanza per mettersi le mani nei capelli. Una volta per chi si occupava di certe cose orientarsi era molto più semplice: salvo rare e motivate eccezioni, la mafia votava Democrazia Cristiana, e per essere più precisi la corrente facente capo a Giulio Andreotti. Gli andreottiani siciliani, ma anche in parte calabresi, campani e pugliesi, erano esseri mitologici: metà politici e metà mafiosi, monopolizzatori di consenso elettorale e distributori di favori in serie alle cosche locali; le quali, a loro volta, erano convintamente filo atlantiche e votavano Democrazia Cristiana non solo per interesse, ma anche per tenere a bada il pericolo comunista, come un’appendice con coppola e lupara della organizzazione Gladio, con la quale non a caso esistevano punti di contatto.

Comunisti d’antan

Dal canto loro i comunisti erano, salvo qualche eccezione, schierati convintamente contro la mafia, come dimostra il lungo elenco si sindacalisti ed esponenti di quel partito eliminati per il loro impegno. Tra i principali partiti c’erano fossati ideologici profondi come burroni, e il passaggio dall’uno all’altro era una eventualità rara. Un democristiano che avesse provato a chiedere la tessera del Pci avrebbe dovuto subire un’accurata analisi del sangue, e viceversa.

Crollo delle idealità

Questo mondo è crollato insieme alle ideologie e al muro di Berlino. Oggi i partiti sono taxi, dai quali si sale e si scende a convenienza, e persino la mafia ha abbattuto il vecchio steccato ideologico: stando alle carte dell’inchiesta di Bari, un politico di Forza Italia poteva trasferire i voti del clan di riferimento al partito democratico senza che nessuno si allarmasse o almeno si ponesse qualche domanda.

Antimafia come passione

L’antimafia, intesa come passione, militanza, scelta di vita, è un residuo del passato. A sostenerne l’onere, insieme a pochi professori e studenti sparsi qua e là, sono ormai soltanto gli investigatori e i magistrati particolarmente motivati. Non a caso il Governo studia il modo di limitare l’autonomia di questi ultimi dal potere politico.

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lunedì 29 aprile 2024

Eravate lì per fermare il genocidio a Gaza?

 Chris Hedges – Rivolta nelle università

Gli studenti universitari di tutto il Paese, alle prese con arresti di massa, sospensioni, sgomberi ed espulsioni, sono la nostra ultima, migliore speranza per fermare il genocidio a Gaza.

PRINCETON, N.J. – Achinthya Sivalingam, studentessa laureata in Affari Pubblici all’Università di Princeton, quando si è svegliata questa mattina non sapeva che poco dopo le 7 si sarebbe unita a centinaia di studenti in tutto il Paese che sono stati arrestati, sgomberati e banditi dal campus per aver protestato contro il genocidio a Gaza.

Quando le parlo indossa una felpa blu, a volte trattenendo le lacrime. Siamo seduti a un tavolino dello Small World Coffee shop di Witherspoon Street, a mezzo isolato di distanza dall’università in cui non può più entrare, dall’appartamento in cui non può più vivere e dal campus in cui tra poche settimane avrebbe dovuto laurearsi.
Si chiede dove passerà la notte.

La polizia le ha dato cinque minuti per raccogliere gli oggetti dal suo appartamento.

“Ho preso cose a caso”, racconta. “Ho preso i fiocchi d’avena per un motivo qualsiasi. Ero davvero confusa”.
Gli studenti che protestano in tutto il Paese dimostrano un coraggio morale e fisico – molti rischiano la sospensione e l’espulsione – che fa vergognare tutte le principali istituzioni del Paese. Sono pericolosi non perché disturbano la vita del campus o attaccano gli studenti ebrei – molti di quelli che protestano sono ebrei – ma perché denunciano l’abissale fallimento delle élite al potere e delle loro istituzioni nel fermare il genocidio, il crimine dei crimini.

Questi studenti assistono, come la maggior parte di noi, al massacro in diretta streaming del popolo palestinese da parte di Israele. Ma a differenza della maggior parte di noi, agiscono. Le loro voci e le loro proteste sono un potente contrappunto alla bancarotta morale che li circonda.

Nessun presidente di università ha denunciato la distruzione da parte di Israele di tutte le università di Gaza. Nessun presidente di università ha chiesto un cessate il fuoco immediato e incondizionato. Nessun presidente di università ha usato le parole “apartheid” o “genocidio”. Nessun presidente di università ha chiesto sanzioni e disinvestimenti da Israele.

Invece, i direttori di queste istituzioni accademiche si prostrano supinamente davanti a ricchi donatori, aziende – compresi i produttori di armi – e politici rabbiosi di destra. Riformulano il dibattito sui danni agli ebrei piuttosto che sul massacro quotidiano dei palestinesi, tra cui migliaia di bambini. Hanno permesso agli aguzzini – lo Stato sionista e i suoi sostenitori – di dipingersi come vittime. Questa falsa narrazione, che si concentra sull’antisemitismo, permette ai centri di potere, compresi i media, di bloccare il vero problema: il genocidio. Contamina il dibattito. È un classico caso di “abuso reattivo”.

Si alza la voce per denunciare un’ingiustizia, si reagisce a un abuso prolungato, si tenta di resistere e l’aggressore si trasforma improvvisamente in aggredito.
L’Università di Princeton, come altre università in tutto il Paese, è determinata a vietare gli accampamenti che chiedono la fine del genocidio. Sembra che questo sia uno sforzo coordinato da parte delle università di tutto il Paese.

L’università era a conoscenza dell’accampamento proposto in anticipo. Quando gli studenti hanno raggiunto i cinque punti di sosta questa mattina, sono stati accolti da un gran numero di agenti del Dipartimento di Pubblica Sicurezza dell’università e del Dipartimento di Polizia di Princeton. Il luogo dell’accampamento proposto, di fronte alla Firestone Library, era pieno di polizia. Questo nonostante gli studenti avessero tenuto i loro piani fuori dalle e-mail dell’università e si fossero limitati a quelle che ritenevano essere applicazioni sicure. Tra i poliziotti questa mattina c’era il rabbino Eitan Webb, che ha fondato e dirige la Chabad House di Princeton. Ha partecipato a eventi universitari per attaccare a voce coloro che chiedono la fine del genocidio come antisemiti, secondo gli studenti attivisti.

Mentre i circa 100 manifestanti ascoltavano gli oratori, un elicottero volteggiava rumorosamente sopra di loro. Uno striscione, appeso a un albero, recitava: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Gli studenti hanno spiegato che continueranno la loro protesta fino a quando Princeton non si distaccherà dalle aziende che “traggono profitto o si impegnano nella campagna militare in corso dello Stato di Israele” a Gaza, non porrà fine alla ricerca universitaria “sulle armi da guerra” finanziata dal Dipartimento della Difesa, non attuerà un boicottaggio accademico e culturale delle istituzioni israeliane, non sosterrà le istituzioni accademiche e culturali palestinesi e non chiederà un cessate il fuoco immediato e incondizionato.

