venerdì 20 settembre 2024

Gaza: quello che Israele, con la censura militare, nasconde alla stampa estera - Claudia Carpinella

 

Quella nella Striscia di Gaza è la guerra più documentata della storia. Mai come oggi c’è stata una copertura mediatica così massiva e condivisa. Qualsiasi persona ha la possibilità concreta di vedere gli infiniti video che ben descrivono la realtà di Gaza, e questa è la grande novità che accompagna uno dei momenti più bui del nostro tempo. Una storia che sta accadendo e che si sta scrivendo qui e in questo momento, sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.

Eppure, Israele continua a negare o a giustificare la narrazione dei fatti, nonostante migliaia di video e foto che di per sé già basterebbero a scrivere la cronaca di quanto sta accadendo. I massacri ripresi dalle telecamere talvolta vengono sminuiti, altre volte vengono semplicemente derubricati a “danni collaterali” di operazioni militari. Molto più spesso invece, tutto ciò che viene documentato e registrato, compreso il numero delle vittime, viene messo in discussione da Netanyahu e dal suo governo, in quanto “affermazioni divulgate e controllate da Hamas” e per questo non attendibili.

Ebbene, se così fosse, c’è da chiedersi come mai Israele continui a bloccare l’ingresso dei giornalisti nella Striscia di Gaza. “A causa del controllo dell’IDF sui valichi di frontiera, reso ancora più rigido dopo la presa di Rafah – si legge in un editoriale di Haaretz – nessun reporter straniero può mettere piede nella Striscia senza l’approvazione dello Stato”. Non vi è giornalista, dunque, che possa entrare nell’enclave palestinese “senza la scorta dell’Unità portavoce dell’esercito”. Questo divieto assoluto, commenta Haaretz, non solo “danneggia gravemente la capacità di fare reportage indipendenti”, ma anche “il diritto del popolo israeliano e del mondo di sapere cosa sta succedendo a Gaza”.

Israele ha imposto un blackout informativo

I soli reporter che ottengono il via libera ad entrare, devono attenersi pedissequamente a quanto imposto dalle forze israeliane e ciò non può in nessun modo costituire “un’alternativa valida all’accesso indipendente”. A tal proposito, due mesi fa, oltre 70 organi di informazione – tra cui New York Times, BBC, CNN, Associated Press, Agence France-Presse, Guardian e Washington Post – hanno firmato una lettera indirizzata a Tel Aviv “ribadendo la richiesta di un accesso illimitato dei media internazionali nella Striscia” e sottolineando come le attuali restrizioni “possano alimentare la disinformazione” – fatto, peraltro, denunciato paradossalmente dal Governo israeliano stesso. Tuttavia, Israele si è dimostrato sordo a qualsivoglia appello da parte dei media, scegliendo di perseguire l’imposizione di un totale blackout informativo.

Sebbene le restrizioni alla stampa siano comuni in guerra, il CPJ, ovvero il Comitato per la protezione dei giornalisti, ha dichiarato che “il divieto totale ai giornalisti di entrare a Gaza è senza precedenti nei tempi moderni”. Nessuno entra e nessuno documenta liberamente e i giornalisti israeliani non fanno eccezione. Si legge, sempre nella lettera del CPJ, come “dare un accesso limitato ai reporter durante tour approvati e guidati dall’IDF non è sufficiente per fare informazione”. Alla luce di quanto riportato, appare quantomeno stridente che in tutto il mondo, tranne che in Israele, “i giornalisti abbiano  potuto riferire dalle prime linee in quasi tutti i principali conflitti degli ultimi tre decenni, dall’Ucraina al Ruanda”.

Per questo, l’editoriale di Haaretz termina con un interrogativo assordante, rivolto ai cittadini israeliani stessi: “Cosa ha da nascondere lo Stato? Come trae vantaggio dall’impedire ai giornalisti di entrare?”.

Nonostante questo divieto, che suona come una censura, e nonostante il fatto che dal 7 ottobre siano stati uccisi 165 giornalisti, le notizie dalla Striscia di Gaza arrivano e corrono veloci grazie al coraggioso lavoro dei reporter palestinesi presenti nell’enclave, gli unici che riescono a far vedere al mondo quanto accade (secondo l’IDF tre sarebbero stati affiliati ad Hamas; se anche fosse vero, resta che gli altri 162 sono stati uccisi per il loro lavoro, a meno di credere davvero alle morti accidentali…). 

Ma un conto è che quelle immagini circolino sul web o sui mezzi di informazione arabi o non mainstream, altro che vengano riportate dai media di sistema, che  creano la narrazione per il grande pubblico occidentale. Ed è a questo che serve la censura israeliana. Le immagini che ci arrivano via internet sono crude e spietate, certo. Del resto, non potrebbe essere altrimenti perché non c’è nulla di umano in una mattanza, spacciata per guerra al terrorismo, che non ha risparmiato, tra gli altri, 16.456 bambini e 11mila donne.

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L'europarlamento vota per l'escalation militare in Ucraina - Alessandro Marescotti

 

Ci sia consentito porre qualche legittimo dubbio. Quanti tra gli europarlamentari favorevoli a questa escalation sarebbero disposti a sostituire coloro che, tra disertori e renitenti ucraini, non vogliono più combattere in una guerra armata dalla NATO? Quanti manderebbero i loro figli e nipoti?

 

Oggi il Parlamento Europeo ha votato per intensificare il sostegno militare all'Ucraina. La risoluzione approvata intende sostenere l'invio di un numero sempre maggiore di armi e, persino, missili occidentali capaci di colpire il territorio russo e le sue basi militari in profondità. Tuttavia, è lecito chiedersi quanto di questo sostegno militare sia davvero ispirato da buona fede. Poniamoci quattro domande e una riflessione finale.

1. Quanti tra gli europarlamentari favorevoli a questa escalation militare sarebbero disposti a sostituire coloro che, tra disertori e renitenti ucraini, non vogliono più combattere in una guerra alimentata, finanziata e armata dalla NATO?

2. Quanti di questi europarlamentari sarebbero disposti a lasciare per un solo mese le loro comode poltrone per recarsi al fronte e sostenere direttamente, con coraggio e convinzione, le forze armate ucraine?

3. Quanti rischierebbero la propria vita per difendere le idee che oggi sostengono con il loro voto?

4. Quanti donerebbero almeno metà del loro stipendio per supportare la popolazione civile ucraina e le famiglie degli orfani di guerra, vittime di questo conflitto senza fine?

Riflessione finale: negli anni Trenta, migliaia di volontari antifascisti, mossi dagli ideali di libertà e democrazia, partirono per la Spagna per combattere al fianco dei repubblicani e contro i golpisti del generale Franco. Nacquero così le Brigate Internazionali, che riunivano uomini provenienti da circa cinquanta nazioni diverse. Questi volontari diedero un contributo fondamentale, sia militare che morale, alle forze repubblicane, ricevendo anche un grande sostegno da parte di intellettuali antifascisti. Quelle persone erano davvero coerenti: erano pronte a sacrificare la propria vita per le idee in cui credevano. Tra loro, cinquecento italiani persero la vita

Non è necessario aggiungere molte altre parole. Se non che il Wall Street Journal ha da poco rivelato con uno scoop quello che era un dato segreto gelosamente custodito e che i nostri TG non amavano indagare, ossia che siamo arrivati a un milione di morti e feriti in questa guerra. E' una catastrofe in stile prima guerra mondiale che sembra non aver insegnanto nulla e che oltre quattrocento europarlamentari vorrebbero ulteriormente prolungare. Ma con la vita degli altri, senza mettere a rischio i propri figli e nipoti e senza tagliarsi le prebende. La guerra continua mentre 20 mila soldati ucraini sono stati dichiarati disertori (un soldato su 10 al fronte) e 800 mila renitenti alla leva sono fuggiti, o si nascondono nelle cantine e nelle campagne per non farsi reclutare da Zelensky. Sempre più soldati non vogliono sparare con le armi occidentali che inviamo loro. Sono scene, anche queste, già viste nella prima guerra mondiale. E in quella del Vietnam. Soldati che non sparano. Che abbandonano il loro posto di combattimento. Lo hanno appurato i servizi di inchiesta americani, non la propaganda filorussa. E, ciò nonostante, approviamo altre risoluzioni per ingozzarli di armi, armi che li obbligheranno a combattere e segneranno la loro condanna, sempre di più, a morire.

Il sonno della ragione genera mostri.

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giovedì 19 settembre 2024

BlackRock diventa socio del nostro Governo. C’è chi la chiama colonizzazione… - Giuseppe Gagliano

La crescente influenza di BlackRock all’interno dell’economia italiana, sottolineata dalla possibile gestione degli asset di SACE (il gruppo assicurativo e finanziario controllato dal Governo italiano attraverso il ministero dell’Economia), rappresenta un chiaro esempio di come le principali istituzioni finanziarie globali stiano rafforzando il loro controllo su settori strategici delle economie nazionali.


In un contesto geopolitico sempre più dominato da dinamiche economiche e finanziarie, la presenza di Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, in eventi di rilevanza internazionale come il G7 italiano non appare casuale. Il gruppo, già fortemente radicato nel tessuto economico italiano con ingenti partecipazioni in aziende leader come Eni, Enel e Intesa San Paolo, mira a consolidare ulteriormente il proprio ruolo di attore chiave nella gestione della liquidità pubblica e privata.

Questa strategia si inserisce in un quadro più ampio di “colonizzazione” economica, dove i confini tra pubblico e privato diventano sempre più labili, e le decisioni strategiche per lo sviluppo delle infrastrutture finanziarie e industriali vengono prese da entità globali, spesso distanti dalle priorità locali. Questo fenomeno si inserisce nel contesto del neoliberismo dominante che ha caratterizzato le politiche europee negli ultimi decenni, dove le privatizzazioni e l’intervento dei grandi capitali stranieri sono stati favoriti a scapito della sovranità economica nazionale.

Parallelamente, la politica di Sahra Wagenknecht in Germania rappresenta un raro tentativo di riscoprire una sinistra autenticamente sociale, che pone al centro della propria agenda politica temi fondamentali come il lavoro, la casa e i diritti sociali collettivi, in contrapposizione alla deriva neoliberista della sinistra tradizionale. L’inquietudine verso il suo movimento, tanto tra le élite economiche quanto tra i partiti socialdemocratici, riflette il timore che una forza politica capace di coniugare pacifismo, internazionalismo e diritti sociali possa minare l’egemonia di un sistema politico-economico che ha finora privilegiato i grandi interessi privati e le politiche di austerità.

