lunedì 4 novembre 2024

L'Ucraina ha "diritto" ad aderire alla NATO? Realismo versus Idealismo - Alberto Bradanini

 

Perché il solo orizzonte in grado di immaginare una prospettiva di pacificazione in Ucraina, che ponga fine ai massacri reciproci e apra la strada a una possibile riconciliazione, è costituito dal ripristino della sua neutralità

  

1. In un articolo pubblicato su Substack, Glenn Diesen, un pungente professore norvegese (dell’Università Sud-Orientale del suo paese) e acuto esponente della scuola realista delle Relazioni Internazionali - cui appartiene anche il più noto John Mearsheimer dell’Università di Chicago – sfida con argomentato coraggio la narrativa convenzionale occidentale, manifestamente costruita dai sistemi di comunicazione di massa - che l’operazione militare speciale decisa da Mosca il 24 febbraio 2024 sia stata una derivata non-provocata dell’intento russo di riproiettarsi sul quadrante esteuropeo un tempo occupato/presidiato dall’Unione Sovietica.

Le riflessioni del prof. Diesen costituiscono un prezioso arricchimento intellettuale e vaccinatorio contro la macchina della distorsione mediatica. Insieme alle sue riflessioni il lettore troverà ad intermittenza alcuni commenti a margine da parte dello scrivente.

2. Confondendo i termini della questione, molti dipingono la scuola del realismo politico – rileva l’autore - come una teoria deficitaria sotto il profilo etico, non solo politico, contestandone la valenza teleologica, vale a dire la capacità di definire un convincente modello di gestione della competizione tra nazioni, che per i realisti è una derivata ineludibile della struttura anarchica del sistema internazionale. Tale indomabile competizione è causata dalla necessità degli stati di proteggere la loro sicurezza in assenza di un potere gerarchico che disponga del monopolio dell’uso della forza. Per gli idealisti (i seguaci della scuola di pensiero da cui prendono nome), la condotta degli stati deve invece ricondursi alla dimensione etica. Se i corrispondenti valori non sono rispettati - quelli generati dalla Grande Potenza di turno e coincidenti, non a caso, con i suoi interessi (oggi, gli Stati Uniti, portatori dell’ideologia democratica, liberale e mercantile) -, questa ha il dovere morale di imporli al resto del mondo. E qui, come si può immaginare, cominciano i guai.

La scuola realista, dunque, contesta la capacità di quella idealista di trascendere la cosiddetta politica di potenza, tanto più che, quando le due istanze entrano in contraddizione, è sempre la prima a prevalere.

Sull’arena internazionale gli stati non possono far a meno di duellare sul fronte della sicurezza, in un confronto che opera in ogni ambito, pacificamente o con l’uso della forza. E la ragione di tale condotta, nel pensiero realista, dipende dalla natura strutturale del sistema, perché gli stati devono evitare di essere sopraffatti da altri più forti. Il realista reputa altresì che agire in conformità con la logica del bilanciamento di potere risponde anche alla legge morale, poiché tale equilibrio costituisce la precondizione per garantire pace e stabilità. Ai suoi occhi l’impegno dell’idealista nel combattere la politica di potenza con le armi della moralità (i valori essendo ontologicamente precari e di parte) finisce per essere foriero di conseguenze immorali. Chiudere gli occhi sull’evidenza, vale a dire l’ineludibilità degli stati a difendere le chance di sopravvivere in ogni possibile modo, compromette la capacità del sistema di gestire la competizione per la sicurezza quale percorso effettivo (realistico, dunque) per conseguire la pace.

 

3. Sulla base di tale premessa e sorvolando per ragione di spazio su aspetti facilmente intuibili, Diesen contesta l’assolutezza del diritto sovrano dell’Ucraina di aderire alla Nato, discostandosi dalla narrativa semplicistica imposta in Occidente (governi e media), che nasconde finalità che nulla hanno a che vedere con la logica o l’etica pubblica. Vediamo.

L’argomento idealista, seducente e insieme pericoloso - sulla base del quale l’Ucraina viene quotidianamente devastata, deve aggiungersi – implica che quel paese disponga in parallelo della sovranità e della libertà (entrambe in forma incondizionata) di aderire a qualsiasi alleanza, politica o militare che sia. Tale statuizione è quanto mai attraente sul piano astratto e raccoglie dunque istintivo sostegno presso le opinioni pubbliche, usualmente poco inclini all’approfondimento, oltre che narcotizzate dalla macchina del rimbambimento televisivo serale. La medesima statuizione appare incontestabile anche perché altrimenti occorrerebbe riconoscere alla Russia un ipotetico diritto di condizionare le scelte altrui, e questo è giudicato sommamente inaccettabile, sul piano logico e politico, di certo nel caso dell’Ucraina.

L’argomento idealistico che a Kiev deve essere riconosciuta libertà incondizionata di aderire a qualsiasi alleanza fonda le radici su una proiezione onirica o su un sentimento di infantile onnipotenza, che nasconde a sua volta la pretesa di poter modellare il mondo secondo i propri desideri, ignorandone le leggi intrinseche e dunque la cruda realtà. Quest’ultima non risponde alle nostre impulsioni, siano esse giustificate o irragionevoli.

Credere poi che la pace sia una derivata dell’espansione di alleanze militari decise sulla carta senza tener conto dei bisogni di sicurezza delle Grandi Potenze, riflette una pulsione di pancia e immatura, che nega le lezioni della storia. L’Ucraina confina con un paese nucleare, tra i più armati al mondo. A motivo di ciò, dunque, devono ritenersi ancor più legittime le sue preoccupazioni di sicurezza. Tuttavia, proprio per tali ragioni l’aver invitato la Grande Potenza rivale, gli Stati Uniti, ad accomodarsi e mettere radici nel salotto di casa ha reso la competizione ancor più effervescente, aggravando l’equazione del confronto e l’urgenza di proteggere la propria sicurezza. Questo invito, sia esso stato spontaneo o estorto dalla Cia con la corruzione o il ricatto, ha messo a rischio la stessa sopravvivenza dell’Ucraina quale stato sovrano.