Ma se gli studenti tenteranno di nuovo di erigere tende – ne hanno tolte 14 dopo i due arresti di questa mattina – sembra certo che saranno tutti arrestati.

“È molto più di quanto mi aspettassi che accadesse”, dice Aditi Rao, dottoranda in scienze classiche. “Hanno iniziato ad arrestare le persone dopo sette minuti dall’inizio dell’accampamento”.

La vicepresidente di Princeton Rochelle Calhoun ha inviato mercoledì un’e-mail di massa per avvertire gli studenti che avrebbero potuto essere arrestati e cacciati dal campus se avessero eretto un accampamento.

“Qualsiasi persona coinvolta in un accampamento, in un’occupazione o in un’altra condotta illegale di disturbo che si rifiuti di fermarsi dopo un avvertimento sarà arrestata e immediatamente esclusa dal campus”, ha scritto. “Per gli studenti, tale esclusione dal campus metterebbe a rischio la loro capacità di completare il semestre”.

Questi studenti, ha aggiunto, potrebbero essere sospesi o espulsi.

Sivalingam ha incontrato uno dei suoi professori e lo ha pregato di sostenere la protesta. Il professore le ha comunicato di essere in scadenza di cattedra e di non poter partecipare. Il corso che insegna si chiama “Marxismo ecologico”.

“È stato un momento bizzarro”, racconta la docente. “Ho passato l’ultimo semestre a pensare alle idee, all’evoluzione e al cambiamento civile, come al cambiamento sociale. È stato un momento folle”.

Inizia a piangere.

Pochi minuti dopo le 7, la polizia ha distribuito agli studenti che montavano le tende un volantino con il titolo “Princeton University Warning and No Trespass Notice”. Nel volantino si leggeva che gli studenti erano “impegnati in una condotta sulla proprietà dell’Università di Princeton che viola le norme e i regolamenti dell’Università, costituisce una minaccia per la sicurezza e la proprietà di altri e disturba le regolari operazioni dell’Università: tale condotta include la partecipazione a un accampamento e/o l’interruzione di un evento dell’Università”. L’opuscolo indicava che coloro che avessero assunto la “condotta proibita” sarebbero stati considerati “trasgressori provocatori ai sensi della legge penale del New Jersey (N.J.S.A. 2C:18-3) e soggetti ad arresto immediato”.

Pochi secondi dopo Sivalingam ha sentito un agente di polizia dire “Prendete quei due”.

Hassan Sayed, dottorando in economia di origine pakistana, stava lavorando con Sivalingam per montare una delle tende. Era ammanettato. Sivalingam è stata legata con una cerniera così stretta da interrompere la circolazione delle mani. I polsi sono pieni di lividi scuri.

“C’è stato un primo avvertimento da parte dei poliziotti: ‘State violando la proprietà’ o qualcosa del genere, ‘Questo è il vostro primo avvertimento’”, racconta Sayed. “Era piuttosto rumoroso. Non ho sentito molto. All’improvviso, le mani mi sono state spinte dietro la schiena. Quando è successo, il mio braccio destro si è teso un po’ e mi hanno detto: “Se lo fai, opponi resistenza all’arresto”. Mi hanno messo le manette”.

Uno degli agenti gli ha chiesto se fosse uno studente. Quando ha risposto di esserlo, gli hanno immediatamente comunicato che era stato bandito dal campus.

“Per quanto ho potuto sentire, non mi hanno detto quali fossero le accuse”, racconta. “Mi hanno portato in un’auto. Mi perquisiscono un po’. Mi chiedono il tesserino da studente”.

Sayed è stato messo sul sedile posteriore di un’auto della polizia del campus insieme a Sivalingam, che era agonizzante a causa delle fascette. Sayed ha chiesto alla polizia di allentare le fascette a Sivalingam, un’operazione che ha richiesto diversi minuti perché dovevano toglierla dal veicolo e le forbici non riuscivano a tagliare la plastica. Hanno dovuto trovare delle tronchesi. Sono stati portati alla stazione di polizia dell’università.

Sayed è stato privato del telefono, delle chiavi, dei vestiti, dello zaino e delle AirPods e messo in una cella di detenzione.

Gli è stato nuovamente detto che gli era stato vietato l’accesso al campus.

“È uno sgombero?”, ha chiesto alla polizia del campus.

La polizia non ha risposto.

Ha chiesto di chiamare un avvocato. Gli è stato risposto che avrebbe potuto chiamare un avvocato quando la polizia fosse stata pronta.

“Forse hanno accennato a qualcosa sulla violazione di domicilio, ma non ricordo chiaramente”, racconta. “Di certo non mi è stato fatto notare”.

Gli è stato detto di compilare dei moduli sulla sua salute mentale e se stava prendendo dei farmaci. Poi è stato informato che era stato accusato di “violazione di domicilio”.

Ho dichiarato: “Sono uno studente, come può essere una violazione di domicilio? Frequento la scuola qui”, racconta. “Sembra che non abbiano una buona risposta. Ripeto, chiedendo se il fatto di essere bandito dal campus costituisca uno sgombero, visto che vivo nel campus. Loro dicono solo ‘divieto di accesso al campus’. Ho ribadito che una cosa del genere non risponde alla domanda. Dicono che sarà tutto spiegato nella lettera. E io ho chiesto: “Chi scriverà la lettera?” Mi hanno risposto: “Il preside della scuola di specializzazione””.

Sayed è stato accompagnato al suo alloggio nel campus. La polizia del campus non gli ha lasciato le chiavi. Gli è stato concesso qualche minuto per prendere oggetti come il caricabatterie del telefono. Hanno chiuso la porta del suo appartamento. Anche lui sta cercando rifugio nella caffetteria Small World.

Sivalingam torna spesso nel Tamil Nadu, nel sud dell’India, dove è nata, per le vacanze estive. La povertà e la lotta quotidiana di coloro che la circondano per sopravvivere, dice, erano “sconvolgenti”.

“La disparità tra la mia vita e la loro, come conciliare queste cose nello stesso mondo”, dice, con la voce tremante per l’emozione. “È sempre stato molto strano per me. Credo che sia da lì che deriva gran parte del mio interesse nell’affrontare la disuguaglianza, nell’essere in grado di pensare alle persone al di fuori degli Stati Uniti come esseri umani, come persone che meritano vite e dignità”.

Ora deve adattarsi all’esilio dal campus.

“Devo trovare un posto dove dormire”, dice, “dirlo ai miei genitori, ma sarà un po’ una conversazione, e trovare il modo di impegnarmi nel sostegno e nella comunicazione in carcere perché non posso essere lì, ma posso continuare a mobilitarmi”.

Ci sono molti periodi vergognosi nella storia americana. Il genocidio che abbiamo compiuto contro le popolazioni indigene. La schiavitù. La violenta repressione del movimento operaio che ha visto l’uccisione di centinaia di lavoratori. Il linciaggio. Jim e Jane Crow. Il Vietnam. L’Iraq. Afghanistan. Libia.