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La scuola e la “congiura dell’ignoranza” - Francesco Coniglione

 

Diversamente da quanto si possa pensare – e cioè che la cultura e la produzione letteraria in genere siano un affare di secondaria importanza che poco incide sui processi di fondo di una società, specie quelli economici, ché “di cultura non si mangia” – è forse nel suo specchio che è possibile scorgere i movimenti (o sommovimenti) di più lunga durata, che caratterizzano una civiltà o un sistema di vita. Se ne ha una chiara dimostrazione nell’ultimo libro di Davide Miccione (La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura, Valore Italiano Editore, 2024) di cui qui parliamo non tanto per la sua fenomenologica descrizione dell’avanzata dell’incultura nella scuola e nell’università, quanto per la tesi di fondo che in esso è presentata e che riguarda il più generale governo del Paese.

Se infatti ci fermiamo al primo aspetto – già in parte esaminato dall’autore in un suo precedente volume (Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, IPOC, 2015 e poi in nuova edizione, lettere da Qalat, 2022) – troveremo le note denunzie che hanno portato all’impoverimento culturale della scuola italiana, già variamente evidenziato da molti altri autori. Ma qui esse sono presentate come una sorta di ascesa graduale verso l’ignoranza che segue il giovane a partire delle prime frequentazioni delle aule scolastiche, con la burocratizzazione di ogni aspetto dell’attività educativa, l’invasione di format e test standardizzati propinate dall’INVALSI, l’irruzione di inafferrabili competenze che hanno finito per sostituire i contenuti disciplinari, la trasformazione del preside in grigio manager interessato solo alla “produttività” (ovvero non perdere alunni, altrimenti verrebbero abolite le classi) e all’organizzazione di attività e progetti che tra l’altro lo gratificano economicamente. Insomma una scuola (in particolare il liceo, nel quale l’autore insegna e del quale parla con cognizione di causa, anche nel descrivere succosi e paradigmatici episodi) da cui è progressivamente scomparsa la cultura, sostituita da performance basate su test, addestramenti, capacità digitali e forme varie di socializzazione e nella quale la preparazione e la cultura del docente a nulla valgono a fronte della “raccolta punti” a cui esso è ormai costretto col seguire distrattamente e senza profitto master e corsi di aggiornamento on-line abborracciati da enti di formazione privati, che di tale attività hanno fatto un business assai lucroso. Il tutto viene condito con parole accattivati come democratizzazione, partecipazione, merito, alla cui base v’è però lo scoraggiamento di ogni forma di selezione su di esso appunto basata. Ma così – nota l’autore – «la falsa democratizzazione della scuola italiana […], diventando più facile e meno formativa, è di fatto una scuola classista perché sposta la selezione dalla scuola alla società, una selezione che finisce per radicarsi nel differente ceto di provenienza».

Questo percorso involutivo non si ferma alla scuola superiore, ma si è trasmesso e affermato anche nel mondo universitario, a partire – per riconoscimento quasi unanime – dalla famosa riforma di Luigi Berlinguer (anche se formalmente presentata da Ortensio Zecchino) del 3+2 e dall’introduzione dei cosiddetti “crediti”, intervenute durante il primo Governo Prodi. Era l’introduzione nel mondo della cultura di concetti e temi cari al dilagante pensiero neoliberale, di cui la sinistra si era fatta pienamente carico pensando che solo così poteva avvenire la modernizzazione della società italiana: aziendalizzazione del sapere (con i crediti formativi, l’abbinamento di scuola/lavoro, poi fatto da Renzi, la valutazione competitiva dei docenti), la dipendenza delle scelte curricolari dai bisogni dell’industria, l’equiparazione fra scuola statale e paritaria, entrambe qualificate come scuola pubblica e poste sullo stesso piano, l’impulso dato alle università telematiche (che distribuiscono lauree e crediti in modo assai più “liberale” delle università statali). Chi non ricorda le famose “tre i” di Berlusconi (inglese, informatica, impresa)?

La conseguenza è stata una caduta verticale della capacità di lettura e comprensione del testo e della conoscenza della lingua italiana da parte dei giovani liceali, che alla faticosa e incomprensibile prosa dei manuali, per quanto possano essere semplificati, preferisce ormai schemi concettuali liofilizzati o spiegazioni orali tratti dalla rete: «Tutto congiura affinché il giovane studente universitario si limiti a seguire il valzer degli esami e ad uscirne il più presto possibile. Essere colto diventa a questo punto un’opzione personale e lievemente eccentrica, una bella e minoritaria mania». Ma, si badi, non si è trattato di un disegno della destra, giacché a questa direzione di progressiva desertificazione culturale hanno contribuito tutti i ministri e i governi da più di vent’anni; anzi, si potrebbe dire, le cose peggiori le ha fatte proprio la cosiddetta sinistra (si pensi alla “buona scuola” di Renzi con l’alternanza scuola/lavoro), nella pervicace subalternità al pensiero liberale e nello scodinzolamento funzionale ad accreditarsi nei confronti dei poteri confindustriali che, attraverso i loro think-tank, di fatto hanno diretto e ancora influenzano, a livello nazionale e internazionale, la direzione delle “riforme educative”. Sicché è naturale concludere che tale “congiura dell’ignoranza” non sia un accidentale incidente di percorso, una conseguenza preterintenzionale di intenzioni fondamentalmente positive, ma piuttosto «il target che la politica si è prefissata», il cui risultato atteso è «l’eradicazione […] dell’intellettuale come colui che ritiene suo dovere assicurare una lettura critica della contemporaneità», sostituito da un tecnocrate e da un “raccoglitore di punti” e – nel mondo universitario – dall’inseguimento degli indici bibliometrici.

Ma perché tutto ciò? Il motivo è strutturale e – come ha sostenuto il sociologo Jean Lojkine – risiede nel fatto che il capitalismo moderno ha ormai escluso anche i dirigenti da ogni forma di decisione strategica: «il potere si è trasferito molto in alto e tutti i dipendenti, compresi di dirigenti […] sono solo degli esecutivi. […] Un parlamentare, un sottosegretario, un ministro non decidono nulla. Accordi, trattati commissioni europee e organismi internazionali hanno già deciso la direzione politica da seguire, i funzionari del ministero si occupano delle questioni tecniche, il ministro deve solo dare corpo a queste decisioni e presentarle in modo che servano la propria reputazione, quella del proprio partito, quella del proprio Governo e, infine, che nei meandri delle applicazioni, si possano favorire quegli attori economici a cui la propria area fa grato riferimento». Non serve quindi avere degli intellettuali, che con la propria cultura possano costituire una forza frenante al meccanismo e alle procedure decise altrove, da quegli autentici “competenti” che si sono formati in scuole di alto prestigio e che fanno parte della classe dirigente internazionale. A livello locale servono solo buoni esecutori, politici senza cultura e iniziativa, il cui range di autonomia sarà limitato a quelle battaglie identitarie e di bandiera (LGBT+, immigrazione, aborto, diritti civili in genere ecc.) che nulla incidono sui rapporti di potere fondamentali e ai quali il potere finanziario internazionale è in sostanza indifferente. Infatti «un uomo di cultura verrebbe costantemente intralciato dalle proprie idee [e dalla] propria attitudine a ragionare invece che a eseguire. […] In una società a trazione tecnocratica essere moderatamente ignoranti e restare sempre dentro il perimetro della ragione strumentale è la presentazione ideale».

Ecco dunque il cuore pulsante che ha guidato il processo di progressiva desertificazione culturale (non solo italiana), il motore occulto che ha macinato provvedimenti che – presentandosi come riforme verso la qualità, il merito e il miglioramento della scuola e dell’università italiane – ne hanno segnato il progressivo declino culturale. I ceti dirigenti hanno le loro scuole e i loro percorsi universitari privilegiati a cui indirizzare i propri rampolli o dove cooptare i giovani più intelligenti, vogliosi di far parte della élite che decide. Al resto, a coloro che per possibilità economiche o per insipienza culturale e familiare non hanno capito come va il mondo, resta il ruolo di volenterosi servi, che magari riescono a ritagliare qualche nicchia di privilegio economico, ma che contribuiscono a perpetuare, ne siano consapevoli o meno, il meccanismo di dominio che ormai sembra governare il mondo, sino a spingerlo sull’orlo dell’apocalisse nucleare.

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mercoledì 18 settembre 2024

L’emergere del fattore umano nell’Ucraina in guerra - Domenico Gallo

 

Il fattore umano è il più potente antidoto alle furie bellicose della politica, è stato determinante per porre fine alla guerra del Vietnam e potrebbe porre fine alla guerra in Ucraina.

 

C’è un fattore tenuto rigorosamente segreto dallo scoppio della guerra, cancellato dai telegiornali e dai giornali, rigorosamente nascosto nelle dichiarazioni dei politici e nei documenti ufficiali dell’Unione europea; un fattore che deve essere cancellato dai radar e ignorato, al punto da farlo sembrare inesistente; un fattore che deve essere sepolto in una tomba di silenzio perché, se scoperchiato, farebbe emergere un’oscenità che i nostri sensi non potrebbero tollerare: il fattore umano. Tutti i notiziari ci informano di qualche bomba caduta su edifici civili, provocando qualche vittima o di qua, o di là, ma sull’oceano di sofferenza e di morte provocato dai combattimenti regna il silenzio più assoluto. Nessun cronista ci racconta che ogni giorno vengono uccisi o feriti in combattimento oltre mille soldati in ciascuna parte del fronte. Fonti russe (citate da Analisi Difesa) riferiscono di 60 mila morti e feriti registrati tra le forze ucraine nel mese di luglio, in linea con i mesi precedenti dove le perdite stimate dai Mosca sono sempre state tra i 50 mila e i 60 mila soldati ucraini uccisi o feriti. Numeri simili sono quelli diffusi da Kiev e dai suoi alleati circa le perdite russe, stimate dal bollettino quotidiano emesso da Londra e attribuito all’intelligence britannica in mille morti e feriti al giorno. Secondo la stessa fonte, in maggio la media dei militari russi uccisi o feriti ogni giorno era stata di 1.262, a giugno di 1.140. Il totale delle perdite subite dall’Ucraina in oltre due anni di guerra si avvicina al totale delle perdite subite dall’Italia nella Grande guerra. Un’intera generazione è stata distrutta, centinaia di migliaia di famiglie sono state devastate dalla guerra. Questi enormi sacrifici umani sono irrilevanti nella contabilità della politica. Nella sua ultima Risoluzione, prima dello scioglimento, il Parlamento Europeo il 29 febbraio ha riconfermato l’obiettivo della “vittoria” militare dell’Ucraina, precisando che l’unico modo per raggiungerlo è quello di intensificare la guerra e la fornitura di armamenti sempre più letali. Nella sua prima riunione, il 17 luglio il nuovo Parlamento europeo ha ribadito l’obiettivo.