Investire sul desiderio che il mondo sia il riflesso dei nostri bisogni, continua Diesen, non rende la nostra condotta più rispondente ai principi etici ai quali scegliamo di richiamarci. È semmai la resistenza a prendere atto dei fattori che sovrintendono al funzionamento del mondo che contribuisce a generare le condizioni che portano alla guerra.

Tale linea di pensiero non porta alla conclusione che, per non cadere nella brace dell’espansionismo atlantico verso Est, la sola alternativa fosse rassegnarsi alla sorveglianza russa, poco gradita al popolo ucraino. Ciò, infatti, sempre secondo la dottrina realista, avrebbe concesso un privilegio improprio alla Federazione Russa, che esattamente come la Potenza Atlantica mira ad espandere il suo potere a spese altrui.

Un percorso suscettibile di generare un orizzonte di pace e sviluppo sarebbe stato quello di accogliere con attenta considerazione le preoccupazioni russe sulla cruciale nozione di sicurezza. Un accoglimento questo, che senza rinunciare ai diritti e propositi, avrebbe garantito una sostanziale e realistica sovranità all’Ucraina, la quale per di più avrebbe potuto sfruttare tale storica occasione per costruire il suo futuro alla luce della sua posizione geografica privilegiata, dialogando e commerciando con gli uni e con gli altri. Nei decenni di guerra fredda nessun paese occidentale, nemmeno gli oscillanti Stati Uniti, ha mai temuto che prestare attenzione agli interessi di sicurezza dell’Unione Sovietica ai suoi confini sarebbe stata giudicata una capitolazione. Non è un caso che in quegli anni gli stati europei neutrali fungevano da cuscinetto tra Est e Ovest, mitigando la reciproca competizione per la sicurezza.

4. Nel continente americano, il Messico dispone di piena sovranità e di molte libertà sulla scena internazionale, ma non di quella di aderire a un’alleanza militare guidata dalla Cina o di ospitare basi militari russe o nordcoreane. L’argomento idealistico secondo cui il Messico può fare ciò che vuole implica l’obliterazione delle ansie di sicurezza degli Stati Uniti, i quali in tal caso procederebbero alla destrutturazione del Messico. Nel Regno Unito, se la Scozia si separasse dall’Inghilterra e si legasse a un’alleanza militare con la Russia, ospitandone missili e infrastrutture militari, è improbabile che gli inglesi sarebbero ancora propensi a difendere il principio del consenso e della libertà di scelte, come fanno da spettatori esterni sull’Ucraina. In un mondo realista se si vuole preservare la pace occorre accettare vincoli reciproci per mitigare la competizione sulla sicurezza. Nel mondo idealista di paesi buoni contro quelli cattivi, invece, la forza del bene non accetta limiti, deve imporsi a qualsiasi costo, poiché la pace è raggiungibile solo se il bene sconfigge il male, e il compromesso è anch’esso uno stato provvisorio di pacificazione, che attende la resa finale dei conti. Gli idealisti cercano di trascendere la politica di potenza nell’illusione di poter creare un mondo moralizzato e pacificato, intensificando la competizione per la sicurezza a costo di promuovere guerre indispensabili, nell’illusorio convincimento per giungere al traguardo.

Nel caso ucraino, continua Diesen, la scuola realista reputa che la causa prima dell’intervento armato della Russia sia stata l’espansione della Nato. Un argomento questo che la scuola idealista considera immorale perché legittimerebbe la politica di potenza della Russia, accordando giustificazione all’invasione di un paese sovrano. È arduo, tuttavia, sostenere che la realtà oggettiva debba essere considerata immorale se con corrisponde a un mondo ideale che non esiste.


5. Nel 2020, l’ex ambasciatore britannico in Russia, Roderic Lyne, avvertiva che promuovere l’adesione dell’Ucraina alla Nato sarebbe stato un errore fatale e aggiungeva: se si vuole una guerra con la Russia, questo è il modo migliore per raggiungere l’obiettivo. Nel 2008, Angela Merkel aveva affermato che la Russia avrebbe interpretato l’apertura dell’Ucraina alla Nato come una dichiarazione di guerra. Quando era ambasciatore a Mosca, l’attuale direttore della CIA, William Burns, (si può dimenticare il passato, in cambio di onori e denari!), aveva messo in guardia i superiori a Washington contro tale prospettiva, poiché questa avrebbe spinto la Russia a ricorrere alla forza per uscire dall’accerchiamento, una decisione – aveva aggiunto - che la Russia avrebbe adottato se messa alle strette. Un consigliere dell’ex presidente francese Sarkozy aveva sostenuto che il partneriato strategico firmato tra Stati Uniti e Ucraina nel novembre 2021 avrebbe posto la Russia davanti all’alternativa: attaccare o essere attaccata! Nessuna delle personalità menzionate ha mai inteso legittimare un’invasione, quanto invece evitare una guerra. Tuttavia, prendere atto di tali avvertimenti viene condannato come se ciò significasse concedere alla Russia un insolente diritto di veto, mentre l’aver ignorato con arroganza tali avvertimenti viene dipinto come un gesto virtuoso, sostenuto da solidi principi morali, e non da ontologica imbecillità.

Quando non dispongono di un diritto di veto soft, le Grandi Potenze sono tentate di utilizzarne uno hard, vale a dire l’uso della forza. Gli idealisti reputano che la Russia non dovrebbe disporre di un diritto di veto sull’espansione della Nato. Il risultato è davanti agli occhi: perdita di territorio, migliaia di morti, devastazioni, distruzione della nazione ucraina. Si potrebbe aggiungere che i sostenitori di tale postura suicida non sono parte in causa, ma solo spettatori seduti in platea, perché il sangue versato e il territorio perduto sono ucraini, non certo americani o/e occidentali. Anche se si accantona ogni critica a tale ipocrisia, resta un mistero doloroso, tuttora irrisolto, la ragione che induce a considerare gli idealisti individui più sensibili alla dimensione etica (ideologia, buona politica o umanesimo) oltre che, ça va sans dire, agli interessi degli ucraini.

