sabato 18 maggio 2024

2022, 1973: L’EUROPA IN BALIA DELLA RAZIONALIZZAZIONE IMPERIALE - Pietro Pinter

Tutti gli imperi – finché rimangono in vita – attraversano fasi di espansione, contrazione e razionalizzazione.

Non è infatti interamente vero l’assioma – sviluppato durante lo ius publicum europeum – che la ragion di stato porti ogni nazione, o ogni potere sovrano, a cercare di espandersi inesorabilmente, frenato solo dal corrispondente desiderio di espansione di altri centri di potere. Quantomeno nella sua interpretazione più stretta.

Talvolta un impero può scegliere di non espandersi nonostante abbia la possibilità di farlo, o addirittura di retrocedere dalle sue posizioni, per mettere al sicuro e consolidare quanto ha già ottenuto in passato.

Quando l’Imperatore Adriano costruì il suo famoso “vallo” nel secondo secolo d. C., stava facendo esattamente questo: Stava razionalizzando il suo impero. Lo stesso fece l’Impero Britannico vittoriano nel diciannovesimo secolo quando, usando le parole dello storico Guido Formigoni: “Barattò il controllo informale di tutto il mondo per il controllo formale di 1/3 di esso“, abbandonando progressivamente il sistema delle compagnie commerciali e la promozione integralista del libero commercio in favore di una sovranità esclusiva (delle altre potenze) su un vasto impero coloniale.

Le amministrazioni americane Nixon e Ford – guidate in politica estera dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale e poi Segretario di Stato Henry Kissinger – si trovarono, tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, a gestire il processo di razionalizzazione dell’impero americano post seconda guerra mondiale.

Le amministrazioni Trump e Biden sono invece chiamate a gestire la razionalizzazione dell’impero successiva alla vittoria della guerra fredda nel 1991.

In queste due fasi storiche sono individuabili diversi, e importanti, parallelismi (al netto delle ovvie differenze).

In entrambe il nodo principale della razionalizzazione è il rapporto tra Washington e i suoi protettorati europei, fulcro dell’influenza globale statunitense.

In entrambe osserviamo la ritirata statunitense da un quadrante problematico che drena risorse: Il Vietnam, l’Afghanistan.

In entrambe uno shock economico precede uno shock bellico/politico: La decisione di Nixon del 1971 sulla convertibilità in oro, la crisi economica del covid 19.

In entrambe il rapporto con l’Europa viene pesantemente ridefinito e chiarito con una guerra culminante in una crisi energetica: Il conflitto arabo-israeliano tra il 1967 e il 1973, il conflitto russo-ucraino tra il 2014 e il 2022.

Appare quindi molto importante, per capire quanto avviene e avverrà in Europa al giorno d’oggi, studiare il periodo storico del detente USA-URSS, della guerra del Kippur e della crisi energetica europea.

MUTAMENTO NEI RAPPORTI DI FORZA

Nella seconda metà degli anni ’60 diventa chiaro come i rapporti di forza tra i due blocchi delineatisi nella decade precedente, siano ormai drammaticamente mutati. Gli USA sono chiamati ad adattare le loro politiche e dottrine alla nuova realtà strategica, partendo da quella più importante: La dottrina nucleare.

Con uno sforzo immane, l’Unione Sovietica sta gradualmente raggiungendo la parità – che arriverà ufficialmente nel 1971 – con gli Stati Uniti per quanto riguarda le testate nucleari strategiche. La dottrina americana della “massive retalation” nucleare in caso di attacco convenzionale sovietico in Europa (o in altri quadranti eventualmente posti sotto l’ombrello nucleare americano) basata sulla superiorità e sulla possibilità di poter vincere una guerra nucleare, non è più attuabile.

Questo permette all’Unione Sovietica di estrarre un’importante concessione agli Stati Uniti, frenando una corsa agli armamenti a lungo andare economicamente insostenibile: Il congelamento dello status quo nucleare. Il Trattato di Non Proliferazione (1968) e lo Strategic Arms Limitation Talks Agreement (1972) fissano due principi: Nessun’altra potenza può acquisire armi nucleari, e le due superpotenze rifiutano di ottenere la superiorità nucleare sull’altra.

Questi mutamenti strategici, naturalmente, non vengono ignorati dall’Europa.

LA STRATEGIA EUROPEA

Le decisioni sopracitate – prese senza consultare i satelliti europei – presentano diversi problemi e motivi di ansia per i membri europei della NATO e i 9 della nascente Comunità Europea.
La Mutually Assured Destruction in caso di guerra nucleare tra le due superpotenze rende meno credibile il deterrente nucleare americano in Europa. Non potendo più vincere una guerra in Europa con mezzi esclusivamente nucleari, Washington quanto sarà disposta a rischiare e a spendere in una guerra convenzionale per proteggere l’Europa Occidentale da un possibile attacco sovietico? Inoltre, il detente tra URSS e USA – un’affare squisitamente bilaterale – infonde sospetti negli europei, storicamente avvezzi ad accordi di spartizione del mondo, dal Trattato di Tordesillas del 1494 per la spartizione del “nuovo mondo” tra Portogallo e Spagna, all’entente anglo-russo del 1907 successivo al “grande gioco” centroasiatico e quello anglo-francese del 1904 a suggellare la spartizione dell’Africa: Si teme (correttamente, in effetti) l’instaurazione di un condominio soviet-americano sull’Europa, la cristallizzazione di due sfere d’influenza all’interno delle quali ricadrà un’Europa inerme e in balia di due poli.