La fede nella “vittoria” è talmente ottusa che viene ignorato ogni riferimento ai costi umani. Quanti ucraini (e quanti russi) devono morire per conseguire l’obiettivo: un milione, due milioni, tre milioni? Qual è il prezzo giusto, il costo sostenibile? Ovviamente nessuno lo dice, nessuno vuole assumersi la responsabilità di confrontarsi con i risultati delle scelte irresponsabili NATO/UE.

Una cosa è certa, i responsabili del gioco conoscono bene il prezzo di sangue che bisogna pagare e non ne sono ancora soddisfatti se per gli USA il fallimento della controffensiva lanciata dall’Ucraina nella primavera/estate del 2023 è stato attribuito (New York Times, 18 agosto 2023) all’orientamento casualty adverse dell’Ucraina, cioè la contrarietà dei suoi generali ad accettare le perdite massicce necessarie per vincere.   

In queste ultime settimane il muro che nascondeva il fattore umano ha cominciato a sgretolarsi. Così è emerso che i giovani ucraini sono sempre meno disposti a immolarsi sull’altare di Zelensky.  Sarebbero circa 800 mila i renitenti alla leva in Ucraina secondo le stime che il presidente della commissione Affari economici del Parlamento ucraino, Dmytro Natalukha, ha riferito al quotidiano Financial Times. Si tratta di persone che si sono rese irreperibili in vari modi. Sono aumentate le diserzioni, secondo l’Ufficio del Procuratore Generale sono stati aperti fascicoli su 63mila casi dall’inizio della guerra.

Nel 2024 vi son stati tra gennaio e luglio 18.600 casi di abbandono non autorizzato del proprio reparto e 11.200 casi di aperta diserzione: si tratta 29.800 casi contro i 23.100 del 2023 e i 9.400 del 2022 ma i numeri reali potrebbero essere molto più alti (Analisi Difesa).

Un comandante di battaglione, Roman Kovalev, ha detto al Telegraph ucraino che nelle unità di fanteria il fenomeno della fuga può riguardare «fino al 30 per cento dei soldati».

E’ anche emerso che alcuni soldati al fronte si rifiutano di sparare. “Alcune persone non vogliono sparare. Vedono il nemico in posizione di tiro nelle trincee, ma non aprono il fuoco..” ha detto un frustrato comandante di battaglione della 47ª Brigata ucraina. (Associated Press).

Con questo livello di diserzioni e fuga dalla leva diventa sempre più difficile portare avanti i piani di guerra ad oltranza. Il fattore umano è il più potente antidoto alle furie bellicose della politica, è stato determinante per porre fine alla guerra del Vietnam e potrebbe porre fine alla guerra in Ucraina. Zelensky ne è consapevole ed è deciso a ricorrere all’unica opzione che gli resta per vincere: coinvolgere più profondamente la NATO nel conflitto. Per questo il 6 settembre, durante la riunione del Gruppo di contatto a Ramstein, in Germania, il presidente ucraino ha lanciato un appello deciso agli alleati della NATO: “Ignorate le linee rosse di Putin”. Insomma se il sangue ucraino si sta esaurendo, la soluzione proposta è di ricorrere ai donatori di sangue alleati.

Proprio questo è quello che dobbiamo evitare se vogliamo restare vivi.

(una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata sul Fatto Quotidiano del 14 settembre 2024 con il titolo Morti e disertori, la guerra si imbatte nel fattore umano)

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Il costo della resistenza - Chris Hedges

 

Trascrizione del discorso di Chris Hedges al Kairos Club di Londra l'11 settembre 2024. Facendo leva sulla sua profonda conoscenza della resistenza e della repressione, Hedges descrive in dettaglio i metodi che dobbiamo adottare per sconfiggere i potenti interessi, tra cui l'industria dei combustibili fossili e l'industria dell'agricoltura animale, che hanno anteposto i loro profitti alla protezione della nostra specie e di tutta la vita sulla Terra.

 

Friedrich Nietzsche, in “Al di là del bene e del male”, sostiene che solo poche persone hanno la forza di guardare, nei momenti di difficoltà, in quello che lui chiama il nocciolo fuso della realtà umana. La maggior parte ignora accuratamente il nocciolo. Gli artisti e i filosofi, per Nietzsche, sono invece consumati da una curiosità insaziabile, dalla ricerca della verità e dal desiderio di significato. Si avventurano nelle viscere del nocciolo fuso. Si avvicinano il più possibile prima che le fiamme e il calore li respingano. Questa onestà intellettuale e morale, scriveva Nietzsche, ha un costo. Coloro che vengono bruciati dal fuoco della realtà diventano “bambini bruciati”, scriveva, eterni orfani in imperi di illusione.

Le civiltà morenti fanno guerra all'indagine intellettuale indipendente, all'arte e alla cultura per questo motivo. Non vogliono che le masse guardino nella fossa. Condannano e diffamano le “persone bruciate”, compreso il mio amico Roger Hallam. Alimentano la dipendenza umana dall'illusione, dalla felicità e dalla mania della speranza. Spacciano la fantasia dell'eterno progresso materiale e il culto dell'io. Insistono - e questa è l'argomentazione del neoliberismo - sul fatto che l'ideologia dominante, basata sullo sfruttamento incessante e sull'accumulazione in continua espansione che incanala il denaro verso l'alto nelle mani di una classe miliardaria globale, sia decretata dalla legge naturale. 

In guerra non abbiamo usato le parole ottimista e pessimista.  Coloro che in guerra non erano in grado di valutare freddamente il mondo che li circondava, che non riuscivano a cogliere la desolazione e il pericolo mortale che affrontavano, che avevano un'infantile convinzione della propria immortalità o una mania di speranza, non vivevano a lungo.  

C'è, come dice Clive Hamilton in “Requiem per una specie: Why We Resist the Truth About Climate Change”, nota un oscuro sollievo che deriva dall'accettare che ‘un cambiamento climatico catastrofico è praticamente certo’. 

Questa cancellazione delle “false speranze”, dice, richiede una conoscenza intellettuale e una conoscenza emotiva. Questa conoscenza intellettuale è raggiungibile. La conoscenza emotiva, perché significa che coloro che amiamo, compresi i nostri figli, sono quasi certamente destinati all'insicurezza, alla miseria e alla sofferenza entro pochi decenni, se non pochi anni, è molto più difficile da acquisire. Accettare emotivamente il disastro imminente, raggiungere la comprensione viscerale che l'élite del potere globale non risponderà razionalmente alla devastazione dell'ecosistema, è difficile da accettare quanto la nostra stessa mortalità. La lotta esistenziale più ardua del nostro tempo consiste nell'ingerire questa terribile verità - intellettualmente ed emotivamente - e nel sollevarsi per resistere alle forze che ci stanno distruggendo. 

Per due decenni mi sono occupato di rivolte e rivoluzioni in tutto il mondo: le insurrezioni in America Centrale, Algeria, Yemen, Sudan e Punjab, le due rivolte palestinesi, le rivoluzioni del 1989 in Germania Est, Cecoslovacchia e Romania e le manifestazioni di piazza che hanno fatto cadere Slobodan Milosevic in Serbia. 

Le rivoluzioni e le insurrezioni sono combustioni spontanee. Nessuno, compresi i rivoluzionari, i bambini bruciati, è in grado di prevederle. La rivoluzione del febbraio 1917 fu, come la presa della Bastiglia in Francia, un'esplosione popolare inaspettata e non pianificata. Come sottolineò lo sfortunato Alexander Kerensky, la Rivoluzione russa “è nata da sola, senza l'intervento di nessuno, nel caos del crollo dello zarismo”. L'innesco è riconoscibile. Cosa la faccia divampare è un mistero.

Una popolazione si solleva contro un sistema decaduto non per coscienza rivoluzionaria, ma perché, come ha sottolineato Rosa Luxemburg, non ha altra scelta. È l'ottusità del vecchio regime, non il lavoro dei rivoluzionari, a scatenare la rivolta. E come lei stessa ha sottolineato, tutte le rivoluzioni sono in un certo senso fallimenti, eventi che iniziano, piuttosto che culminare, un processo di trasformazione sociale.

“Non c'era un piano predeterminato, non c'era un'azione organizzata, perché gli appelli dei partiti non riuscivano a tenere il passo con l'insorgere spontaneo delle masse”, scriveva a proposito dell'insurrezione del 1905 in Russia. “I leader avevano a malapena il tempo di formulare le parole d'ordine della folla in corsa”.

“Le rivoluzioni”, ha proseguito, “non possono essere fatte a comando. E questo non è affatto il compito del partito. Il nostro dovere è solo quello di parlare chiaramente in ogni momento, senza paura e senza tremare; cioè, di presentare chiaramente alle masse i loro compiti nel momento storico dato, e di proclamare il programma politico d'azione e gli slogan che derivano dalla situazione. La preoccupazione di sapere se e quando il movimento rivoluzionario di massa li affronterà deve essere lasciata con fiducia alla storia stessa. Anche se all'inizio il socialismo può apparire come una voce che grida nel deserto, esso si assicura una posizione morale e politica i cui frutti, quando scoccherà l'ora del compimento storico, raccoglierà con interesse composto”.

Nessuno avrebbe potuto prevedere che la prima intifada del 1987 sarebbe scoppiata nel campo profughi di Jabalia dopo che un camionista israeliano si era scontrato con un'auto uccidendo quattro lavoratori palestinesi. Nessuno avrebbe potuto prevedere che la decisione di un venditore di frutta tunisino, a cui la polizia aveva confiscato la bilancia perché lavorava senza licenza, di darsi fuoco per protesta nel dicembre 2010 avrebbe scatenato la primavera araba.