Al contrario, i realisti, che da decenni e in posizione minoritaria mettono in guardia governi e opinioni pubbliche sui rischi letali dell’espansione della Nato, sono considerati seguaci della religione dell’immoralità e dell’insensibilità alla libertà (alla democrazia!) e agli interessi degli ucraini. Prendere atto dei propri errori, dimenticanze e confusione intellettuale - per deficit cognitivo o corruzione, cambia poco - affinché tali tragedie cessino quanto prima e non si ripetano in futuro, costituirebbe una straordinaria evidenza di maturità. Il contrario (…, perseverare autem diabolicum!) ci trasforma in demòni.

6. Glenn Diesen solleva quindi il quesito se la Nato sia davvero parte terza. Aver sostenuto il diritto assoluto dell’Ucraina di aderire alla Nato implica che il blocco militare occidentale (Nato-Usa) agisca nella veste di un osservatore neutro, come un protagonista periferico che osserva con distacco la scena del crimine, cercando di allontanare i curiosi, prendendo atto della spontanea aspirazione di governo/popolo ucraini a entrare nella rassicurante compagine militare occidentale! Una narrazione questa, fabbricata nei cupi corridoi di Bruxelles/Washington, rileva il professore norvegese, che trascura la circostanza intenzionale (il disturbante punto di domanda: perché?) che l’Ucraina non aveva alcun interesse a entrare nella Nato, e questa non aveva alcun vincolo o necessità per proporlo/imporlo, quando la sola motivazione di tale evoluzione/involuzione deve ricercarsi nella politica militare espansiva del blocco atlantico in funzione antirussa e sullo sfondo anticinese, che da trent’anni ignora la scomparsa del Patto di Varsavia, insieme allo spirito e alla lettera della Carta Atlantica.

Al termine della guerra fredda i paesi occidentali firmano con Mosca accordi che si vogliono messaggeri di una svolta storica - ad esempio la Carta di Parigi per una Nuova Europa - con il dichiarato intento di aprire la strada alla costruzione consensuale di un’Europa senza sbarramenti, basata sulla nozione di sicurezza indivisibile. Dietro le quinte, in realtà, la Nato (vale a dire l’oligarchia Wall Street/stato profondo-Usa), che non ha mai condiviso quella tabella ideologica di marcia, inizia subito a infrangerne lo spirito, la lettera e la teleologia, lavorando nel buio per l’espansione bellicista, sulla scorta di pretesti insensati e obliteratori della legittima sollecitazione di Mosca (a quel tempo debilitata) di acquisire qualche minima garanzia di sicurezza ai suoi confini.

Remando contro la corrente della storia, che in quella fase avrebbe aperto scenari straordinari di pacificazione e cooperazione su tutto il territorio eurasiatico (con incalcolabili benefici per noi euro-occidentali), il dominus unipolare converte gradualmente la pregressa dialettica Nato-Urss/Russia in un conflitto diretto Ucraina-Russia, avendo a mente il medesimo obiettivo, destrutturare e frantumare quello sterminato paese per depredare le immense risorse. A quel punto, nell’ottica russa, un indugio prolungato a intervenire – conclude Diesen – avrebbe consentito agli eserciti guidati dalla macchina da guerra Usa di mettere radici in Ucraina, divenendo inesorabilmente una minaccia esiziale alla sicurezza militare, politica ed economica della Federazione Russa, e fors’anche alla sua sopravvivenza.

Il sostegno della Nato alla presunta piena libertà dell’Ucraina di scegliere la direzione della propria politica estera non è che una costruzione fantasmagorica. Kiev è stata trascinata nell’orbita militare occidentale contro la sua volontà. Alle opinioni pubbliche occidentali tutto ciò viene nascosto. I mezzi d’informazione di massa vengono istruiti per occultare, non per svelare quello di cui, talvolta, vengono a conoscenza. I governi poi negano persino le evidenze plateali.

Secondo tutti i sondaggi esperiti tra il 1991 e il 2014, infatti, solo un’infima minoranza di ucraini (il 20%!) aveva espresso il desiderio di aderire all’Alleanza. In un rapporto del 2011, il blocco militare americano-centrico aveva qualificato tale deficit di interesse come una sfida cruciale. La memoria del popolo ucraino a lasciarsi risucchiare nell’ideologia bellicista di un’organizzazione tradizionalmente ostile, insieme alla saggia postura del governo di allora, doveva essere disfatta, con le buone, come si dice, o le cattive.

Sorprende solo chi non conosce la storia degli ultimi ottant’anni che la soluzione sia stata quella di lavorare a una democratica rivolta popolo, - cui il lessico mediatico aggiunge solitamente l’aggettivo colorata, dimenticando di precisare che il colore è quello del sangue di tanti innocenti – una pratica abituale come sappiamo per l’intelligence imperiale, Cia e suoi compagni di merende.

È così che nel 2014 il governo democratico di Yanukovich viene rovesciato, violando la Costituzione del paese e calpestando la volontà popolare. La telefonata Nuland-Pyatt (nel 2014, la prima sottosegretario di stato, l’altro ambasciatore Usa a Kiev) ormai passata alla storia per infamia etica e politica (su cui le anime candide dell’atlantisti europei/italiani sorvolano come se i due si fossero scambiati auguri natalizi) ha rivelato al mondo che furono gli Stati Uniti a pianificare il colpo di stato, insieme a nomi e cognomi di chi sarebbe entrato nel governo post-golpe. Tale pianificazione, gestita dalla più malata oligarchia del pianeta, ha rovesciato un governo democratico puntando a legittimare il passaggio di mano e controllare il successivo, al punto che il Procuratore Generale ucraino (2015-2016), Victor Shokin, così si esprime[1]da allora (siamo nel 2014) tutte le nomine governative di qualche rilievo vengono decise dagli Stati Uniti, i quali trattano l’Ucraina come un loro feudo. Il conflitto con la Russia, nel pensiero di Diesen, si rende dunque necessario per rigenerare in quel paese di frontiera il bisogno di Nato.

 

7. Una delle prime decisioni del governo Poroshenko creatura di Washington è quella di abolire il russo come seconda lingua del paese. Il New York Times[2] riferisce che dopo il colpo di Stato il nuovo direttore dei servizi ucraini convoca Cia e Mi6 per definire un’alleanza strategica in vista di operazioni segrete contro la Russia, cominciando col portare a 12 le basi della Cia lungo il confine russo. Il conflitto si intensifica quando Mosca reagisce con l’annessione della Crimea e sostiene apertamente i separatisti del Donbass, mentre la Nato, per mano di francesi e tedeschi, decide di sabotare quegli accordi di Minsk che avrebbero risolto l’impasse col sostegno della stragrande maggioranza degli ucraini.