La strategia comunitaria (dei paesi della Comunità Europea) in risposta alla sfida del detente è comprensibile, ma fallace: I 9 vogliono affermare un’identità europea distinta da quella americana, vogliono portare avanti un detente differenziato con l’Unione Sovietica, perseguire una politica economica, diplomatica ed energetica indipendente… ma continuando a godere dell’ombrello di sicurezza americano!

Questa strategia si basa su un vecchio assioma gollista; che sostiene che gli USA offrano protezione militare all’Europa Occidentale per il solo motivo di non poter permettere che cada sotto l’influenza sovietica, e che questa protezione quindi continuerebbe a prescindere da quanto la politica della Comunità Europea possa divergere da quella di Washington. Nelle sue memorie, il sopracitato Henry Kissinger affermerà che – per quanto questo calcolo sia razionale e veritiero dal punto di vista strategico – non tenga conto delle passioni umane e dei fattori politici destinati ad influenzare le decisioni. La sua analisi è essenzialmente corretta: La sola minaccia da parte di Nixon di abbandonare militarmente l’Europa porterà immediatamente ad un fuggi fuggi generale, ed al crollo del castello di carte della strategia comunitaria, dimostrando incontrovertibilmente (lezione totalmente ignorata dai paesi comunitari) come il potere morbido (economico, diplomatico, politico, culturale) non possa muoversi oltre certi limiti, senza un potere duro (militare, strategico) a supporto.

Ironicamente, in un desiderio speculare a quello europeo di avere la botte piena e la moglie ubriaca ,gli Stati Uniti chiedono alla Comunità di riarmarsi per sobbarcarsi una maggiore responsabilità nella difesa del confine orientale… allo stesso tempo pretendendo una Comunità in linea con tutte le iniziative di politica estera americane, anche nelle tematiche fuori area dell’Alleanza Atlantica. Per fortuna di Washington, questo riarmo non avverrà mai.

La Comunità non costruirà il suo potere duroe ne pagherà le dure conseguenze.

LA STRATEGIA STATUNITENSE

Visto dal punto di vista americano, invece, il detente impone ed è guidato da diverse necessità.

In primis – non poter più contare sulla sicurezza del proprio deterrente nucleare – implica un nuovo focus sul bilanciamento di forze convenzionali, e diventa quindi ancora più impellente la fine di una guerra d’attrito tanto costosa per la macchina bellica americana, quanto demoralizzante per il fronte interno USA: La Guerra del Vietnam.

Il pericolo della mutually assured destruction rende inoltre più che mai necessaria la riduzione dei possibili scenari di confronto armato tra le due superpotenze, e quindi una stretta delimitazione delle aree di influenza in Europa. Questo impegno non si limita al tracciare una linea sulla cartina, ma richiede anche il rafforzamento della presa sulla propria area di influenza (in parallelo lo stesso processo avviene per l’Unione Sovietica, che agisce secondo la “Dottrina Brezhnev”) che non può in nessun modo mostrare ambiguità o tendenze “secessioniste”, magari accentuate da momenti di debolezza del centro imperiale, come quello vissuto durante il Watergate, che investe lentamente ma inesorabilmente l’amministrazione Nixon (e la credibilità di Washington) all’inizio degli anni ’70.

LO SHOCK ECONOMICO DEL 1971


Il primo vettore lungo il quale Washington rafforza il suo controllo sulla Comunità Europea è quello economico.

Per capire le problematiche americane su questo frangente ci viene nuovamente in aiuto il secondo volume delle memorie di Henry Kissinger, Years of Upheaval:

L’impatto della ritrovata assertività della Comunità Europea veniva portato quotidianamente all’attenzione dell’Ufficio Ovale da parte dei nostri dipartimenti economici.
C’era la lamentela sul fatto che le nazioni europee mantenessero accordi commerciali preferenziali con le loro ex colonie, restringendo il nostro accesso a quei mercati. C’era una crescente rete di legami speciali tra la Comunità Europea e le altre nazioni dell’Europa e del Litorale Mediterraneo. C’era la perenne controversia sulla Politica Agricola Comune della Comunità Europea.

La necessità immediata è quella di impedire che la Comunità sorpassi economicamente gli Stati Uniti, cosa che stava minacciando di fare: Il boom ecoomico europeo degli anni ’60 e l’apertura doganale degli USA nei “Dillon” e “Kennedy” Rounds, portano Washington ad essere per la prima volta in deficit commerciale nel 1971.

Per fare ciò, è necessaria un'”azione di forza” (sic).