Sebbene il momento dell'esplosione sia misterioso, sono i visionari e i riformatori utopici come gli abolizionisti a rendere possibile il vero cambiamento sociale, mai i politici “pratici”. Gli abolizionisti hanno distrutto quella che lo storico Eric Foner chiama la “congiura del silenzio con cui i partiti politici, le chiese e altre istituzioni cercavano di escludere la schiavitù dal dibattito pubblico”. 

Egli scrive: 

Per gran parte degli anni Cinquanta dell'Ottocento e per i primi due anni della Guerra Civile, Lincoln, considerato il modello di politico pragmatico, sostenne un piano per porre fine alla schiavitù che prevedeva un'emancipazione graduale, un risarcimento monetario per i proprietari di schiavi e la creazione di colonie di neri liberati fuori dagli Stati Uniti. Questo piano strampalato non aveva alcuna possibilità di essere attuato. Furono gli abolizionisti, tuttora considerati da alcuni storici come fanatici irresponsabili, a proporre il programma - una fine immediata e non compensata della schiavitù, con i neri che diventavano cittadini statunitensi - che poi si realizzò (naturalmente con l'aiuto di Lincoln).

Come sottolinea Foner, sono i “fanatici” a fare la storia.

Vladimir Lenin sosteneva che il modo più efficace per indebolire la determinazione dell'élite al potere fosse quello di dirle esattamente cosa aspettarsi. Questa sfacciataggine attira l'attenzione della sicurezza dello Stato, ma conferisce al movimento onestà e prestigio. Il rivoluzionario, scriveva, deve fare richieste inequivocabili che, se soddisfatte, significherebbero la cancellazione dell'attuale struttura di potere.

Le rivoluzioni nell'Europa dell'Est sono state guidate da una manciata di dissidenti che, fino all'autunno del 1989, erano marginali e considerati dallo Stato come irrilevanti, finché non è diventato troppo tardi. Lo Stato inviava periodicamente la sicurezza dello Stato per molestarli. Spesso li ha ignorati. Non sono nemmeno sicuro che si possa definire questi dissidenti un'opposizione. Erano profondamente isolati all'interno delle loro società. I media statali negavano loro una voce. Non avevano uno status giuridico ed erano esclusi dal sistema politico. Erano inseriti in una lista nera. Hanno faticato a guadagnarsi da vivere. Ma quando nell'Europa dell'Est è arrivato il punto di rottura, quando l'ideologia comunista al potere ha perso ogni credibilità, l'opinione pubblica non ha avuto dubbi su chi potesse fidarsi. I manifestanti che si riversarono nelle strade di Berlino Est e Praga sapevano chi li avrebbe venduti e chi no. Si fidavano di coloro che, come Václav Havel, che io e altri reporter incontravamo ogni sera al Teatro della Lanterna Magica di Praga durante la rivoluzione, avevano dedicato la loro vita a lottare per una società aperta, coloro che erano stati disposti a essere condannati come non-persone e ad andare in prigione per la loro sfida. 

La nostra unica possibilità di rovesciare il potere corporativo e di fermare l'incombente ecocidio viene da coloro che non si arrenderanno, che resteranno fermi a qualunque prezzo, che sono disposti a farsi liquidare e vituperare da un liberalismo fallito. Smascherano la bancarotta della classe dirigente. Costringono lo Stato a reagire, come è stato dimostrato quando il Parlamento ha dichiarato l'emergenza climatica in seguito alle proteste di massa organizzate da Extinction Rebellion e alla decisione dei legislatori olandesi di ridurre i sussidi per il carburante dopo il blocco delle strade.

Coloro che accettano i rischi, comprese le lunghe pene detentive, penetrano nella coscienza della società in generale, compresi gli organi di sicurezza che la proteggono. Questa penetrazione, dall'esterno, è impossibile da misurare. Ma erode costantemente le fondamenta del potere fino a quando quello che sembra un solido edificio, come ho visto con lo Stato della Stasi nella Germania dell'Est e nella Romania di Ceausescu, sembra crollare da un giorno all'altro.

I sistemi di governo ossificati - testimoniati negli Stati Uniti dalle nostre elezioni gestite dalle corporazioni, dal nostro sistema di corruzione legalizzato, dalla nostra stampa commercializzata e dalla nostra magistratura prigioniera, che ha legalizzato il gerrymandering, una versione aggiornata del “borough marcio” britannico del XIX secolo - espongono la classe politica come burattini della cabala aziendale al potere. La riforma attraverso queste strutture è impossibile. Man mano che il sistema si calcifica, attua una repressione sempre più draconiana.

Gli abusi di potere, le politiche governative illegali, che si tratti dei crimini di guerra in Iraq e Afghanistan denunciati da WikiLeaks, dell'incendio di Grenfell o del rifiuto di affrontare una crisi climatica che porterà alla morte di massa e al collasso della società, vengono ignorati e coloro che li denunciano perseguitati.

La condanna a cinque anni di carcere di Roger e i quattro anni di carcere degli altri attivisti di Just Stop Oil sono giustificati da leggi formulate dall'industria dei combustibili fossili, come la “cospirazione per interferire con le infrastrutture nazionali” o la nuova legge “Lock on”, che prevede che un manifestante che si attacca a un oggetto, a un terreno o a un'altra persona con una qualche forma di adesivo o di manette venga incarcerato per quattro anni e mezzo. Le udienze e i processi agli attivisti di Just Stop Oil, come quelli a Julian Assange, negano agli accusati il diritto di presentare prove oggettive. Questi processi-farsa sono una farsa dickensiana. Si fanno beffe degli ideali della giurisprudenza britannica e replicano i giorni peggiori della Lubyanka.  Questi attivisti non sono stati condannati per aver preso parte alle proteste, ma per averle pianificate. Le prove utilizzate in tribunale per condannarli provengono da una riunione Zoom online che è stata catturata da Scarlet Howes, un reporter che si è finto un sostenitore del The Sun. Senza dubbio qualche think tank sui combustibili fossili sta pensando a un premio giornalistico per lei. 

E, come sottolinea Linda Lakhdhit, direttore legale di Climate Rights International, le condanne per chi si impegna nelle proteste per il clima sono diventate sempre più dure, più lunghe di molte delle condanne inflitte a chi si è reso protagonista di atti di violenza durante i disordini razzisti di Southport. 

Non è casuale che l'incarcerazione di questi attivisti per il clima coincida con l'arresto di giornalisti e attivisti che cercano di fermare il genocidio a Gaza - tra cui Sarah Wilkinson, Richard Barnard, co-fondatore di Palestine Action, che ha interrotto il lavoro delle fabbriche di armi legate al genocidio di Israele, insieme all'arresto del giornalista britannico-siriano Richard Medhurst, il cui aereo è stato intercettato sulla pista da veicoli della polizia in modo da poterlo arrestare prima che raggiungesse il gate, e dell'ex ambasciatore e giornalista britannico Craig Murray, detenuto ai sensi dell'Allegato 7 della legge britannica sul terrorismo. 

L'Allegato 7 è il re degli strumenti orwelliani che definiscono lo Stato corporativo. Permette alla polizia, insieme ai funzionari doganali, di fermare qualsiasi persona in qualsiasi porto d'ingresso marittimo, terrestre o aereo e di interrogarla per un massimo di 6 ore. Non esiste il diritto di rifiutarsi di rispondere alle domande. Non esiste il diritto di avere un avvocato presente. Qualsiasi documento, PIN o password deve essere fornito su richiesta. Possono essere prelevate impronte digitali e campioni di DNA. Chiunque venga condannato per aver “ ostacolato” una richiesta di Schedule 7 può ricevere una multa fino a 2.500 sterline e la reclusione fino a tre mesi.

Dal 2001 il governo britannico ha utilizzato i poteri della Schedule 7 per interrogare e ottenere informazioni da centinaia di migliaia di persone, forse di più. 419.000 persone sono state sottoposte a fermi Schedule 7 tra il 2009 e il 2019. Un'analisi pubblicata dall'Università di Cambridge nel 2014 ha concluso che l'88% delle persone fermate e interrogate - senza alcun sospetto di reato - erano musulmane. Il governo si è rifiutato di rilasciare i dati relativi al numero di persone fermate tra il 2001 e il 2009. I centri comunitari sono stati perquisiti, i manifestanti sono stati arrestati e perseguiti, i fondi sono stati sequestrati, le famiglie sono state terrorizzate, intimidite e separate. Questa è la pesante interferenza dello Stato che ora si abbatte su tutti noi, compresi gli attivisti per il clima e coloro che sui social media sostengono la resistenza palestinese, condannano l'apartheid e il genocidio dello Stato israeliano o si oppongono alla NATO. 

I servizi segreti Five Eyes stanno costruendo diagrammi di Venn per collegare tutti coloro che si oppongono al sionismo, al neoliberismo, al militarismo, alla censura della stampa, al dominio delle imprese e all'industria dei combustibili fossili. 

La situazione non potrà che peggiorare. Le amministrazioni universitarie negli Stati Uniti hanno trascorso l'estate lavorando in tandem con consulenti di sicurezza, molti dei quali legati a Israele, per determinare i modi migliori per soffocare le proteste quest'autunno. Hanno imposto divieti quasi universali su accampamenti, strutture temporanee, suoni amplificati, gessatura, cartelli autoportanti, volantinaggio, esposizioni all'aperto e tavoli per eventi. Un solo sussurro di dissenso, dentro o fuori le aule scolastiche, comporterà l'espulsione o l'arresto degli studenti e dei docenti che protestano.

C'è stato un decennio di rivolte popolari, dal 2010 fino alla pandemia globale del 2020. Queste rivolte hanno scosso le fondamenta dell'ordine globale. Hanno denunciato il dominio delle imprese, i tagli all'austerità, l'incapacità di affrontare la crisi climatica e hanno chiesto giustizia economica e diritti civili. Negli Stati Uniti ci sono state proteste a livello nazionale, incentrate sugli accampamenti di Occupy, durati 59 giorni. Ci sono state rivolte popolari in Grecia, Spagna, Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Siria, Libia, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Cile e durante la Candlelight Light Revolution della Corea del Sud. Politici screditati sono stati cacciati dalle loro cariche in Grecia, Spagna, Ucraina, Corea del Sud, Egitto, Cile e Tunisia. La riforma, o almeno la sua promessa, ha dominato il discorso pubblico. Sembrava annunciare una nuova era.

Poi il contraccolpo. Le aspirazioni dei movimenti popolari sono state schiacciate. Il controllo dello Stato e la disuguaglianza sociale, invece di essere ridotti, si sono ampliati. Non c'è stato alcun cambiamento significativo. Nella maggior parte dei casi, le cose sono peggiorate. L'estrema destra è emersa trionfante. 