L’intensificazione del conflitto consente a Washington di utilizzare il territorio e il sangue dei soldati ucraini per sconfiggere un paese sterminato, ben più ricco e armato, in una guerra che anche un bambino avrebbe compreso che sarebbe stata persa, perché l’Ucraina dispone di risorse demografiche ed economiche più limitate, scarsità di militari e tecnologie, e non è una potenza atomica (a meno che generali atlantici usciti di testa abbiano in mente un conflitto nucleare tra Russia e Nato, e non vogliamo immaginarlo!)

Il citato articolo del New York Times riconosce che la guerra segreta contro Mosca dopo il colpo di Stato del 2014 è stata una delle ragioni principali del conflitto. Dopo l’invasione del febbraio 2022, non provocata secondo la narrativa occidentale, gli idealisti reputano che aver aperto all’Ucraina l’orizzonte nella Nato sia stata una mossa giusta e opportuna, e che lo sia tuttora, se non nell’immediato, di certo a guerra finita. La valenza idealistica di tale percorso sarebbe non solo moralmente giustificata, ma anche foriera di pace, perché garantirebbe all’Ucraina protezione immediata e salvaguardia contro analoghe tentazioni future.

Nel ragionare di Diesen, gli idealisti che ragionano in tal modo vivono su altro pianeta. La prospettazione di un futuro di questo genere trasmette a Mosca il messaggio che segue: il territorio che la Russia non sarà in grado di conquistare oggi verrà utilizzato in avvenire dalla Nato per distruggere la Federazione, perché Nato/Usa prima o poi lo trasformeranno, come fanno in ogni paese membro, in una piattaforma militarizzata contro paesi considerati ostili, in questo caso la Russia. L’esito è palese: la prospettiva espansionistica della Nato rafforza la determinazione di Mosca a conquistare quanto più territorio possibile, affinché quel che rimarrà al cessate il fuoco riduca l’Ucraina ai minimi termini, uno stato debole e disfunzionale.

 

8. Il solo orizzonte in grado di immaginare una prospettiva di pacificazione in Ucraina, che ponga fine ai massacri reciproci e apra la strada a una possibile riconciliazione, è dunque costituito dal ripristino della sua neutralità, una prospettiva su cui il paese potrebbe costruire benessere e prosperità, scegliendo il dialogo con l’Est o con l’Ovest sulla base dei propri interessi (come la Finlandia, ad esempio, che ha costruito la sua prosperità su tale condizione, ormai trascorsa). Tutto ciò implica tuttavia una circostanza che non è alle viste: il recupero della piena sovranità dell’Ucraina, che invece è più che mai asservita alla strategia strumentali e devastatrice dell’impero egemone, che poco si cura di amici o nemici.

È palese che l’obiettivo di Nato-Usa di sconfiggere e dissanguare la Russia sia quanto mai velleitario, irraggiungibile sotto ogni aspetto. Invece di promuovere un dialogo realistico, equo e riconoscente degli interessi altrui, la superpotenza in declino – che in condizioni analoghe avrebbe scatenato una guerra planetaria - non si arrende all’evidenza, mirando a preservare la capacità unipolare di estrarre ricchezza, risorse e lavoro dal resto del mondo, accelerando in tal modo, auspica Diesen, il suo crepuscolo.

D’altra parte, come il recente vertice Brics di Kazan ha messo in mostra, la storia ha ripreso il suo cammino, il Sud del mondo non accetta più sottomissione e sfruttamento, disponendo oggi dell’energia per resistere alle oligarchie atlantiche uscite di senno. Divenuto plurale, multipolare e multimodale, il pianeta dà il benvenuto a nuovi protagonisti: Cina e India (le nazioni più popolose del pianeta) e poi Russia, Brasile, Sud Africa e molti altri determinati a contenere la hybris e le strategie distruttive dei Dottor Stranamore che si agitano nel ventre imperiale, quale espressione di disprezzo dei principi di coesistenza e non interferenza negli affari altrui.

In sintesi, il divario etico-intellettuale che separa la scuola idealista da quella realista, conclude Diesen, può essere riassunto nelle parole del grande storico francese, Raymond Aron: l’idealista, credendo di aver rotto con la politica di potere, finisce per esaltare ulteriormente i suoi crimini.


NOTE:

[1] https://www.farodiroma.it/ex-procuratore-ucraina-il-fatto-che-joe-biden-abbia-dato-un-miliardo-di-dollari-in-cambio-del-mio-licenziamento-non-e-un-caso-di-corruzione/

[2] https://www.nytimes.com/2024/02/25/world/europe/cia-ukraine-intelligence-russia-war.html

da qui

L’America sta preparando Meloni. L’Italia è usata come cavallo di Troia - Thomas Fazi

 

Due anni fa, una neofascista ha preso il potere a Roma. Questa, almeno, è l’impressione che avreste avuto dal parossismo di sdegno dell’establishment occidentale per l’ascesa di Giorgia Meloni. Dai suoi elogi di un tempo a Mussolini al suo feroce euroscetticismo, Meloni è stata dichiarata leader del governo italiano “più di destra” dai tempi di Mussolini, mentre Bruxelles, Berlino e i loro vari lacchè dei media si preoccupavano della direzione che avrebbe potuto prendere la penisola.

Quei giorni sono ormai lontani. Dal suo trionfo nel 2022, e come alcuni di noi avevano previsto, Meloni si è adattata con calma al consenso euro-atlantico. Adottando un atteggiamento conciliatorio nei confronti dell’UE, ha anche garantito la piena conformità dell’Italia al quadro economico guidato dall’austerità del blocco. Nel frattempo, il premier italiano è diventato anche un sostenitore esplicito della politica aggressiva della Nato in Ucraina, costruendo forti legami con Joe Biden.

Nel complesso, quindi, si ha la sensazione che Meloni abbia scommesso sulla sua sopravvivenza politica abbandonando la sua immagine populista e precipitandosi nella direzione opposta, diventando più filo-europea e più filo-americana del tipico centrista europeo.