Il genocidio a Gaza, che noi finanziamo e sosteniamo, è di proporzioni così mostruose che otterrà un posto di rilievo in questo pantheon di crimini.

La storia non sarà gentile con la maggior parte di noi. Ma benedirà e riverirà questi studenti.

da qui

 

 

 

“Eravate lì per fermare il genocidio a Gaza?” Il discorso di Chris Hedges all’università di Princeton

Questo è un sermone che ho tenuto domenica 28 aprile in occasione di un incontro presso l’accampamento per Gaza dell’Università di Princeton. Il discorso è stato organizzato dagli studenti del Seminario teologico di Princeton.

 

Nei conflitti che ho seguito come reporter in America Latina, Africa, Medio Oriente e Balcani, ho incontrato individui singolari di diverse fedi, religioni, razze e nazionalità che si sono sollevati maestosamente per sfidare l’oppressore a nome degli oppressi.

Alcuni di loro sono morti. Alcuni sono dimenticati. La maggior parte di loro è sconosciuta.

Questi individui, nonostante le grandi differenze culturali, avevano tratti comuni: un profondo impegno per la verità, l’incorruttibilità, il coraggio, la sfiducia nel potere, l’odio per la violenza e una profonda empatia che si estendeva alle persone diverse da loro, persino a quelle definite nemiche dalla cultura dominante. Sono gli uomini e le donne più straordinari che ho incontrato nei miei 20 anni di lavoro come corrispondente estero. Ho impostato la mia vita in base ai loro standard.

Ne avete sentito parlare, come Vaclav Havel, che io e altri reporter stranieri abbiamo incontrato la maggior parte delle sere, durante la Rivoluzione di Velluto del 1989 in Cecoslovacchia, nel Teatro della Lanterna Magica di Praga. Altri, non meno grandi, probabilmente non li conoscete, come il sacerdote gesuita Iganacio Ellacuria, ucciso dagli squadroni della morte in El Salvador nel 1989. E poi ci sono quelle persone “ordinarie”, anche se, come diceva lo scrittore V.S. Pritchett, nessuna persona è ordinaria, che hanno rischiato la vita in tempo di guerra per dare rifugio e protezione a coloro che, di religione o etnia opposta, venivano perseguitati e cacciati. E ad alcune di queste persone “ordinarie” devo la mia stessa vita.

Resistere al male radicale, come state facendo voi, significa sopportare una vita che per gli standard della società in generale è un fallimento. È sfidare l’ingiustizia a costo della propria carriera, della propria reputazione, della propria solvibilità finanziaria e a volte della propria vita. È essere un eretico per tutta la vita. E, forse questo è il punto più importante, è accettare che la cultura dominante, persino le élite liberali, ti spingano ai margini e cerchino di screditare non solo quello che fai, ma anche il tuo carattere. Quando sono tornato in redazione al New York Times dopo essere stato fischiato dal palco di una cerimonia di laurea nel 2003 per aver denunciato l’invasione dell’Iraq ed essere stato pubblicamente rimproverato dal giornale per la mia posizione contro la guerra, i giornalisti e i redattori che conoscevo e con cui avevo lavorato per 15 anni hanno abbassato la testa o si sono girati dall’altra parte quando mi sono trovato nelle vicinanze. Non volevano essere contaminati dallo stesso contagio che uccide la carriera.

Le istituzioni di governo – lo Stato, la stampa, la Chiesa, i tribunali, le università – parlano il linguaggio della moralità, ma sono al servizio delle strutture di potere, per quanto venali, che forniscono loro denaro, status e autorità. Tutte queste istituzioni, compresa l’accademia, sono complici del silenzio o della collaborazione attiva con il male radicale. Questo è stato vero durante il genocidio commesso contro i nativi americani, la schiavitù, la caccia alle streghe durante l’era McCarthy, i movimenti per i diritti civili e contro la guerra e la lotta contro il regime di apartheid in Sudafrica. I più coraggiosi vengono epurati e trasformati in paria.

Tutte le istituzioni, compresa la chiesa, ha scritto il teologo Paul Tillich, sono intrinsecamente demoniache. E una vita dedicata alla resistenza deve accettare che un rapporto con qualsiasi istituzione è spesso temporaneo, perché prima o poi quell’istituzione chiederà atti di silenzio o di obbedienza che la vostra coscienza non vi permetterà di fare.

Il teologo James Cone, nel suo libro “La croce e l’albero del linciaggio”, scrive che per i neri oppressi la croce era un “simbolo religioso paradossale perché inverte il sistema di valori del mondo con la notizia che la speranza arriva attraverso la sconfitta, che la sofferenza e la morte non hanno l’ultima parola, che gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi”.

Cone prosegue: Che Dio potesse “creare una via d’uscita” nella croce di Gesù era veramente assurdo per l’intelletto, ma profondamente reale nell’anima dei neri. I neri schiavi che ascoltarono per la prima volta il messaggio del Vangelo colsero il potere della croce. Cristo crocifisso manifestava la presenza amorevole e liberatrice di Dio nelle contraddizioni della vita nera, quella presenza trascendente nella vita dei cristiani neri che li autorizzava a credere che alla fine, nel futuro escatologico di Dio, non sarebbero stati sconfitti dai “problemi di questo mondo”, per quanto grandi e dolorose fossero le loro sofferenze. Credere a questo paradosso, a questa assurda pretesa di fede, era possibile solo nell’umiltà e nel pentimento. Non c’era posto per gli orgogliosi e i potenti, per coloro che pensano che Dio li abbia chiamati a dominare sugli altri. La croce era la critica di Dio al potere – il potere bianco – con l’amore impotente, che strappava la vittoria alla sconfitta”.

Reinhold Niebuhr ha definito questa capacità di sfidare le forze della repressione “una sublime follia dell’anima”. Niebuhr scrisse che “nient’altro che la follia può combattere contro il potere maligno e la ‘malvagità spirituale nelle alte sfere’”. “Questa sublime follia, come Niebuhr ha capito, è pericolosa, ma è vitale. Senza di essa, “la verità è oscurata”. E Niebuhr sapeva anche che il liberalismo tradizionale era una forza inutile nei momenti estremi. Il liberalismo, diceva Niebuhr, “manca dello spirito di entusiasmo, per non dire di fanatismo, che è così necessario per far uscire il mondo dai suoi sentieri battuti. È troppo intellettuale e troppo poco emotivo per essere una forza efficiente nella storia”.

I profeti della Bibbia ebraica avevano questa sublime follia. Le parole dei profeti ebraici, come ha scritto il rabbino Abraham Heschel, erano “un grido nella notte”. Mentre il mondo è tranquillo e dorme, il profeta sente l’esplosione dal cielo”. Il profeta, poiché ha visto e affrontato una realtà sgradevole, è stato, come ha scritto Heschel, “costretto a proclamare l’esatto contrario di ciò che il suo cuore si aspettava”.