Che cosa è successo? Come mai un decennio di proteste di massa che sembrava preannunciare l'apertura democratica, la fine della repressione statale, l'indebolimento del dominio delle imprese e delle istituzioni finanziarie globali e un'era di libertà si è concluso con un ignominioso fallimento? Cosa è andato storto? Come hanno fatto gli odiati banchieri e politici a mantenere o riprendere il controllo? 

Come sottolinea Vincent Bevins nel suo libro “If We Burn: The Mass Protest Decade and the Missing Revolution”, i “tecno-ottimisti” che predicavano che i nuovi media digitali fossero una forza rivoluzionaria e democratizzante non avevano previsto che i governi autoritari, le corporazioni e i servizi di sicurezza interni avrebbero potuto sfruttare queste piattaforme digitali e trasformarle in motori di sorveglianza, censura e veicoli di propaganda e disinformazione. Le piattaforme di social media che hanno reso possibili le proteste popolari sono state rivoltate contro di noi.

Come sottolinea Vincent Bevins nel suo libro "If We Burn: The Mass Protest Decade and the Missing Revolution", i "tecno-ottimisti" che predicavano che i nuovi media digitali erano una forza rivoluzionaria e democratizzante non prevedevano che governi autoritari, corporazioni e servizi di sicurezza interna avrebbero potuto sfruttare queste piattaforme digitali e trasformarle in motori di sorveglianza all'ingrosso, censura e veicoli per propaganda e disinformazione. Le piattaforme di social media che hanno reso possibili le proteste popolari si sono rivolte contro di noi.

Molti movimenti di massa, non riuscendo a implementare strutture organizzative gerarchiche, disciplinate e coerenti, non sono stati in grado di difendersi. Nei pochi casi in cui i movimenti organizzati hanno ottenuto il potere, come in Grecia e Honduras, i finanzieri e le corporazioni internazionali hanno cospirato per riprendersi il potere senza pietà. Nella maggior parte dei casi, la classe dirigente ha rapidamente riempito i vuoti di potere creati da queste proteste. Hanno offerto nuovi marchi per riconfezionare il vecchio sistema. Questo è il motivo per cui la campagna di Obama del 2008 è stata  nominata  Marketer of the Year da Advertising Age. Ha vinto il voto di centinaia di marketer, responsabili di agenzie e venditori di servizi di marketing riuniti alla conferenza annuale dell'Association of National Advertisers. Ha battuto i secondi classificati Apple e Zappos.com. I professionisti lo sapevano. Il marchio Obama era il sogno di un marketer. Hanno ripreso la stessa truffa con Kamala Harris.

Troppo spesso le proteste assomigliavano a flash mob, con persone che si riversavano negli spazi pubblici e creavano uno spettacolo mediatico, anziché impegnarsi in una rottura sostenuta, organizzata e prolungata del potere. Guy Debord  cattura  la futilità di questi spettacoli/proteste nel suo libro " La società dello spettacolo ", notando che l'era dello spettacolo significa che coloro che sono affascinati dalle sue immagini sono "modellati alle sue leggi". Anarchici e antifascisti, come quelli del black bloc, spesso rompevano finestre, lanciavano pietre alla polizia e rovesciavano o bruciavano auto. Atti casuali di violenza, saccheggi e vandalismo erano giustificati nel gergo del movimento, come componenti di "insurrezione selvaggia" o "spontanea". Questo "riot porn" deliziava i media, molti di coloro che vi si impegnavano e, non a caso, la polizia che lo usava per giustificare ulteriore repressione e demonizzare i movimenti di protesta. Un'assenza di teoria politica ha portato gli attivisti a usare la cultura popolare, come il film "V per Vendetta", come punti di riferimento. Gli strumenti molto più efficaci e paralizzanti delle campagne educative di base, degli scioperi e dei boicottaggi sono stati ignorati o messi da parte, forse perché sono molto più duri e meno affascinanti.

Come  aveva capito Karl Marx  , "Coloro che non possono rappresentarsi saranno rappresentati".

Solo movimenti altamente organizzati e strutturati attorno alla rappresentanza ci salveranno. 

"Pensavamo che la rappresentanza fosse un atto elitario, ma in realtà è l'essenza della democrazia",  ??racconta a Bevin nel libro Hossam Bahgat , giornalista investigativo e attivista egiziano per i diritti umani.

E tutti i movimenti rivoluzionari devono essere radicati nel mondo del lavoro, altrimenti qualsiasi vuoto di potere che si creerà verrà colmato dalle élite aziendali, che ovviamente sono molto ben organizzate.

Il problema era che le istituzioni e le strutture di controllo durante le proteste del decennio sono rimaste intatte. Possono, come in Egitto, essersi rivoltate contro i prestanome del vecchio regime, ma hanno anche lavorato per indebolire i movimenti popolari e i leader populisti. Hanno sabotato gli sforzi per strappare il potere alle multinazionali e agli oligarchi. Hanno impedito o rimosso i populisti dalle cariche. La campagna feroce condotta  contro  Jeremy Corbyn e i suoi sostenitori quando era a capo del partito laburista durante le elezioni generali del Regno Unito del 2017 e del 2019, ad esempio, è stata  orchestrata  da membri del suo  stesso partito ,  da multinazionali , sionisti,  dall'opposizione conservatrice , da commentatori famosi, da una  stampa mainstream  che  ha amplificato  le  diffamazioni e la diffamazione , da membri dell'esercito  britannico e dai servizi di sicurezza della nazione  . 

Le organizzazioni politiche disciplinate non sono, di per sé, sufficienti, come ha dimostrato il governo di sinistra di Syriza in Grecia. Se la leadership di un partito anti-establishment non è disposta a liberarsi dalle strutture di potere esistenti, verrà cooptata o schiacciata quando le sue richieste saranno respinte dai centri di potere dominanti. Syriza alla fine è diventata un'appendice del sistema bancario internazionale.

Il sociologo iraniano americano  Asef Bayat , che ha vissuto sia la Rivoluzione iraniana del 1979 a Teheran sia la rivolta del 2011 in  Egitto , distingue tra condizioni soggettive e oggettive per le rivolte della Primavera araba scoppiate nel 2010. I manifestanti possono essersi opposti alle politiche neoliberiste, ma sono stati anche plasmati, sostiene, dalla "soggettività" neoliberista.

"Le rivoluzioni arabe mancavano del tipo di radicalismo, in termini politici ed economici, che ha caratterizzato la maggior parte delle altre rivoluzioni del ventesimo secolo",  scrive Bayat  nel suo libro "Rivoluzione senza rivoluzionari: dare un senso alla primavera araba". "A differenza delle rivoluzioni degli anni '70 che hanno sposato un potente impulso socialista, anti-imperialista, anti-capitalista e di giustizia sociale, i rivoluzionari arabi erano più preoccupati delle ampie questioni dei diritti umani, della responsabilità politica e della riforma legale. Le voci prevalenti, laiche e islamiste, davano per scontato il libero mercato, i rapporti di proprietà e la razionalità neoliberista, una visione del mondo acritica che avrebbe reso solo un omaggio di facciata alle genuine preoccupazioni delle masse per la giustizia sociale e la distribuzione".

Come scrive Bevins, “una generazione di individui cresciuti a vedere ogni cosa come se fosse un'impresa commerciale è stata deradicalizzata, è arrivata a considerare questo ordine globale come 'naturale' ed è diventata incapace di immaginare cosa ci voglia per realizzare una vera rivoluzione”.

Le rivolte popolari, scrive Bevins, “hanno fatto un ottimo lavoro nel creare buchi nelle strutture sociali e vuoti politici”. 

Ma i vuoti di potere sono stati rapidamente colmati in Egitto dai militari. In Bahrein, dall'Arabia Saudita e dal Consiglio di cooperazione del Golfo e a Kiev, da un "diverso gruppo di oligarchi e nazionalisti militanti ben organizzati". In Turchia è stato infine colmato da Recep Tayyip Erdo?an. A Hong Kong è stata Pechino.

"La protesta di massa strutturata orizzontalmente, coordinata digitalmente e senza leader è fondamentalmente illeggibile", scrive Bevins. "Non puoi osservarla o porle domande e arrivare a un'interpretazione coerente basata sulle prove. Puoi assemblare i fatti, assolutamente, milioni di fatti. Semplicemente non sarai in grado di usarli per costruire una lettura autorevole. Ciò significa che il significato di questi eventi verrà imposto loro dall'esterno. Per capire cosa potrebbe accadere dopo una qualsiasi esplosione di protesta, non devi solo prestare attenzione a chi è in attesa dietro le quinte per riempire un vuoto di potere. Devi prestare attenzione a chi ha il potere di definire la rivolta stessa".

La mancanza di strutture gerarchiche nei recenti movimenti di massa, fatta per prevenire un culto della leadership e assicurarsi che tutte le voci siano ascoltate, pur essendo nobile nelle sue aspirazioni, rende i movimenti facili prede. Quando Zuccotti Park aveva centinaia di persone che partecipavano alle assemblee generali, ad esempio, la diffusione di voci e opinioni significava paralisi, soprattutto una volta che il movimento era stato pesantemente infiltrato dalla polizia, dall'FBI e dalla Homeland Security. Peter Kropotkin sottolinea questo punto, scrivendo che il consenso funziona in piccoli gruppi (limita il numero a 150) ma paralizza le grandi organizzazioni.

Le rivoluzioni richiedono abili organizzatori, autodisciplina, una visione ideologica alternativa, arte rivoluzionaria ed educazione. Richiedono interruzioni prolungate del potere e, cosa più importante, leader che rappresentino il movimento. Le rivoluzioni sono progetti lunghi e difficili che richiedono anni per essere realizzati, che lentamente e spesso impercettibilmente erodono le fondamenta del potere. Le  rivoluzioni di successo  del passato, insieme ai loro teorici, dovrebbero essere la nostra guida, non le immagini effimere che ci incantano sui mass media. 

La rivoluzione non è, in ultima analisi, un calcolo politico. È un calcolo morale. È fondata sulla visione di un altro mondo, di un altro modo di essere. È guidata, alla fine, da un imperativo morale, soprattutto perché molti di coloro che iniziano una rivoluzione non sopravvivono per vederne il compimento. I rivoluzionari sanno che, come scrisse Immanuel Kant: "Se la giustizia perisce, la vita umana sulla terra ha perso il suo significato". E questo significa che, come Socrate, dobbiamo arrivare a un punto in cui è meglio subire il male che farlo. Dobbiamo vedere e agire immediatamente, e dato cosa significa vedere, ciò richiederà il superamento della disperazione, non con la ragione, ma con la fede.