Ora, tuttavia, i media liberali sono di nuovo in fiamme. Le chiacchiere sul percorso politico di Meloni sono iniziate a settembre, quando le è stato conferito un “Global Citizen Award” presso l’Atlantic Council di New York. Al di là del sapore atlantista del think tank, ciò che ha davvero fatto parlare i politici è stato chi ha dato a Meloni il suo premio: un certo Elon Musk. Ciò ha alimentato le speculazioni su un potenziale (ri)allineamento politico con Trump da parte di Meloni. Dato il sostegno finanziario e politico della volubile sudafricana alla corsa presidenziale di Trump, e le accuse (smentite) di una nascente storia d’amore tra l’uomo d’affari e il Primo Ministro, queste affermazioni non sembrano del tutto fantasiose.

Meloni, da parte sua, non ha fatto molto per smorzare le voci di una rinascita reazionaria. Ha ammesso di essere stata attenta a non sostenere nessuno dei due candidati alle elezioni americane, sottolineando che lavorerà con chiunque vinca. Ma è anche chiaro che è ben posizionata per diventare uno dei principali partner europei di Trump, qualora dovesse riconquistare la Casa Bianca a novembre. In parte, ciò è dovuto ai suoi legami di lunga data con il più ampio movimento MAGA. Nel 2018, per fare un esempio, l’ex consigliere di Trump Steve Bannon è stato uno degli oratori principali a un festival politico organizzato dal suo partito Fratelli d’Italia.

Ciò si riflette anche nelle mosse più recenti. In un chiaro cenno ai conservatori nazionali a Washington, Meloni ha detto al suo pubblico all’Atlantic Council che “non dovremmo vergognarci di usare e difendere parole e concetti come nazione e patriottismo”. Allo stesso tempo, la recente decisione di Fratelli d’Italia di votare contro una risoluzione del Parlamento europeo che consente all’Ucraina di usare armi occidentali sul suolo russo dovrebbe anche essere vista come un cenno allo scetticismo di MAGA sul sostegno occidentale all’Ucraina, e un’indicazione della volontà di Meloni di cambiare la politica estera dell’Italia se Trump vincerà a novembre.

Nel complesso, e soprattutto considerando le imminenti elezioni americane, la decisione di Meloni di ricevere il premio da Musk potrebbe quindi essere parte di una strategia più ampia. Mirata a riaccendere i legami con i conservatori americani, ha sicuramente senso, soprattutto quando si prevede che l’influenza di Musk sarà notevolmente rafforzata dalla rielezione del magnate. Come ha recentemente detto a Le Monde Francesco Giubilei, un seguace di Meloni, il Primo Ministro deve essere sia “una forza di lotta” che una forza di governo. “È molto cauta, aspetta di vedere chi vincerà le elezioni e mantiene i suoi legami con il mondo di Trump per trarne vantaggio se dovesse vincere”.

Quindi le recenti mosse di Meloni potrebbero essere il segnale di un ritorno alle sue radici radicali? Penso di no. In fondo, piuttosto, questa storia riguarda meno la politica e più il denaro sonante, sia in Italia che altrove. È abbastanza chiaro se si mettono da parte gli alberi, Meloni e Musk, e ci si concentra invece sui boschi: l’Atlantic Council che ha offerto a Meloni il suo premio. Il think tank si descrive eufemisticamente come un’organizzazione non partigiana che “galvanizza” la leadership globale degli Stati Uniti e incoraggia l’impegno con i suoi amici e alleati. In parole povere, ciò significa che l’Atlantic Council esiste per promuovere gli interessi delle aziende statunitensi e, più in generale, gli interessi imperiali americani. Fondato negli anni Sessanta per aumentare il sostegno politico alla Nato, oggi rimane attivo sulle questioni di sicurezza transatlantica.

“Questa storia riguarda meno la politica e più il denaro sonante e contante”.

Ancora più concretamente, i partner aziendali e i finanziatori dell’organizzazione includono molte delle più grandi aziende degli Stati Uniti, che operano nei settori della finanza, della difesa, dell’energia e della tecnologia. Anche una serie di governi della NATO sostiene l’Atlantic Council, così come l’alleanza stessa. Non c’è da stupirsi che si sia guadagnata la reputazione di fare pressioni aggressive per gli interessi finanziari e aziendali americani in tutto il mondo. Nel 2014, ad esempio, FedEx ha collaborato con l’Atlantic Council per creare supporto per il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), un accordo commerciale proposto tra l’UE e gli Stati Uniti volto a proteggere le società transnazionali dal controllo pubblico, e che è stato infine abbandonato di fronte all’opposizione pubblica.

Più di recente, la fuga di notizie diplomatiche statunitensi di WikiLeaks ha rivelato che l’Atlantic Council ha lavorato a stretto contatto con Chevron ed ExxonMobil per indebolire una proposta legislativa brasiliana di concedere a Petrobras, una società statale locale, il controllo principale dei giacimenti petroliferi al largo delle coste del paese. Nel frattempo, dallo scoppio della guerra in Ucraina, l’organizzazione si è distinta per il suo approccio molto aggressivo al conflitto, forse non sorprendente dato il numero di aziende di difesa tra i suoi sostenitori.

Considerato tutto questo, si potrebbe ragionevolmente supporre che la preparazione di Meloni da parte dell’Atlantic Council abbia poco a che fare con la politica partigiana statunitense (l’organizzazione è, in effetti, piuttosto lontana dal trumpismo) e più con l’espansione dell’influenza del capitale statunitense nel Bel Paese. Persino la relazione intima di Musk con il Primo Ministro sembra riguardare più di semplici “valori condivisi” e sentimenti teneri. A giugno, il governo italiano ha approvato un nuovo quadro normativo che concede alle società spaziali straniere il permesso di operare nel Paese. Non è un segreto che, in questo contesto, Musk mira a rendere Starlink il principale fornitore di Internet “in area bianca” del Paese, in altre parole per i luoghi non coperti da alternative cablate o mobili. Ciò, a sua volta, ha il potenziale per sostituire i rivali nazionali come Open Fiber e Tim, che Musk accusa di ostacolare il lancio della sua Internet ad alta velocità.