Questa sublime follia è la qualità essenziale per una vita di resistenza. È l’accettazione del fatto che quando si sta dalla parte degli oppressi si viene trattati come tali. È l’accettazione del fatto che, sebbene empiricamente tutto ciò che abbiamo lottato per ottenere durante la nostra vita possa essere peggiore, la nostra lotta si convalida da sola.

Il sacerdote cattolico radicale Daniel Berrigan – che fu condannato a tre anni di prigione federale per aver bruciato i registri di leva durante la guerra in Vietnam – mi disse che la fede è la convinzione che il bene attiri a sé il bene. I buddisti lo chiamano karma. Ma ha detto che per noi cristiani non sapevamo dove andasse a finire. Avevamo fiducia che andasse da qualche parte. Ma non sapevamo dove. Siamo chiamati a fare il bene, o almeno il bene nella misura in cui possiamo determinarlo, e poi lasciarlo andare.

Come ha scritto Hannah Arendt, le uniche persone moralmente affidabili non sono quelle che dicono “questo è sbagliato” o “questo non va fatto”, ma quelle che dicono “non posso”. Sanno che, come scrisse Immanuel Kant: “Se la giustizia perisce, la vita umana sulla terra ha perso il suo significato”. Questo significa che, come Socrate, dobbiamo arrivare al punto in cui è meglio subire il torto che fare il torto. Dobbiamo vedere e agire allo stesso tempo, e dato ciò che significa vedere, questo richiederà il superamento della disperazione, non con la ragione, ma con la fede.

Ho visto nei conflitti di cui mi sono occupato la forza di questa fede, che si trova al di fuori di qualsiasi credo religioso o filosofico. Questa fede è ciò che Havel ha definito nel suo saggio “Il potere dei senza potere”: vivere nella verità. Vivere nella verità espone la corruzione, le bugie e gli inganni dello Stato. È un rifiuto di far parte della farsa.

James Baldwin, figlio di un predicatore e per breve tempo predicatore egli stesso, disse di aver abbandonato il pulpito per predicare il Vangelo. Sapeva che il Vangelo non veniva ascoltato la maggior parte delle domeniche nelle case di culto cristiane.

Questo non vuol dire che la Chiesa non esista. Questo non vuol dire che io rifiuti la Chiesa. Al contrario. La Chiesa oggi non si trova nelle cavernose e in gran parte vuote case di culto, ma qui, con voi, con coloro che chiedono giustizia, con coloro il cui credo non ufficiale sono le Beatitudini:

Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli e figlie di Dio. Beati quelli che soffrono persecuzioni per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

Gesù, se fosse vissuto nella società contemporanea, sarebbe stato privo di documenti. Non era un cittadino romano. Viveva senza diritti, sotto l’occupazione romana. Gesù era una persona di colore. I Romani erano bianchi. E i Romani, che propugnavano la loro versione della supremazia bianca, inchiodavano le persone di colore alle croci quasi con la stessa frequenza con cui noi le finiamo con iniezioni letali, le ammazziamo per strada, le rinchiudiamo in gabbia o le massacriamo a Gaza. I Romani hanno ucciso Gesù in quanto insurrezionalista, rivoluzionario. Temevano il radicalismo del Vangelo cristiano. E avevano ragione a temerlo. Lo Stato romano vedeva Gesù come lo Stato americano vede Malcolm X e Martin Luther King Jr. Allora come oggi, i profeti venivano uccisi.

La Bibbia condanna inequivocabilmente i potenti. Non è un manuale di auto-aiuto per diventare ricchi. Non benedice l’America o qualsiasi altra nazione. È stata scritta per gli impotenti, per coloro che James Cone chiama i crocifissi della terra. È stato scritto per dare voce e affermare la dignità di coloro che sono schiacciati dal potere maligno e dall’impero.

Non c’è nulla di facile nella fede. Richiede di distruggere gli idoli che ci rendono schiavi. Richiede di morire al mondo. Richiede sacrificio di sé. Richiede resistenza. Ci chiama a vedere noi stessi nei miseri della terra. Ci separa da tutto ciò che è familiare. Sa che quando sentiremo la sofferenza degli altri, agiremo.

“Ma che ne è del prezzo della pace?”. Si chiede Berrigan nel suo libro “No Bars to Manhood”.

“Penso alle migliaia di persone buone, rispettabili e amanti della pace che ho conosciuto, e mi chiedo. Quanti di loro sono così afflitti dalla malattia del deperimento della normalità che, anche se dichiarano di essere a favore della pace, le loro mani si allungano con uno spasmo istintivo… in direzione delle loro comodità, della loro casa, della loro sicurezza, del loro reddito, del loro futuro, dei loro progetti – quel piano quinquennale di studi, quel piano decennale di status professionale, quel piano ventennale di crescita e unità della famiglia, quel piano cinquantennale di vita dignitosa e di morte naturale onorevole”. “Certo, lasciateci la pace”, gridiamo, “ma allo stesso tempo lasciateci la normalità, non perdiamo nulla, lasciamo che le nostre vite rimangano intatte, non conosciamo né prigione, né cattiva reputazione, né interruzione dei legami”. E poiché dobbiamo abbracciare questo e proteggere quello, e poiché a tutti i costi – a tutti i costi – le nostre speranze devono marciare sulla tabella di marcia, e poiché è inaudito che in nome della pace una spada cada, disarticolando la rete sottile e astuta che le nostre vite hanno intessuto, poiché è inaudito che gli uomini buoni subiscano ingiustizie o che le famiglie siano spezzate o che la buona reputazione sia persa, per questo gridiamo pace e gridiamo pace, e non c’è pace. Non c’è pace perché non ci sono costruttori di pace. Non c’è pace perché non ci sono costruttori di pace, perché fare la pace è almeno altrettanto costoso che fare la guerra, almeno altrettanto impegnativo, almeno altrettanto dirompente, almeno altrettanto suscettibile di portare disonore e prigione e morte”.

Portare la croce non è una ricerca della felicità. Non abbraccia l’illusione di un progresso umano inevitabile. Non si tratta di raggiungere lo status, la ricchezza, la celebrità o il potere. Comporta sacrifici. Si tratta del nostro prossimo. Gli organi di sicurezza dello Stato vi controllano e vi molestano. Accumulano enormi file sulle vostre attività. Disturbano la vostra vita.

Perché sono qui oggi con voi? Sono qui perché ho cercato, per quanto imperfettamente, di vivere il messaggio radicale del Vangelo. Sono qui perché so che non è importante ciò che diciamo o professiamo, ma ciò che facciamo. Sono qui perché ho visto che è possibile essere ebreo, buddista, musulmano, cristiano, indù o ateo e portare la croce. Le parole sono diverse, ma l’abnegazione e la sete di giustizia sono le stesse.