Ho visto nei conflitti che ho trattato il potere di questa fede, che si trova al di fuori di qualsiasi credo religioso o filosofico. Questa fede è ciò che Havel ha chiamato nel suo saggio "Il potere dei senza potere" vivere nella verità. Vivere nella verità espone la corruzione, le bugie e l'inganno dello Stato. È un rifiuto di essere parte della farsa.

"Non diventi un 'dissidente' solo perché un giorno decidi di intraprendere questa insolita carriera", ha scritto Havel. "Ci vieni gettato dentro dal tuo personale senso di responsabilità, combinato con una serie complessa di circostanze esterne. Vieni espulso dalle strutture esistenti e messo in una posizione di conflitto con esse. Inizia come un tentativo di fare bene il tuo lavoro e finisce con l'essere marchiato come nemico della società. ... Il dissidente non opera affatto nel regno del potere autentico. Non cerca il potere. Non ha alcun desiderio di carica e non raccoglie voti. Non cerca di ammaliare il pubblico. Non offre nulla e non promette nulla. Può offrire, se non altro, solo la sua pelle, e la offre solo perché non ha altro modo di affermare la verità che rappresenta. Le sue azioni semplicemente esprimono la sua dignità di cittadino, indipendentemente dal costo". 

La lunga, lunga strada di sacrifici e sofferenze che ha portato al crollo dei regimi comunisti si estendeva per decenni. Coloro che hanno reso possibile il cambiamento erano coloro che avevano scartato ogni nozione pratica. Non hanno cercato di riformare il Partito Comunista. Non hanno cercato di lavorare all'interno del sistema. Non sapevano nemmeno cosa, se non altro, le loro piccole proteste, ignorate dai media controllati dallo Stato, avrebbero realizzato. Ma attraverso tutto questo si sono attenuti saldamente agli imperativi morali. Lo hanno fatto perché questi valori erano giusti e giusti. Non si aspettavano alcuna ricompensa per la loro virtù; anzi, non ne hanno ottenuta nessuna. Sono stati emarginati e perseguitati. E tuttavia questi dissidenti, poeti, drammaturghi, attori, cantanti e scrittori alla fine hanno trionfato sul potere statale e militare. Hanno attirato il bene al bene. Hanno trionfato perché, per quanto intimidite e spezzate apparissero le masse intorno a loro, il loro messaggio di sfida non è passato inosservato. Non è passato inosservato. Il costante battito del tamburo della ribellione ha costantemente esposto la mano morta dell'autorità e la putrefazione dello Stato.

Ero in piedi con centinaia di migliaia di ribelli cecoslovacchi nel 1989 in una fredda notte invernale in  Piazza Venceslao a Praga  mentre la cantante  Marta Kubisova  si avvicinava al balcone dell'edificio  Melantrich . Kubisova era stata bandita dalle onde radio nel 1968 dopo l'invasione sovietica per il suo inno di sfida "Preghiera per Marta". Il suo intero catalogo, inclusi più di 200 singoli, era stato confiscato e distrutto dallo Stato. Era scomparsa dalla vista del pubblico. Quella notte la sua voce inondò improvvisamente la piazza. Attorno a me si accalcavano folle di studenti, la maggior parte dei quali non era ancora nata quando lei era scomparsa. Cominciarono a cantare le parole dell'inno. C'erano lacrime che scorrevano sui loro volti. Fu allora che compresi il potere della ribellione. Fu allora che seppi che nessun atto di ribellione, per quanto futile possa sembrare al momento, è sprecato. Fu allora che seppi che il regime comunista era finito. 

"Il popolo deciderà ancora una volta il proprio destino", cantava la folla all'unisono con Kubisova. Quel freddo inverno i muri di Praga erano ricoperti di manifesti raffiguranti Jan Palach. Palach, uno studente universitario, si diede fuoco in Piazza Venceslao il 16 gennaio 1969, a metà giornata, per protestare contro la repressione del movimento democratico del Paese. Morì per le ustioni tre giorni dopo. Lo Stato tentò rapidamente di cancellare il suo atto dalla memoria nazionale. Non ne fece menzione sui media statali. Una marcia funebre degli studenti universitari fu interrotta dalla polizia. La tomba di Palach, che divenne un santuario, vide le autorità comuniste riesumare il suo corpo, cremarne i resti e spedirli a sua madre con la clausola che le sue ceneri non potessero essere deposte in un cimitero. Ma non funzionò. La sua sfida rimase un grido di battaglia. Il suo sacrificio spinse gli studenti nell'inverno del 1989 ad agire. La Piazza dell'Armata Rossa di Praga, poco dopo la mia partenza per Bucarest per seguire la rivolta in Romania, è stata rinominata Piazza Palach. Diecimila persone sono andate alla cerimonia di inaugurazione. 

Noi, come coloro che si sono opposti alla lunga notte del comunismo, non abbiamo più alcun meccanismo all'interno delle strutture formali del potere che protegga o faccia progredire i nostri diritti. Anche noi abbiamo subito un colpo di stato portato avanti non dai leader impassibili di un Partito Comunista monolitico, ma dallo stato aziendale. 

Potremmo sentirci, di fronte alla spietata distruzione aziendale della nostra nazione, della nostra cultura e del nostro ecosistema, impotenti e deboli. Ma non lo siamo. Abbiamo un potere che terrorizza lo stato aziendale. Ogni atto di ribellione, non importa quante poche persone si presentino o quanto sia pesantemente censurato, erode il potere aziendale. Ogni atto di ribellione mantiene vive le braci per movimenti più ampi che ci seguono. Sostiene un'altra narrazione. Attirerà, mentre lo stato si consuma, numeri sempre più ampi. Forse questo non accadrà durante la nostra vita. Ma se persistiamo, manterremo viva questa possibilità. Se non lo facciamo, morirà.

Reinhold Niebuhr  etichettò questa capacità di sfidare le forze della repressione come "una sublime follia nell'anima". Niebuhr scrisse che "nient'altro che la follia combatterà contro il potere maligno e la 'malvagità spirituale nei luoghi elevati'". Questa sublime follia, come Niebuhr aveva capito, è pericolosa, ma è vitale. Senza di essa, "la verità è oscurata". E Niebuhr sapeva anche che il liberalismo tradizionale era una forza inutile nei momenti di estremità. Il liberalismo, disse Niebuhr, "manca dello spirito di entusiasmo, per non dire di fanatismo, che è così necessario per spostare il mondo fuori dai suoi sentieri battuti. È troppo intellettuale e troppo poco emotivo per essere una forza efficiente nella storia".

I profeti nella Bibbia ebraica avevano questa sublime follia. Le parole dei profeti ebrei, come  scrisse Abraham Heschel  , erano “un grido nella notte. Mentre il mondo è tranquillo e addormentato, il profeta sente l’esplosione dal cielo”. Il profeta, poiché vide e affrontò una realtà spiacevole, fu, come scrisse Heschel, “costretto a proclamare l’esatto opposto di ciò che il suo cuore si aspettava”. 

Questa sublime follia è l'essenziale. È l'accettazione che quando stai dalla parte degli oppressi vieni trattato come gli oppressi. È l'accettazione che, sebbene empiricamente tutto ciò per cui abbiamo lottato durante la nostra vita possa essere peggiore, la nostra lotta convalida se stessa. 

Come  scrisse Hannah Arendt  in “Le origini del totalitarismo”, le uniche persone moralmente affidabili non sono quelle che dicono “questo è sbagliato” o “questo non si dovrebbe fare”, ma quelle che dicono “non posso”. 

Karl Popper  in "The Open Society and Its Enemies" scrive che la questione non è come far governare le brave persone. Popper dice che questa è la domanda sbagliata. La maggior parte delle persone attratte dal potere, scrive, "raramente sono state sopra la media, sia moralmente che intellettualmente, e spesso [sono state] al di sotto". La questione è come possiamo costruire forze per limitare il dispotismo dei potenti. C'è un momento nelle memorie di Henry Kissinger (non comprate il libro) in cui Nixon e Kissinger guardano decine di migliaia di manifestanti contro la guerra che hanno circondato la Casa Bianca. L'amministrazione Nixon aveva piazzato autobus urbani vuoti in cerchio attorno alla Casa Bianca per tenere indietro i manifestanti. "Henry", disse, "sfonderanno le barricate e ci prenderanno".

Ed è esattamente lì che vogliamo che siano le persone al potere. Ecco perché, sebbene non fosse un liberal, Nixon è stato il nostro ultimo presidente liberal. Aveva paura dei movimenti. E se non riusciamo a far sì che le élite abbiano paura di noi, falliremo. 

Dobbiamo costruire strutture organizzate di aperta sfida. Potrebbero volerci anni. Ma senza un potente contrappeso, senza una visione alternativa e strutture alternative di autogoverno, saremo costantemente privati ??del nostro potere. Ogni azione che intraprendiamo, ogni parola che pronunciamo deve rendere chiaro che ci rifiutiamo di partecipare alla nostra schiavitù e distruzione. 

Il coraggio è contagioso. Le rivoluzioni iniziano, come ho visto nella Germania dell'Est, con alcuni preti luterani che tenevano candele mentre marciavano per le strade di Lipsia nella Germania dell'Est. Finiscono con mezzo milione di persone che protestano a Berlino Est, la defezione della polizia e dell'esercito dalla parte dei manifestanti e il crollo dello stato della Stasi. Ma le rivoluzioni accadono solo quando alcuni dissidenti decidono che non collaboreranno più. 

Potremmo non riuscirci. Così sia. Almeno quelli che verranno dopo di noi, e parlo da padre, diranno che ci abbiamo provato. Le forze aziendali che ci tengono nella loro morsa mortale distruggeranno le nostre vite. Distruggeranno le vite dei miei figli. Distruggeranno le vite dei vostri figli. Distruggeranno l'ecosistema che rende possibile la vita. Dobbiamo a quelli che verranno dopo di noi di non essere complici di questo male. Dobbiamo a loro di rifiutarci di essere buoni tedeschi. 