Musk non è l’unico investitore statunitense a ingraziarsi Meloni. Dopo essere tornata dalla sua festa a New York, ha anche incontrato Larry Fink, presidente e CEO di BlackRock, la più grande società di investimenti al mondo. Con asset per un valore di 10 trilioni di dollari, la società vanta l’equivalente del PIL combinato di Germania e Giappone. In Italia, BlackRock è comodamente il più grande investitore istituzionale straniero sulla Borsa di Milano, detenendo quote sostanziali in alcune delle più grandi società quotate del paese. La società sta rafforzando la sua presenza italiana anche altrove. All’inizio di quest’anno, ad esempio, Meloni ha supervisionato la vendita dell’intera rete fissa di Tim a KKR, un fondo statunitense che vanta BlackRock tra i suoi principali investitori istituzionali.

Oltre al fatto che la rete rappresenta un asset nazionale strategico, con i suoi dati sensibili degli utenti ora effettivamente sotto controllo straniero, queste mosse variegate rappresentano il culmine di una lunga sequenza di privatizzazioni e svendite di asset pubblici e privati ​​italiani a partire dagli anni Novanta. Una volta che si collega questo ai piani futuri di BlackRock (tra le altre cose, spera di accaparrarsi le reti autostradali e ferroviarie italiane, attualmente sotto controllo pubblico o semi-pubblico), il paese sembra destinato a diventare poco più di un avamposto del capitale americano, perdendo quel poco che resta della sua sovranità economica.

Che questo accada sotto un primo ministro nominalmente “sovranista” è già abbastanza notevole, ma ciò che conta davvero è il modo in cui gli investitori statunitensi, in particolare BlackRock, stanno usando l’Italia come cavallo di Troia per espandere la loro influenza in tutta Europa. Si consideri l’esempio della Germania. A differenza di altri paesi, le aziende di Monaco o Amburgo rimangono in gran parte nelle mani delle famiglie che le hanno fondate. Anche gli investitori locali hanno un’influenza sostanziale, così come la KFW, la banca pubblica dedicata al supporto dello sviluppo industriale della Repubblica Federale.

In pratica, ciò significa che la penetrazione di BlackRock e di altri mega-fondi statunitensi nell’economia tedesca rimane relativamente marginale. Questa è un’anomalia che il capitale statunitense sembra ora intenzionato a risolvere, usando l’Italia come ariete. Il mese scorso, ad esempio, la banca milanese UniCredit ha annunciato un’acquisizione ostile a sorpresa di Commerzbank, diventando di fatto il maggiore azionista della società di Francoforte. Sebbene ciò abbia causato un certo fervore patriottico tra i commentatori italiani (una banca italiana che acquisisce una rivale tedesca!), la realtà è che la mossa è stata probabilmente guidata dalla stessa BlackRock, che ha eseguito la mossa con l’aiuto di altri fondi anglo-americani, il tutto per consolidare il suo controllo sul sistema finanziario tedesco. Non c’è da stupirsi che Larry Fink abbia accolto con favore la mossa. “L’Europa”, ha detto, “ha bisogno di un sistema di mercati dei capitali più forte e di un sistema bancario più unificato”.

Ciò a cui stiamo assistendo, in breve, è la cannibalizzazione economica dell’Europa da parte del capitale statunitense. Non che dovremmo sorprenderci. Come scrive Emmanuel Todd, uno storico francese, nel suo ultimo libro: “Mentre il suo potere diminuisce in tutto il mondo, il sistema americano finisce per gravare sempre di più sui suoi protettorati, che rimangono le ultime basi del suo potere”. Con l’industria europea cruciale per gli interessi statunitensi, continua Todd, dovremmo aspettarci un maggiore “sfruttamento sistemico” di Roma e Berlino da parte del centro imperiale di Washington. Il fatto che ciò stia accadendo sotto gli auspici di un “patriota” autodefinita come Meloni non fa che evidenziare la debolezza grottesca della politica europea.

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domenica 3 novembre 2024

L'editore del principale giornale israeliano (Haaretz) distrugge in 45 secondi tutta la propaganda anti palestinese

 


In un discorso a Londra Amos Shokan definisce "freedom fighters" quelli che Israele chiama terroristi e arriva a dire che l'IDF sta portando avanti "una seconda Nakba".


Semplicemente imperdibile. In 45 secondi cadono tutti i muri di gomma con cui i media corporativi occidentali stanno cercando di coprire lo sterminio in atto in Palestina.

In un discorso tenuto a Londra, l'editore del principale quotidiano israeliano Ha'aretz, Amos Shokan, ha sintetizzato alla perfezione la situazione attuale. Nei 45 secondi che vi abbiamo sottotitolato in italiano e che trovate qui sotto, Shokan definisce la resistenza palestinese "combattenti per la libertà", invoca sanzioni contro Israele e i coloni per fermare il massacro, identifica quella che sta portando avanti l'IDF come una "seconda Nakba".

Tutto quello che in Italia il solo dirlo ti fa passare per "antisemita", lo afferma con forza e autorevolezza l'editore del principale giornale israeliano.


 

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Carri armati invece che ospedali: le priorità del governo Meloni per il 2025 - Michele Blanco

In Italia registriamo una vergognosa inrefrenabile corsa al riarmo senza precedenti, nel 2025 il costo per l’Italia sale a 32 miliardi di euro.


Nell' incredibile e totale silenzio dei media mainstream, l’Italia si sta armando come non aveva mai fatto prima, nemmeno con la dittatura. Purtroppo non si tratta di esagerazioni ma della  realtà effettiva, infatti basta ben guardare e analizzare la Legge di Bilancio come è stata condotta dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane.

 

Per la prima volta nella storia della Repubblica il budget militare supera i 30 miliardi di euro, gia quest'anno, attestandosi a 32 miliardi per il 2025. Di questi, ben 13 miliardi saranno destinati all’acquisto di nuovi armamenti, segnando una vera  e propria escalation che supera, di gran lunga, in percentuale di crescita qualsiasi altra voce di spesa pubblica.

Un riarmo inutile per i cittadini italiani, ma un vero e proprio record. Sono 32 miliardi di spese che avranno un costo sociale enorme.