Questi uomini e queste donne, che possono non professare ciò che io professo o credere ciò che io credo, sono miei fratelli e sorelle. E sono al loro fianco onorando e rispettando le nostre differenze e trovando speranza, forza e amore nel nostro impegno comune. In momenti come questi sento le voci dei santi che ci hanno preceduto.

La suffragista Susan B. Anthony, che annunciò che la resistenza alla tirannia è obbedienza a Dio, e la suffragista Elizabeth Cady Stanton, che disse: “Nel momento in cui cominciamo a temere le opinioni degli altri e a esitare nel dire la verità che è in noi, e per motivi di politica tacciamo quando dovremmo parlare, le inondazioni divine di luce e di vita non fluiscono più nelle nostre anime”. O Henry David Thoreau, che ci ha detto che dovremmo essere prima uomini e donne e poi sudditi, che dovremmo coltivare il rispetto non per la legge ma per ciò che è giusto. E Frederick Douglass, che ci ha avvertito: “Il potere non concede nulla senza una richiesta. Non l’ha mai fatto e non lo farà mai. Scoprite a cosa un popolo si sottometterà tranquillamente e avrete scoperto l’esatta misura dell’ingiustizia e del torto che gli verranno imposti, e che continueranno fino a quando non si opporranno con le parole o con i colpi, o con entrambi. I limiti dei tiranni sono stabiliti dalla resistenza di coloro che opprimono”. E la grande attivista del XIX secolo Mary Elizabeth Lease, che tuonò: “Wall Street possiede il Paese. Non è più un governo del popolo, dal popolo e per il popolo, ma un governo di Wall Street, da Wall Street e per Wall Street. La grande gente comune di questo Paese è schiava e il monopolio è il padrone”. E il generale Smedley Bulter, che ha detto che dopo 33 anni e quattro mesi nel Corpo dei Marines ha capito di essere stato nient’altro che un gangster per il capitalismo, rendendo il Messico sicuro per gli interessi petroliferi americani, rendendo Haiti e Cuba sicure per le banche e pacificando la Repubblica Dominicana per le compagnie dello zucchero.

La guerra, diceva, è un racket in cui i Paesi soggiogati vengono sfruttati dalle élite finanziarie e da Wall Street, mentre i cittadini pagano il conto e sacrificano i loro giovani uomini e donne sul campo di battaglia per l’avidità aziendale. O Eugene V. Debs, il candidato socialista alla presidenza, che nel 1912 raccolse quasi un milione di voti, pari al 6%, e che fu mandato in prigione da Woodrow Wilson per essersi opposto alla prima guerra mondiale, e che disse al mondo: “Finché c’è una classe inferiore, io ne faccio parte, e finché c’è un elemento criminale io ne faccio parte, e finché c’è un’anima in prigione, io non sono libero”. E il rabbino Heschel, che quando fu criticato per aver marciato con Martin Luther King durante il sabato a Selma rispose: “Prego con i miei piedi” e che ha citato Samuel Johnson, che scrisse: “Il contrario del bene non è il male. Il contrario del bene è l’indifferenza”. E Rosa Parks, che sfidò il sistema di autobus segregati e affermò: “L’unica stanchezza che avevo era quella di arrendermi”. E Philip Berrigan, che sostenne che: “Se un numero sufficiente di cristiani segue il Vangelo, può mettere in ginocchio qualsiasi Stato”. E Martin Luther King: “Su alcune posizioni, la codardia pone la domanda: ‘È sicuro?’. L’opportunismo pone la domanda: “È politico?”. La vanità pone la domanda: “È popolare?”. E arriva un momento in cui un vero seguace di Gesù Cristo deve prendere una posizione che non è né sicura né politica né popolare, ma deve prendere una posizione perché è giusta”.

Dove eravate quando hanno crocifisso il mio Signore?

Eravate lì per fermare il genocidio dei nativi americani? Eravate lì quando Toro Seduto è morto sulla croce? Eravate lì per fermare la schiavitù degli afroamericani? Eri lì per fermare le folle che terrorizzavano uomini, donne e persino bambini neri con il linciaggio durante il Jim Crow? Eravate lì quando perseguitavano gli organizzatori sindacali e Joe Hill moriva sulla croce? Eravate lì per fermare l’incarcerazione dei nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale? Eravate lì per fermare i cani di Bull Connor mentre venivano sguinzagliati contro i marciatori per i diritti civili a Birmingham? Eravate lì quando Martin Luther King è morto sulla croce? Eravate lì quando Malcolm X è morto sulla croce? Eravate lì per fermare i crimini d’odio, la discriminazione e la violenza contro gay, lesbiche, bisessuali, queer e transgender? Eravate lì quando Matthew Shepard è morto sulla croce? Eravate lì per fermare l’abuso e a volte la schiavitù dei lavoratori nei terreni agricoli di questo Paese? Eravate lì per fermare l’omicidio di centinaia di migliaia di vietnamiti innocenti durante la guerra in Vietnam o di centinaia di migliaia di musulmani in Iraq e in Afghanistan? Eravate lì per fermare il genocidio a Gaza? Eravate lì quando hanno crocifisso Refaat Alareer sulla croce?

Dov’era quando hanno crocifisso il mio Signore?

So dov’ero.

Qui.

Con voi.

Amen.

da qui

a proposito di guerre

La Grande Guerra in arrivo: non "se" ma "quando" - Konrad Nobile

Il 2024 ha visto un deciso “salto di qualità” nei toni guerreschi usati dalle istituzioni europee e, in genere, occidentali.

Minacce e dichiarazioni fino a poco fa inimmaginabili sono diventate via via realtà, in un crescendo allarmante che pare confermare i peggiori presentimenti sul nostro futuro.

Se infatti il presidente francese Macron ha iniziato a paventare l’invio diretto di truppe in Ucraina, da oltremanica Patrick Sanders, capo dell’esercito britannico, dichiara apertamente che il mondo è alle porte di una nuova grande guerra e che, conseguentemente, vi è la necessità di addestrare i cittadini e prepararli alla battaglia (1).

Dai palazzi di Bruxelles i vertici dell’UE rincarano e, invitando gli Stati europei a prepararsi alla guerra, chiedono di mettere il turbo all’industria bellica e “produrre armi come i vaccini” (2)(3).

Pare proprio che la direzione voluta dai vertici occidentali sia quella di preparare i loro Paesi ad andare incontro a un nuovo conflitto su vasta scala contro chi si oppone, volente o nolente, ai piani e all’egemonia dell’imperialismo (4).

Questo scenario prebellico ha iniziato a prendere concretamente forma nel fatidico febbraio 2022 quando la Russia, entrando direttamente sul suolo ucraino (sul quale la NATO ha messo le sue grinfie dal 2014, anno del golpe “Euromaidan”), ha sferzato un colpo storico all’Occidente minandone l’immagine di assoluto padrone del mondo, immagine già indebolita da tutta una serie di errori e insuccessi (5). Ora gli sviluppi mediorientali avviatisi dopo il 7 ottobre, in parte favoriti proprio dal riverberarsi dello scossone dato dalla Russia e dai derivati entusiasmi delle nazioni oppresse, galvanizzate “dall’Operazione Militare Speciale”, non hanno fatto che ampliare la portata dello scontro e la gravità dei tempi.