Io, alla fine, non combatto i fascisti perché vincerò. Combatto i fascisti perché sono fascisti.

da qui

martedì 17 settembre 2024

Verde marcio - Marco Revelli

  

Ursula von der Layen ha dedicato un’ampia parte dei 48 minuti e 20 secondi del discorso in cui ha presentato la sua “strategic vision” per i prossimi cinque anni davanti al Parlamento europeo in seduta plenaria al tema delle sfide ambientali, del cambiamento climatico, dell’energia pulita, del “suo” Green deal (che ama come un figlio), del nascituro Clean Industrial Deal promesso per i primi 100 giorni del suo mandato… Il secondo tema per importanza è stato la Guerra. La guerra a cui dovremo prepararci mentalmente e tecnicamente. E le Armi, che dobbiamo apprestarci a produrre su scala incomparabilmente più ampia che in passato perché, così ha detto testualmente, viviamo in un “mondo in cui tutto è armato e contestato” (a world in which everything is weaponised and contested).

Pochi l’hanno notato – quasi nessuno – ma il combinato disposto di questi due temi nel medesimo discorso disegna il profilo pressoché perfetto della figura retorica dell’ossimoro, ovvero di una locuzione che contiene in sé concetti opposti, come “lucida follia”, “acuta ottusità”, “illustre sconosciuto”… O, forse meglio, ci presentano la struttura mentale sostanzialmente bi-polare della Presidente dell’UE (e dell’UE stessa), per metà dottor Jekyll, quando promette caramellosa ai giovani un roseo futuro di serenità ambientale in un pianeta pulito in cui condurre una vita finalmente riconciliata con la Natura, e per metà Mister Hyde che quella vita gliela strappa (e quella Natura la devasta) a suon di bombe danzando sull’abisso di un conflitto nucleare. Due universi di senso – e di non-senso – coesistenti nel breve spazio di uno speech. Basta, d’altra parte, un semplice esercizio di matematica per averne la conferma.

 

La contabilità ambientale della guerra

Sapete qual è l’”impronta ecologica” di un proiettile di artiglieria da 155mm, i più usati sui campi di battaglia ucraini? Un gruppo di esperti di GHG, ovvero di Greenhause Gas o Gas ad effetto serra si è preso la briga di misurarla e ha risposto che equivale a 136 Kg di CO2: parte per la produzione dell’esplosivo, parte per le componenti in acciaio, altri Kg liberati al momento dell’esplosione. Considerato che ognuno di noi, guidando una vecchia diesel per una ventina di Km al giorno emette circa 2,6Kg di CO2, ne consegue che un solo proiettile genera un inquinamento pari a quello prodotto in un paio di mesi da un automobilista normale. Se si pensa che nei primi mesi di guerra, dal giorno dell’aggressione fino alla battaglia di Severodonetsk, nel giugno 2022, le truppe di Mosca avevano sparato circa 60mila colpi al giorno e gli ucraini quasi la metà, prima di aver dato fondo alle scorte accumulate negli anni precedenti e a quelle risalenti ai tempi dell’URSS, si ha la misura di quale pestilenza sia, anche sul piano ambientale, quella guerra. Ora la neo Presidente dell’UE – dopo non aver mosso un dito, come d’altra parte tutto l’Occidente, per fermare quella pazzia, anzi avendo lavorato a soffiare sul fuoco -, propone di portare la produzione di proiettili a più di 2 milioni di pezzi all’anno (una boutade, naturalmente, dato che la capacità massima delle industrie belliche europee non supera i 300.000 proiettili, forse raddoppiabili con uno sforzo estremo), ma necessaria ad alimentare la retorica del sostegno all’Ucraina as long as it take e perché “We must give Ukraine everything it needs to resist and prevail”. Un progetto a sostegno del quale aveva comunque lanciato, già lo scorso anno, il programma Asap (Act in support of ammunition production) con lo scopo di finanziare con fondi del Bilancio comune europeo la produzione di proiettili e missili, il quale ha già portato alla stipula di 31 accordi finalizzati a sfornare 4.300 tonnellate l’anno di esplosivi, 10 mila tonnellate di polvere da sparo, e centinaia di migliaia di proiettili con i relativi involucri, facendo esclamare a uno zelante funzionario del suo entourage che finalmente “siamo passati dalla modalità pace alla modalità guerra”.

E’ la stessa persona, si badi, che perfettamente coiffata da serafica damina del Settecento, annuncia trionfante che “nel primo semestre di quest’anno, il 50% della nostra produzione di energia elettrica è stata ottenuta da fonti rinnovabili, autoctone e pulite” (mica gli orribili “dirty Russian fossil fuels”); e conferma che per il 2040 avremo cancellato il 90% di quei catorci insopportabili su cui si accaniscono ancora a viaggiare gli straccioni delle campagne francesi (quelli che indossarono i gilet jaunes) o i miserabili pensionati italiani. Ed è ancora lei – sempre lei! – indossato l’elmetto, a invocare l’aumento tendenzialmente senza limiti della spesa militare (“We need to invest more. We need to invest together”), annunciando – blasfema – che “faremo come per i vaccini”. E proponendo come esempio la costruzione di un “comprehensive aerial defence system”: uno Scudo Aereo Europeo, “non solo per proteggere il nostro spazio aereo ma come forte (strong) simbolo dell’unità europea in materia militare”, a cui si dovrebbe affiancare il vasto lavoro di potenziamento delle “capacita di difesa di fascia alta in settori critici quali il combattimento aereo” da realizzare prelevando circa un miliardo di euro dallo “Strumento europeo per la pace” (sic!), che peraltro ha già “mobilitato 6,1 miliardi di euro per sostenere le forze armate ucraine con attrezzature e forniture militari letali e non letali” (parole testuali di Ursula).

Non so se la von der Layen in versione green abbia idea di quanto costerebbe, in termini d’inquinamento, ciò che lei stessa in versione tuta mimetica propone. Vale comunque la pena ricordarlo. Un F16 Falcon, di quelli che Zelensky ha chiesto costantemente e che alla fine gli sono stati dati, consuma circa 16.000 litri di carburante all’ora. Ovvero emette quasi 50mila kg di CO2 per missione. Inquina dunque in un solo volo quanto 55 automobilisti diesel in un anno intero! Se gli 80 fight jets promessi dall’Europa a Zelensky fossero usati ognuno anche solo per una missione al giorno, produrrebbero ogni anno circa un miliardo e mezzo di chili di gas serra, a cui si devono aggiungere quelli, enormemente maggiori, prodotti dall’aviazione russa, dal movimento dei mezzi corazzati (un Abrams, un Leopard 2, un T90 consuma circa 450 litri di carburante ogni 100 Km con un’emissione di CO2 pari a 10 Kg al  chilometro), dai tiri d’artiglieria, dagli sciami di missili… E’ stato calcolato che un anno  di quella guerra tanto feroce quanto assurda abbia comportato, in termini ambientali, l’emissione di oltre 120 milioni di tonnellate di gas serra. L’equivalente cioè di circa un quarto del totale delle emissioni dovute a tutto il traffico automobilistico europeo (500 milioni di tonnellate). Come a dire che, in un ipotetico bilancio ambientale, se si riuscisse a fermare quella carneficina (anziché tentare di prolungarla con ogni mezzo), si potrebbe ottenere fin da subito, qui ed ora, un risultato pari a circa il 25% di quanto il green deal si propone di realizzare – al prezzo dei tanti sacrifici e con l’ipoteca di un probabile fallimento – in 16 anni. E simmetricamente per ogni anno in più di cui si prolunga la guerra, si annulla una gran parte dei possibili risultati del Green Deal e si vanifica il grosso dei sacrifici imposti alla popolazione europea per realizzarlo. Tutto questo, bisogna aggiungere, senza tener conto dell’enorme prezzo in termini di vite umane perdute, centinaia di migliaia, su entrambe i lati del fronte, generazioni di giovani sacrificate da classi politiche senza scrupoli. Ma esso non rientra nella soglia di attenzione di chi siede a Bruxelles, come a Washington o a Mosca.

 

 

Greenwashing – Un vizio sistemico

Vorrei essere chiaro. Non si tratta, qui, solo dei limiti personali del ristretto gruppo di notabili che stanno al vertice dell’Unione Europea. Della loro offensiva doppiezza. Della loro inspiegabile cecità. Dell’incomprensibile atteggiamento suicida con cui hanno portato il Vecchio continente, da un ruolo importante di potenza culturale e di istanza mediatrice in ultima istanza, all’irrilevanza politica e alla pulsione autodistruttiva. Si tratta di una logica sistemica ben più ampia e diffusa quantomeno nell’intero Occidente, consistente nell’uso retorico di quella che oggi è la più alta e drammatica sfida alla nostra esistenza, la questione ambientale, per coprire e giustificare pratiche sordide di segno ed effetto esattamente opposto. L’ultimo grido nelle tecniche di marketing. Finito il tempo in cui i grandi nemici dell’umanità, i saccheggiatori delle risorse del pianeta, praticavano il negazionismo esplicito, minimizzando o occultando i danni prodotti alla Terra, ora che l’evidenza non può essere negata si enfatizza la dimensione del rischio, lo si sbatte in prima pagina, per continuare, come i vecchi Gattopardi, a fare come prima, peggio di prima, presentando i propri vizi come rinnovate virtù.

La tecnica ha anche un nome. Si chiama Greenwashing ovvero lavare il proprio sporco nel verde (chiamato anche green liesgreen sheen o green marketing). Ne sono esempi classici il caso della Chevron (il primo, risalente agli anni ’80) la quale lanciò una martellante campagna televisiva denominata “People Do” per comunicare le proprie buone pratiche di sostenibilità nel momento stesso in cui sversava petrolio in aree protette generando vere e proprie catastrofi ambientali. O quello della Coca Cola la quale utilizzò per la propria pubblicità il claim World without waste proprio quando veniva nominata per la terza volta da Greenpeace “impresa più inquinante a livello globale per quanto riguarda la produzione di plastica”, e fu per questo portata in giudizio da Earth Island Institute. Stessa sorte toccata alla nostra ENI, sanzionata per  aver presentato falsamente il proprio Diesel+ come “ecologico, verde, sostenibile”. E naturalmente applicabile ai politici. A tutti i politici. Compresi i Verdi. Anzi soprattutto i Verdi, a cominciare da quelli che possono essere considerati la matrice originaria di quel movimento, i Grünen tedeschi.