Mentre il dibattito pubblico si concentra su decimali di deficit e su piccoli aggiustamenti della manovra, sta passando inosservato quello che può essere definito il più massiccio riarmo della storia repubblicana. I numeri elaborati da Francesco Vignarca ed Enrico Piovesana parlano chiaro: in soli dieci anni, la spesa militare italiana è aumentata, per quale motivo?, del 60%, passando dai 19,9 miliardi del 2016 ai 32 miliardi previsti per il prossimo anno.

 

Proprio  nell’ultimo quinquennio che la corsa agli armamenti ha accelerato vertiginosamente. Solo per dare un’idea dell’entità del fenomeno: nel 2021 si spendevano 7,3 miliardi in nuovi armamenti, mentre nel 2025 se ne spenderanno quasi 13, con un aumento del 77% in soli cinque anni. Un dato che dovrebbe far riflettere sulla strana e indecifrabile direzione presa dal nostro Paese e da chi lo governa, senza informare l'opinione pubblica.

Il ministro Crosetto, noto per i sui interessi nell'industria delle armi, dal suo ufficio di via XX Settembre, gestirà un “bilancio proprio” della Difesa di oltre 31,2 miliardi di euro, con un incremento netto di 2,1 miliardi rispetto al 2024. Un aumento senza precedenti nella storia, che si inserisce in un trend di crescita indecente ormai costante e imponente.

Ma i numeri, per quanto eloquenti, rischiano di non restituire appieno la portata di questo cambiamento. Si tratta di risorse che, confrontate con altre voci di spesa, assumono proporzioni imponenti, facciamo dei semplici esempi: spendiamo più in armamenti che in edilizia scolastica, più in missioni militari che in ricerca universitaria, dove non spendiamo che spiccioli se confrontiamo gli investimenti in ricerca delle altre nazioni europee.

 

La spesa militare italiana arriverà così all’1,42% del PIL (o all’1,46% includendo i costi indiretti), avvicinandosi sempre più a quel 2% richiesto dalla Nato. Vale la pena ricordare che questo obiettivo non è vincolante, non è obligatorio spendete tanti soldi, ma sembra essere diventato una sorta di mantra per tutti i governi degli ultimi anni.

Aggiungendo poi ulteriori due voci di costi indiretti per basi militari e alle quote di compartecipazione per spese di natura militare in ambito Ue si potrebbe aumentare il totale complessivo di un ulteriore miliardo, superando quindi i 33 miliardi di euro.

Ci troviamo di fronte a una nazione la nostra che ha come priorità la spesa in armi, le spese militari contro e al posto della spesa sociale.

Non deve sfuggire un dettaglio significativo: mentre il bilancio della Difesa cresce a ritmi vertiginosi altre voci di spesa rimangono ferme o subiscono enormi e inspiegabili tagli. È una questione di scelte e priorità, e le priorità di questo governo sembrano chiare: più armi, meno spesa sociale, per dirla con parole semplici.

 

Il paradosso veramente assurdo è che questa corsa al riarmo si verifica in un momento in cui il Paese avrebbe bisogno di investimenti improrogabili e massicci in sanità, istruzione e transizione ecologica. Settori che, a differenza della Difesa, non hanno la giusta attenzione e nom stanno avendo incrementi di investimenti necessari e significativi nei rispettivi bilanci.

L’analisi dell'istituto Milex ci restituisce il ritratto incredibile ma vero di un Paese che sta silenziosamente cambiando volto, privilegiando la dimensione militare rispetto a quella civile, che vede la spesa per gli armamenti aumentare a scapito dei servizi essenziali e inderogabili per i cittadini.

Una trasformazione che meriterebbe un dibattito pubblico con adeguata informazione approfondito, una discussione parlamentare seria, un confronto con i cittadini sulle reali priorità e esigenze del Paese. Invece, tutto avviene nel silenzio assoluto e sicuramente complice dei mass media e della politica, come se l’aumento esponenziale delle spese militari fosse un destino ineluttabile e non una precisa scelta politica.

 

Si spiega facilmente il fatto che la stragrande maggioranza dei giornali e settimanali italiani abbiano le stesse proprietà che posseggono le quote delle fabbriche di morte. Alcuni membri del governo e molti dell'opposizione hanno noti interessi personali in tali fabbriche, ma nessun telegiornale ci informa correttamente, chissa perché? 

Inoltre dobbiamo chiederci di questo passo dove andremo? Invece che ospedali avremo carri armati, invece delle scuole e università avremo aerei supersonici da guerra? Invece dell'assistenza agli anziani e ai poveri avremo navi supercorazzate da guerra e portaerei?

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venerdì 1 novembre 2024

Maledetti i costruttori di morte - Paolo Cacciari

 

Migliaia di persone condividono i propri saperi e il proprio tempo per immaginare, disegnare, costruire, commerciare e utilizzare nuove armi. Stanno nelle università, nei centri di ricerca, negli uffici di progettazione delle industrie, oltre che nelle accademie militari. Il peso della loro responsabilità assassina viene nascosto in tanti modi. Ogni tanto si ritrovano, in cenacoli come quelli di Aspen Institute e producono rapporti, con il contributo, ad esempio, della Leonardo Spa, della Marina Militare, di Intesa Sanpaolo e dell’Università degli Studi di Pavia

 

Costruiscono strumenti di morte sempre più sofisticati e letali. Progettano armi di sterminio capaci di colpire autonomamente e automaticamente senza un controllo umano diretto. Così non c’è più bisogno di uomini che si infanghino gli stivali, che premano il grilletto e che rischino di intaccare la propria psiche. Nulla in confronto alla affidabilità dei sistemi unmanned: droni di superficie, siluri sottomarini, missili ipersonici manovrabili a distanza da personale in camice bianco tramite reti cyber satellitari. Nulla di diverso – del resto – da ciò che avviene nelle fabbriche, nei magazzini robotizzati, negli uffici automatizzati; ogni mansione è calcolata, procedimentalizzata, mirata. Nessun pericolo di errore, nessuna responsabilità individuale. La lontananza e l’invisibilizzazione del comando creano una idea di astrazione della violenza inferta. Apparentemente, almeno. Perché invece il peso della responsabilità assassina è stato solo verticalizzato e accentrato in capo a coloro che hanno deliberatamente deciso di mettere la propria (umana) intelligenza e le proprie personali conoscenze a disposizione della progettazione dei nuovi “sistemi d’arma”. Macchine e programmi, dati e codici in funzione di prestabiliti obiettivi di distruzione. Questi signori sono tra noi: stanno nelle università, nei centri di ricerca, negli uffici di progettazione delle industrie, oltre che nelle accademie militari.