I nodi, pian piano, iniziano a venire al pettine in tutta la loro drammaticità. Gli scontri geopolitici, le tensioni sociali, le questioni nazionali, l’ascesa del mondo multipolare e, soprattutto, la gravissima crisi che è alla base del sistema economico globale si fondono in una miscela esplosiva che non può più essere ignorata o dribblata come è stato invece fatto, più o meno, sino a ora.

Già il Covid e le misure correlate (6) hanno rappresentato una prima forma di guerra inedita, rivolta contro le popolazioni civili globali, volta a contenere una situazione di crisi economica al limite dalla deflagrazione (7)(8) e a gettare le basi per il nuovo mondo dell’agenda 2030, dell’industria 5.0 e del grande monopolio capitalistico globale. Tutto ciò mediante l’adozione di misure emergenziali estreme, né giustificabili né controllabili in uno scenario “normale”, applicate con la scusante “sanitaria” e sotto lo scudo della narrazione pandemica.

Ebbene ora, apparentemente terminata questa prima fase di guerra atipica e precariamente posticipato il collasso economico-finanziario, ecco che alcune tensioni interne al sistema sono esplose. L’ambizione degli “esclusi” (dalla ristretta cerchia imperialista) e degli oppressi di godere di autonomia politica e di disporre liberamente delle proprie risorse, per poter sviluppare appieno le loro economie e società, senza subire limitazione o furti, è entrata in una nuova fase di vigoroso scontro con il giogo imposto dai briganti dell’occidente collettivo. Un centro di potere questo che, a maggior ragione dato il periodo di crisi, non intende rinunciare alle sue prerogative e venire a patti con le istanze del resto del mondo, bensì mira a colpire le nazioni in ascesa e a stringere ulteriormente la sua morsa.

Le rivendicazioni delle realtà emergenti, fautrici del nuovo ordine multipolare, si scontrano dunque con il senile occidente reso ancor più isterico dal nefasto clima economico, quest’ultimo saturo di beni in eccesso (9) e in preda all’endemica difficoltà di generare nuovo valore, e perciò incapace di cedere a compromessi e fare concessioni.

In questo frangente storico lo scoppio di una nuova grande guerra non è, quindi, tanto una questione di se quanto una questione di quando comeQuando come scoppierà la guerra nel quale si giocheranno questioni enormi, dall’affermazione (o il definitivo soggiogamento) dei popoli oppressi alla definizione del futuro sistema monetario internazionale (10), dalla sussistenza e “riforma” (11) del capitalismo in crisi (sistema che per ora nessuno mette in discussione) a, naturalmente, l’intero ordine geopolitico mondiale.

Magari questa guerra potrà prendere delle forme inedite (come lo è stato nel caso della pandemia Covid-19), ma che essa debba esserci e che debba scaricare la sua furia omicida e distruttiva, tanto sugli esseri umani quanto sui beni materiali e non, è l’antiumano sistema in essere a richiederlo ed esigerlo, per poter tornare a produrre, ricostruire, lucrare e guadagnare.

Tuttavia dato il clima, le dichiarazioni e i fatti recenti, non appare così inverosimile (nonostante l’esistenza degli arsenali nucleari) il ricorso a una “canonica” guerra combattuta a suon di artiglierie, cacciabombardieri, missili e uomini da mandare al macello.

Tutti i fronti attualmente aperti possono potenzialmente dare il La all’avvio della grande escalation militare, ed è proprio a questo scenario che tutti gli attori si stanno preparando, come dimostra la lunga serie di dichiarazioni rilasciate da vari elementi ai vertici di varie istituzioni, statali e sovranazionali, nonché come ci conferma la stampa di regime nostrana, ormai intenta sempre di più a propagandare il clima di guerra.

Se il grande conflitto possa veramente partire dagli attuali principali fronti militari aperti, ovvero quello ucraino e quello mediorientale, lo vedremo prossimamente. Sta di fatto che entrambi questi fronti dispongono di una sufficiente carica esplosiva potenzialmente in grado di far detonare il mondo.

Per quanto riguarda l’Ucraina, tutto dipende dalle mosse che faranno NATO, UE e Stati Uniti e quanto questi saranno disposti a giocarsi pur di non perdere il braccio di ferro, disputato sulla pelle della popolazione ucraina e del Donbass, contro la Russia. Se è chiaro che in questa partita la Russia non può permettersi di perdere, pena il crollo del suo sistema Paese, il rischio di rottura dell’unità nazionale e la sua definitiva spogliazione economica, anche l’occidente dichiara di non voler perdere e di non potersi permettere il successo russo.

Come dice Macron, borioso campione di bellicismo, “La Russia non può e non deve vincere” (12).

Tutto ciò non fa ben sperare e rende il settore est-europeo una potenziale miccia per la terza guerra mondiale, scenario che pure il presidente bielorusso Lukashenko ammette essere ormai probabile (13).

Nel Medio Oriente, invece, i più importanti sviluppi dipenderanno dalla reazione israeliana all’attacco iraniano condotto nella notte tra il 13 e il 14 aprile.

Osservando il comportamento recente di Israele pare che la volontà dello Stato ebraico sia proprio quella di ricercare un’estensione del conflitto, il che apre alla possibilità di scenari infuocati e imprevedibili. Già nel novembre 2023 David Wurmser (ricercatore americano sul Medio Oriente, ex consulente per il Medio Oriente dell’ex vicepresidente Dick Cheney ed ex assistente speciale di John Bolton presso il Dipartimento di Stato USA) e Yair Ansbacher (esperto israeliano di sicurezza e antiterrorismo, fondatore di una scuola di formazione premilitare e membro del think thank “Misgav Institute for National Security & Zionist Strategy”) proponevano la tesi che Israele mancasse di iniziativa strategica e che, per ottenere una vera superiorità regionale non solo tattica ma pure strategica, lo Stato sionista dovesse necessariamente compiere un attacco diretto contro l’Iran (14).

L’attacco sionista al consolato iraniano di Damasco sembra inserirsi proprio in questo tipo di visione, che evidentemente è stata fatta propria dall’establishment israeliano.

Se Israele vorrà seguire fino in fondo in questa azzardata strategia allora la sua risposta all’attacco telefonato iraniano (sferrato dai persiani come ritorsione per il bombardamento alla loro struttura diplomatica di Damasco), promessa da Netanyahu e Co., potrebbe veramente degenerare in una guerra su vasta scala.