 

La mutazione cromatica dei Grünen

La crescita impetuosa delle pulsioni belliciste all’interno del loro vecchio involucro ambientalista, è forse il fatto più sconvolgente nella politica tedesca (e non solo) negli ultimi due anni e mezzo. La mutazione genetica dell’intero gruppo dirigente Grüne dall’ eco-pacifismo delle origini, quando il neonato movimento coniugava la difesa intransigente dell’ambiente contro lo sviluppo incontrollato con quella altrettanto netta della vita contro la minaccia della guerra, era stata iconicamente (e ironicamente) rappresentata, già nell’aprile del 2022, dal principale Magazine tedesco, “Der Spiegel”, col titolo di copertina Die Olivgrüne – grigioverde diremmo noi, il colore delle divise militari – campeggiante sotto l’immagine dei tre leader ex-pacifisti, Baerbock, Habeck, Hofreiter, in tenuta da combattimento con elmetto, giubbotto antiproiettile e tuta mimetica. A loro – indicati come quelli che hanno spinto il Cancelliere Scholz a rompere un ulteriore tabù tedesco fornendo armi pesanti all’Ucraina – era dedicata la TITELSTORY, incentrata sulla “sconcertante”, così la definivano, constatazione secondo cui “invece di fare la parte del pacifista all’interno del governo, invece di frenare, ritardare e impedire l’invio di pesanti attrezzature belliche all’Ucraina, i Verdi sono quelli che ne vogliono di più e quindi fanno pressione sui loro partner, soprattutto sulla SPD” di Olaf Scholz. E culminante con l’imbarazzante domanda: Was ist da passiert, bei den Grünen, mit den Grünen? “Cosa è successo nei Verdi, con i Verdi?”

Per la verità la prima rottura con l’identità dell’origine, ancora segnata da riflessi sessantotteschi, risale indietro nel tempo, alla seconda metà degli anni ’90. Quando Joshka Fisher, primo ministro degli esteri Verde, diede via libera all’uso dei Tornado tedeschi per bombardare Belgrado. La cosa gli costò un sacchetto di vernice rossa in faccia, scagliato da un militante durante la tumultuosa conferenza di partito di Bielefeld, e l’oltraggiosa equazione Grüne=Kriegstreiber (Verdi=Guerrafondai). Il New York Times titolò “Mezzo secolo dopo Hitler, i jet tedeschi partecipano all’attacco”. Ma era accaduto da poco il massacro di Srebreniza, le pressioni del Presidente americano Clinton su di lui e sul cancelliere Schröder erano state asfissianti. E la cosa passò come un caso limite, una sorta di “stato d’eccezione”.

E’ però soprattutto col 2022 – con la brutale rottura della situazione di precario stallo sul confine orientale europeo prodotta dall’invasione russa dell’Ucraina – che la mutazione cromatica dei Grünen si rivela nella sua dimensione sistemica e (apparentemente) irreversibile. E’ allora che la ministra degli esteri verde Annalena Baerbock rompe gli indugi rispetto alla precedente ritrosia (ancora a metà gennaio aveva detto al Bundestag “c’è solo una soluzione, ed è la diplomazia”, e a fine mese aveva aggiunto ”Se si parla non si spara”). E con un salto mortale improvviso, prende la guida del fronte politico pro-guerra, spiazzando il più prudente Cancelliere Scholz e schierandosi apertamente per la consegna di armi pesanti alla “resistenza ucraina”. E da allora giocherà a essere sempre un passo avanti rispetto a tutti gli altri sulla linea di armamento dell’Ucraina. E’ lei che il 21 aprile di quell’anno, nei giorni in cui Bild accusava Scholz di tergiversare nell’invio dei Leopard a Kiev, dichiara bellicosa che “There are no taboos for us with regard to armoured vehicles and other weaponry that Ukraine needs“. E’ ancora lei a proclamare, sulle pagine del “Guardian”, che per troppo tempo la Germania si è affidata alla “diplomazia del  libretto degli assegni” (“for too long Germany had resorted to ‘chequebook diplomacy’”) e che è ora di passare alla politica delle armi. Aggiungendo compiaciuta che “solo due anni fa, l’idea che la Germania consegnasse carri armati, sistemi di difesa aerea e obici in una zona di guerra sarebbe sembrata quantomeno inverosimile. Oggi la Germania è uno dei principali fornitori di armi per l’autodifesa dell’Ucraina”.

Naturalmente il suo non è un caso isolato. Buona parte dell’attuale gruppo dirigente del suo partito è, con diverse sfumature, sulla stessa linea. A cominciare dal potente Ministro delle Finanze e vice-cancelliere Robert Habeck, che quasi un anno prima della conversione della sua collega Baerbock, dal Donbass allora ancora segnato da una guerra civile a (relativamente) “bassa intensità”, aveva dichiarato che “non si possono negare armi all’Ucraina”. Fino ad arrivare ad Anton Hofreiter, “botanico, capelli lunghissimi e aria fricchettona” (così lo definiscono su Repubblica), che da presidente della Commissione Europa del Bundestag continua a “infastidire” il Cancelliere per incrementare l’invio di panzer tedeschi in Ucraina. Passando per una figura eccentrica e brillante come la trentasettenne Agnieszka Brugger, un piercing sul viso, capelli tinti rosso fuoco, appartenente all’ala sinistra del partito, vice capogruppo, un’appassionata adesione all’idea di una “politica estera femminista”, che tuttavia non nasconde la sua recente passione per le armi, la tecnologia militare e gli elicotteri navali, in forza della quale guida il processo di rappacificazione tra Verdi ed esercito.

Chi sceglie Baerbock, sceglie la guerra

Tra realismo rassegnato e politica delle emozioni

Probabilmente un passaggio interessante per capire questa trasformazione politica, culturale, e in fondo antropologica, è costituito dal Congresso tenuto a Berlino nello scorso novembre quando – come scrisse sul Manifesto Marco Bascetta – i Grünen decisero di riunirsi con “il motto più stupido che si potesse immaginare: ‘La nostra ideologia si chiama realtà’”. Un’accettazione – malamente mascherata da uno slogan criptico e tendenzialmente ossimorico – dello stato di cose esistente, che tendeva a giustificare, senza approfondirli, i tanti compromessi imposti negli anni più recenti dalla permanenza nel governo “semaforo”: le ripetute deroghe a favore dei combustibili fossili e del nucleare indotte dalla crisi energetica; l’indegna (per le solidarietà lacerate  e le aspettative tradite) contrapposizione – cito ancora Bascetta – all’ “imponente movimento ecologista che si batteva per impedire l’allargamento (ritenuto peraltro da diversi esperti inutile per il fabbisogno energetico del paese) della già immensa miniera di lignite di Lützerath”; “l’allineamento alle ipotesi di inasprimento del diritto di asilo e di trasferimento in paesi terzi dei migranti in attesa di esame”… Verrebbe da dire che quanto più si esaurivano le possibilità di rimanete fedeli al proprio programma fondamentale “eco-rivoluzionario” e alla prima ragione del proprio esistere – per i sempre più stretti vincoli di governo -, tanto più cresceva l’enfasi bellicista trasformata in programma ideale capace di riscattare una crisi esistenziale tendenzialmente terminale. Il che ci introduce, credo, a un nuovo, più profondo livello di riflessione sulle ragioni della metamorfosi verde (e non solo), meno legato alla contingenza istituzionale, e più affondato nelle radici stesse di quel movimento (e nelle radici di tanti movimenti affini della seconda metà del secolo scorso).

Il furor sacro che agita le menti di buona parte degli esponenti di un movimento fattosi Partito e poi Partito di governo, ha a che fare – secondo alcuni interpreti non sprovveduti, soprattutto tedeschi – con l’imprinting moralistico, o moraleggiante che ne ha caratterizzato l’approccio con la politica e l’azione collettiva fin dalla nascita. Una “politica dei valori” – così la chiamano -, o forse meglio una “politica delle emozioni”, contrapposta alla “politica degli interessi”. Una visione degli eventi, e dei propri compiti, in cui il valore assoluto dei principii cancella ogni altra argomentazione di opportunità e di rischio. In cui la potenza morale dell’atto istantaneo assorbe le valutazioni di contesto e di processo. Soprattutto in cui l’ostentazione dei valori rischia di essere “solo una facciata per una politica di potere aggressiva e conflittuale, guidata da un senso di superiorità morale”. Di qui nascerebbe quell’”etica delle armi” che rimuove dal campo dell’argomentazione ogni valutazione sulle conseguenze di quell’impiego distruttivo, ogni considerazione di ordine geopolitico, ogni rilevanza degli interessi propri e altrui. Fiat justitia, pereat mundus. Così come finiscono per scomparire le ragioni storiche, le cause disseminate lungo processi non lineari, in cui la verità non è così lampante come viene raccontata. Il tutto nella convinzione di essere, senza se e senza ma, senza un dubbio o un ripensamento, dalla parte del Bene, perché così è, nell’Origine. Qual è il prezzo che l’Europa paga per questa guerra così infinitamente prolungata, in termini di accesso alle materie prime, di collaborazione economica lacerata, di costo dell’energia, di caduta di domanda, di qualità della vita? Qual è il prezzo della Germania, la più colpita da questa lacerazione di un processo d’integrazione ventennale? Perché mai dovrebbe abbozzare alla distruzione di una delle sue arterie vitali, quel North Stream distrutto da un attentato ucraino e forse anglo-americano senza che quel governo possa levare nemmeno un gemito di protesta? Fino a quando, ci chiedevamo, l’opinione pubblica tedesca avrebbe potuto subire in silenzio tutto questo?

La risposta è venuta dalla recenti elezioni. L’occasione in cui la “politica delle emozioni” si schianta sulla “politica degli interessi” del popolo sovrano. E dalle urne è uscito il mostro che a lungo era stato tenuto in gestazione. In Turingia, dove AfD ha preso il 32,8% (10 punti in più della CDU) e BSW di Sarah Wagenknecht il 15,8%, i Grünen sono andati sotto la soglia di esclusione con il 3,2%. In Sassonia sono entrati per un pelo, col 5,2%, contro il 30,6% di Afd e l’ 11,8 di BSW. E’ un segnale potente. Se durerà ancora molto questa guerra, con la crisi che si trascina con sé e il crepuscolo dell’Europa che l’accompagna, la prossima volta sarà peggio. Molto peggio. Sotto le ali da Angelus Novus di Ursula resterebbe non l’Europa risanata e “pulita” che promette  ma un panorama di rovine.

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