Ogni tanto si ritrovano, in cenacoli come quelli di Aspen Institute e producono rapporti, vedi l’ultimo (link) redatto con il contributo di Leonardo e la collaborazione della Marina Militare, di Intesa Sanpaolo e dell’Università degli Studi di Pavia. Un piccolo spaccato dell’élite del potere. Il rapporto redatto da un pull di esperti si presenta come linee guida per operatori economici e decisori politici al fine di incrementare la filiera produttiva delle armi e, prima ancora, sdoganarne l’impiego. È qui infatti che i generali vincono le guerre – prima ancora che vengano combattute – nel legittimare la produzione di armi.

Con piglio militare veniamo informati dal Rapporto che “Il dominio militare è stato storicamente caratterizzato dall’essere un terreno fertile per l’innovazione, poiché la capacità di innovare le operazioni militari costituisce uno dei vantaggi che le forze armate possono mettere a frutto per ottenere la superiorità e la vittoria”. Per chi non l’avesse già capito e sperimentato: “La storia militare è in effetti costellata da innovazioni che hanno spesso, e sempre più frequentemente con la crescita delle capacità tecnologiche, riguardato gli equipaggiamenti prima ancora che la strategia e la dottrina, la cui evoluzione è stata anzi spesso costruita proprio sulla disponibilità di nuovi sistemi di attacco o difesa o informazione”.

Da queste considerazioni d’ordine storico-generale ne derivano un caldo invito rivolto ai governi a spendere sempre di più in R&S per mantenere una strategia di deterrenza basata sull’asimmetria dei mezzi tecnici a disposizione, sul “surclassamento tecnologico” e sulla “superiorità informativa” nei confronti dei potenziali nemici (individuati nella Russia, nella Cina e in imprecisati “attori non statuali”). L’importante è che nuove tecnologie militari rimangano “non alla portata di qualsiasi attore si affacci all’orizzonte geostrategico”. Da qui l’invito affinché l’Europa (“Anche senza gli Stati Uniti”) metta in sicurezza i suoi assetti realizzando “nuove capacità [di] natura sia difensiva sia offensiva, poiché la deterrenza si costituisce con un’appropriata combinazione delle due”. A minacce potenziali interventi preventivi.

Impariamo dal Rapporto che oggi, oltre ai tradizionali “domini” sui campi di battaglia (terrestre, navale e dell’aviazione), la sfida tecnologica si gioca sulle armi ipersoniche, sulle armi a energia diretta (come il laser), sullo spazio digitale (cyberspazio). In tutti questi campi l’intelligenza artificiale agisce da dirompente “moltiplicatore di effetto”, per velocità e molteplicità di impiego, più “di quanto realizzabile con strumenti gestiti da un operatore umano”.

Ma ciò comporta una preoccupazione che gli esperti dell’Aspen, di Leonardo e della Marina definiscono di “natura etica e operativa”. I sistemi d’arma autonomi (AWS Autonomus Weapon System) infatti operano sulla base di una profilazione preventiva algoritmica che si aggiorna automaticamente e con programmi Machine Learning (autoapprendimento) capaci di identificare, scegliere e attaccare (Observe, Orient, Decide) un bersaglio senza il coinvolgimento umano. In pratica, algoritmi armati, macchine appositamente addestrate a fare cose originariamente non prevedibili. Gli obiettivi e le persone vengono colpite sulla base di pacchetti di informazioni dedotte dai sistemi di riconoscimento e di identificazione (sensori, foto, comportamenti, ecc.).

 

Sembra che da tempo in sede Onu si stia discutendo per stabilire delle “regole di ingaggio” condivise per l’uso di questi sistemi d’armi. Nello specifico si tratta di decidere quale debba essere il “livello appropriato di giudizio” che deve rimanere in capo ad un essere umano. Per gli “ottimisti tecnologici” tali sistemi dovrebbero essere considerati come un semplice valido supporto decisionale offerto agli agenti umani affinché possano colpire più rapidamente, profondamente ed efficacemente il nemico. I più dubbiosi ritengono che i margini di errore (“pregiudizi” incorporati nel software) contenuti nel design del sistema, nel suo addestramento e nell’operazionalità sono tali da non consentire il loro uso.

Per noi fa rabbrividire il solo porsi tali quesiti. Esiste una campagna per chiedere la proibizione di queste armi: stopkillerrobots.org. Se la produzione di qualsiasi tipo di arma da guerra è un insulto alla vita, quelle “tecnologicamente avanzate” funzionano incorporando l’intera società nella logica del conflitto. Nella guerra ibrida (che comprende attacchi cibernetici e cinetici usando bande di frequenza diverse per distruggere o disabilitare infrastrutture collettive ed equipaggiamenti personali) vi è una “commistione tra difesa civile e militare”, senza alcuna possibilità nemmeno teorica di separare i due ambiti. Ammonisce il citato Rapporto: “Un attacco cibernetico può ad esempio avere come obiettivo il sistema sociale per un’operazione di disinformazione, il sistema economico per un’operazione di frode informatica, il sistema industriale per un’operazione di ransomware, un intero sistema paese per un’operazione di blocco o danneggiamento di infrastrutture critiche”. Quindi “competenze e attribuzioni si sovrappongono e solo una fattiva collaborazione tra civile e militare può portare alla piena efficacia delle linee di difesa”. In tal modo tutte le strutture e le istituzioni sociali vengono chiamate a costruire un sistema intrecciato di monitoraggio, controllo e sorveglianza. In tempo di pace e in tempo di guerra, a difesa dei confini esterni e dell’ordine interno. Tecnologie militari e civili si sovrappongono in modo inestricabile. La “dualità” (applicazioni civili di ricerche militari e viceversa) si va unificando.

Si chiude così il cerchio della militarizzazione della società in nome della sicurezza e dello sviluppo tecnologico. E si capisce anche quale sia l’interesse di industrie come Leonardo ad entrare nelle università e i militari nelle scuole.

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