Ufficialmente gli USA e le cancellerie occidentali stanno invitando Israele o a non rispondere o, perlomeno, a farlo in maniera prudente, affinché si possa evitare l’escalation. Tuttavia dietro alla cortina ufficiale va detto che un attacco all’Iran (e un blocco alla sua temuta capacità, che pare vicina, di sviluppare armi nucleari), oltre a grandissimi rischi, presenta pure, se realizzato con successo, grandissime opportunità per l’imperialismo americano.

Oltre all’eliminare uno scomodo avversario che si avvia a dotarsi dell’atomica, fare guerra al Paese che nel 1979 cacciò, con una rivoluzione, il loro fantoccio dal trono potrebbe essere infatti per gli Stati Uniti una potenziale occasione per rilanciare la loro immagine di gendarmi e padroni del mondo, mai stata così in crisi come oggi.

Un’ipotetica guerra americano-sionista all’Iran, se coronata da successo, dimostrerebbe al mondo intero la forza della macchina imperialista statunitense, che ritroverebbe così vigore e credibilità e potrebbe tornare a giocare il suo vecchio e dirompente ruolo intimidatorio sul globo terraqueo.

Al tempo stesso lo scenario bellico potrebbe essere sfruttato dagli USA, mediante un armistizio interno tra l’ala Dem e l’ala repubblicana e con un appello urgente all’unità nazionale di fronte al nemico persiano, per ricucire una spaccatura interna che pare diventare sempre più insanabile e, forse, ingestibile.

Ovviamente, pur offrendo in palio questi ghiotti vantaggi, un’operazione-scommessa di questo tipo sarebbe per gli yankee comunque rischiosissima. Ad essi non mancano infatti criticità e fattori di debolezza che possono frenare il governo americano, almeno nell’immediato, nel prendere la decisione più radicale.

Se Washington sceglierà (o ha già scelto) di giocare d’azzardo allora vedremo Israele contrattaccare duramente e dare avvio, così, a un pericolosissimo vortice bellico. Altrimenti la resa dei conti, almeno con la Repubblica Islamica, verrà rinviata a data da destinarsi…

È bene comunque ricordare che, tra le altre cose, una guerra all’Iran comporterebbe la chiusura dello stretto di Hormuz e, quindi, un aumento vertiginoso del prezzo del greggio e diffuse carenze di vario tipo. Ciò, in questo folle periodo, più che essere un effetto collaterale indesiderato potrebbe arrivare a essere una subdola opportunità per i governi occidentali. Con una nuova emergenza energetico-bellica si potrebbe infatti procedere con l’opera di “distruzione creativa” già avviata in epoca pandemica e si avrebbe un valido motivo per imporre nuovi congelamenti dell’economia, utili a raffreddare un sistema in perenne surriscaldamento e a coprire ulteriori manovre monetarie e finanziarie. Nuove forme di lockdown, opportunamente adattate, potrebbero farsi strada (ricordo qui il precedente dei divieti di circolazione domenicali della vecchia crisi petrolifera del 1973), accompagnate da un nuovo giro di vite sulle libertà civili e politiche dei cittadini.

Queste mie spinte considerazioni sono mere ipotesi dal sapore dietrologico, tuttavia in questo clima impazzito e, soprattutto, visti i precedenti, credo non sia sbagliato considerare il peso di certe spinte e la portata ad ampio spettro degli eventi…

Comunque vada a finire è chiaro che ci troviamo in un periodo incandescente e nel quale la minaccia di una grande guerra non è mai stata, almeno prendendo in considerazione gli ultimi decenni, così concreta.

Nonostante questo l’inconsapevolezza e l’apatia regnano ancora sovrane in una buona parte della popolazione, che vive serena la sua quotidianità e stenta a comprendere la reale gravità dei fatti e l’enorme portata degli eventi di cui siamo spettatori.

È quindi assolutamente necessario informare e diffondere la consapevolezza nella popolazione, questo non per seminare il panico bensì per prepararsi collettivamente ad affrontare, in maniera opportuna e matura, gli scenari a cui stiamo andando incontro.

Alla guerra rivoltaci contro nel periodo pandemico molti uomini e donne hanno reagito spontaneamente, riversandosi giustamente nelle strade e nelle piazze, ma con molti limiti e tanta confusione.

Ora è bene dare avvio a una nuova seria e informata campagna di mobilitazione che non solo richieda la pace ma anche che, più radicalmente, sia combattivamente nemica di chi ci vuole in guerra. Una mobilitazione più organizzata, lucida, unita e risoluta.

Forti dell’esperienza vissuta dobbiamo attivarci in prima persona e, evitando di commettere gli errori passati, fare tutto il possibile per fermare il mostro della guerra.

La pacchia è finita e, prima che sia troppo tardi (sempre che non sia già tardi …, ma in tal caso meglio tardi che mai), se non vogliamo vedere morire altri fratelli o essere protagonisti di nuovi macelli, dobbiamo rompere quest’ordine criminale che si nutre di sopraffazione, morte e distruzione.

Diffondiamo coscienza e uniamoci dunque in lotta contro i nostri regimi e le loro mortifere istituzioni come la NATO. Il clima ci impone sì di richiedere la pace, ma anche di essere disposti, per essa, di ergerci e combattere.

Combattere per ottenere la fine della nostra belligeranza in Ucraina, combattere per richiedere il rientro dei militari italiani dispiegati all’estero, combattere per sabotare il riarmo nazionale ed europeo, combattere per esprimere concreta solidarietà a Gaza così come a tutti gli oppressi dall’imperialismo dell’occidente. Combattere, insomma, contro il sistema che ci opprime e che ci sta mandando alla guerra!

Facciamolo già da ora perché, come scritto, una forma di grande guerra non è una questione di se ma di quando e come. Il nostro, come riportava un articolo de “La Repubblica” del 24 gennaio, è ormai un mondo preguerra e, se non si tratterà di una nostra guerra di liberazione contro i nostri aguzzini e i loro piani, si tratterà allora di una guerra micidiale e fratricida fatta sulla nostra pelle, contro di noi e a nostre spese. E noi, avvenga questo domani, tra un mese piuttosto che tra qualche anno, non possiamo permetterlo.


Konrad Nobile è un giovane studente lavoratore, al tempo attivo nel movimento Contro Il Green Pass e membro della rete Studenti Contro Il Green Pass. Ora continua la sua militanza in alcune delle realtà giovanili reduci del movimento.


NOTE

(1) https://www.repubblica.it/esteri/2024/01/24/news/gran_bretagna_esercito_allarme_guerra-421970570/

(2) https://it.euronews.com/my-europe/2024/02/28/difesa-lue-va-verso-lacquisto-congiunto-di-armi-bisogna-mettere-il-turbo-dice-von-der-leye

(3) https://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/altrenews/2024/03/18/michel-se-vogliamo-la-pace-dobbiamo-essere-pronti-alla-guerra_90ad94c7-c0f4-4eec-9c7f-285b4bf529f3.html

(4) Per comprendere il significato profondo di imperialismo è bene ricordare la definizione (fatta nel lontano 1917 ma quanto mai attuale) che di esso, come sistema globale, ne diede in cinque punti Vladimir Lenin:

– “1) la concentrazione della produzione e del capitale che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;”

– “2) la fusione del capitale bancario con il capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo capitale finanziario, di una oligarchia finanziaria;”

– “3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitali in confronto all’esportazione di merci;”

– “4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo;”

– “5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.”

(5) Insuccessi come il mancato rovesciamento di Assad in Siria o la disastrosa ritirata dall’Afghanistan, solo per citare due esempi emblematici

(6) misure come lockdown, iniezioni mastodontiche di liquidità monetaria nei mercati finanziari, distruzione di piccole imprese e “imprese zombie”, decimazione di anziani e fragili, militarizzazione della società, riduzione degli spazi di “libertà”, divisione popolare, ricatto sociale ecc. (la lista non è certamente esaustiva)

(7) https://www.lafionda.org/2021/06/22/paradigma-covid-collasso-sistemico-e-fantasma-pandemico/

(8) Sulla questione rimando alla lettura di tutti i recenti articoli scritti dal Prof. Fabio Vighi, che trovo alquanto lucidi ed interessanti: https://www.lafionda.org/author/vighi/

(9) Il problema della sovrapproduzione globale è stato recentemente posto pubblicamente, durante un’importante missione diplomatica in Cina, dal segretario al Tesoro USA, nonché ex presidente della FED, Janet Yellen.

https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2024/04/05/yellen-sussidi-della-cina-un-rischio-per-economia-globale_39169e3d-d86d-4b95-8d7c-0adfef358bc3.html

(10) Una delle grandi partite aperte è se la divisa internazionale continuerà ad essere il dollaro oppure una sua controparte (verosimilmente il renminbi cinese).

(11) “Riforma” proiettata verso la definitiva realizzazione dell’inclusive capitalism, dell’industria 5.0, del grande monopolio globale e, dunque, dell’attacco alla piccola proprietà e, ancor più nel profondo, all’umano e alla vita tutta.

(12) https://video.repubblica.it/dossier/crisi_in_ucraina_la_russia_il_donbass_i_video/g7-macron-la-russia-non-puo-e-non-deve-vincere/419557/420492

(13) Tra i tanti si è esposto anche il presidente bielorusso Lukashenko, che da tempo tiene in allerta il suo Paese, e che ha dichiarato possibile l’eventualità di una terza guerra mondiale.

https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/02/21/lukashenko-sullorlo-dellabisso-rischio-guerra-mondiale_099e502d-b453-48c5-96f7-e63a82cb92c1.html

(14) https://www.jns.org/israel-needs-a-doolittle-raid/

da qui



La guerra, gli uccisi e l’uccidere - Alberto Olivetti

Da che le guerre dilagano, e sono più di due anni, né sembra deflettere nei belligeranti e nei loro sostenitori di ogni parte la determinazione a proseguirle, tento di dare un corso ordinato ai miei ragionamenti quando rifletto sulla drammatica situazione in atto convinto che su ogni fronte debbano deporsi le armi.

Un corso ordinato che metta capo non solo a circostanziate valutazioni sulle ragioni e i torti di questo o di quel contendente, ma capace di formulare indicazioni sul piano operativo, cioè a dire efficaci, ovvero tali da poter incidere sul piano dei fatti e obbligare i belligeranti ha cessare il fuoco.

E il discorso cade allora su quale possa essere il soggetto in grado di imporre una tale decisione e, se non lo si identifica, come, e questo è il punto, costruirlo quel soggetto, come suscitare dal basso e con chi coordinare il movimento più ampio che sia possibile schierare contro la guerra. Come rendere operanti questi convincimenti? Questo è il grande, l’enorme problema attuale, stanti le modalità che alimentano e determinano le forme della politica organizzata oggi.

Mi è capitato negli ultimi due mesi di intervenire pubblicamente sulla questione della guerra. Ho scelto di fissare la mia meditazione sui morti, e considerare che quando si parla dei morti in guerra (quelli che l’ipocrita eufemismo definisce «caduti») si parla di uccisi: non «caduti», ma uomini morti ammazzati.

Sconsolatamente, un filosofo ha scritto che la prima parola che dovrebbe aprire l’animo dell’uomo occidentale è un comandamento dei dieci mosaici che recita «non uccidere». Noi, i bianchi occidentali, ne sappiamo assai in tema di uccidere e di guerra! Ci dissero che elaborammo un tempo, noi europei, un codice di comportamento militare in cui il gioco della guerra fu formalizzato in termini che vollero esser definiti cavallereschi, quasi i tornei dei «cavallieri antiqui».

Non coinvolgevano, pertanto, le popolazioni civili, a differenza di quanto avviene in questi giorni ogni giorno e da cent’anni in qua. E da cinquecent’anni noi, cristiani bianchi occidentali, sontuosi tornei abbiamo organizzato a beneficio delle popolazioni (civili) di interi continenti, nelle Americhe, in Africa, nel Pacifico.

La «soluzione finale» è una specialità al perfezionamento della quale gli europei si sono dedicati con notevole successo nel corso di cinque secoli. Non è uno sconvolgente episodio esclusivo del Novecento, quando di quella modalità dell’uccidere è stato toccato un vertice orrendo. Nella lunga durata, è stato giustamente detto, matura uno dei tempi della storia, forse il più certo nei suoi svolgimenti quali giungono a un loro compimento implacabili: nulla si perde, un caso si presenta alcune volte tal quale; le conseguenze di un altro, sotto mutate spoglie, riaffiorano con rinnovata energia.

Muovo così argomenti che forse toccano da vicino (e forse no: forse si allontanano?) il mio proposito di concentrare la riflessione sugli uccisi e sull’uccidere che si esalta oggi dal Baltico al Mar Rosso. Chi uccide compie una violenza irreversibile che insieme spegne una vita e fa nascere in chi uccide un legame indissolubile con l’ucciso: rimorsi, fantasmi, terrori, vendette, cieche crudeltà. Essi si aggirano in Ucraina e nell’oriente mediterraneo oggi, tra le migliaia degli uccisi e tra i loro uccisori.

Grandi argomenti che conoscevano bene gli antichi, intesi a illuminare l’oscura umanità degli uomini e che ci hanno rappresentato nella loro mitologia e nella loro poesia. Il nostro tempo sembra poco interessato a quel lascito, si sente capace di poterne fare a meno. Ne fecero particolarmente tesoro, tra Cinque e Seicento, i drammaturghi dell’epoca elisabettiana, in Inghilterra, consegnandoci un patrimonio che si vorrebbe fosse ai nostri giorni coltivato.

Stare col pensiero agli uccisi e all’uccidere consente una angolatura preziosa per quanto concerne un ragionare sulla guerra. Come poi una crescita di consapevolezza e di umanità che ne possiamo acquisire si declinino in termini politici, in termini di presa di posizione politica questa è la estrema difficoltà da affrontare.

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