Il 15 agosto 1971, Richard Nixon annuncia drammaticamente davanti alla stampa la fine della convertibilità in oro del dollaro, l’imposizione di nuove tariffe doganali e un pacchetto di aiuti di stato all’economia statunitense.

Senza nessuna consultazione con gli “alleati” – che hanno in pancia decine di miliardi di dollari – il Presidente americano mette fine al regime dei cambi fissi di Bretton Woods ed apre le porte alla svalutazione del dollaro, infliggendo un duro colpo all’economia europea e – insieme alle nuove barriere doganali – riportando in attivo la bilancia commerciale statunitense fino al 1976.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE

Il secondo vettore, invece, è prettamente militare.
A partire dalla fine degli anni ’60, una serie di azioni concrete, avvertimenti e azioni “parziali” contribuirà notevolmente al processo di delimitazione del perimetro della politica interna europeo-occidentale.

In Italia la prima “bomba non rivendicata” esplode nel 1969 in Piazza Fontana, a Milano.
Le indagini giudiziarie non chiariscono mai completamente la vicenda, ma le sentenze in Cassazione (1987 e 2005) stabiliscono almeno due punti fermi: La condanna per depistaggio di due agenti dei servizi segreti (accusati, tra le altre cose, di aver favorito la fuga in Francia di un altro agente del SID collegato con “Avanguardia Nazionale“) e la responsabilità dell’organizzazione neofascista “Ordine Nuovo“.

“Ordine Nuovo” il cui fondatore – Pino Rauti – partecipa nel 1965 al “Convegno del Parco dei Principi”, una riunione atta ad elaborare una strategia di controguerriglia golpista in Italia, a cui partecipano – oltre ad alcuni esponenti di “Avanguardia Nazionale” – Ivan Lombardo, asset dell’IRD britannico, Renato Mieli, fondatore di ANSA ed ex Colonnello dello Psychological Warfare Branch dell’AMGOT, Pio Filippani Ronconi, ex tenente delle SS.

Su Piazza Fontana affermerà Aldo Moro nel suo memoriale: “È mia convinzione però, anche se non posso portare il suffragio di alcuna prova, che l’interesse e l’intervento fossero più esteri che nazionali. Il che naturalmente non vuol dire che anche italiani non possano essere implicati“. Tornerà poi Bettino Craxi nel 1993, dopo la Strage di Via Fauro ad opera della “Falange Armata”, sostenendo: “Oltre a una giustizia a orologeria politica, in Italia esistono bombe a orologeria politica. Basta ritornare indietro nel tempo. Negli ultimi trent’anni sono esplose bombe di cui non s’è mai saputo né chi le ha messe né chi erano i mandanti… bombe alle quali sono state date cinquanta spiegazioni diverse, e cioè nessuna

Ma se questa vicenda è poco chiara, ben più chiara è la vicenda del Golpe Borghese, il progetto golpista del 1970 che – tramite la mediazione di un ufficiale dei servizi segreti militari e dell’Obersturmbahnfuhrer delle SS Otto Skorzeny – aveva ottenuto l’assenso statunitense a patto che il suo successo militare e politico fosse realistico (condizioni che i golpisti non riuscirono a raggiungere). Il golpe – pur sventato – servì a mostrare alla classe politica italiana ed europea l’esistenza di una possibilità concreta di eliminazione fisica.

Per approfondire:

La stessa funzione ebbe indirettamente il golpe cileno, culminato con l’uccisione del Presidente Allende nel 1973 e l’instaurazione di una giunta militare: Già nel 1970 – appena insediatosi il nuovo Presidente – la Commissione 40 (un gruppo di lavoro speciale, guidato da Kissinger e partecipato da tutte le parti interessate, tra cui CIA e Dipartimento di Stato) contatta i militari cileni per esprimere il suo interesse verso un golpe, nell’ambito di quello che viene chiamato “Processo Track II” (Il “Track I” prevedeva invece la corruzione dei parlamentari cileni e il finanziamento occulto di media e organizzazioni di opposizione) . Il primo tentativo nel 1970 fallirà, ma l’aggravarsi della polarizzazione politica in Cile creerà le condizioni per il successo nel 1973, quando i militari cileni si muoveranno senza informare nuovamente gli americani, consci (correttamente) di averne già ricevuto l’appoggio.
Il messaggio cileno giunge forte e chiaro in Europa: Enrico Berlinguer – Segretario del Partito Comunista Italiano – dichiarerà di lì a poco, sul Corriere della Sera, di “sentirsi più sicuro” sotto l’ombrello dell’Alleanza Atlantica, in un drammatico dietrofront rispetto alla linea di politica estera comunista successiva alla seconda guerra mondiale.

E’ un messaggio che Kissinger stesso ammette che fosse necessario mandare, nel suo “Anni della Casa Bianca”: “Il successo di Allende avrebbe avuto implicazioni per il futuro dei partiti comunisti dell’Europa Occidentale, le cui politiche avrebbero minato l’Alleanza Atlantica quali che fossero le loro credenziali di rispettabilità. Nessun Presidente responsabile avrebbe potuto guardare all’ascesa al potere di Allende restando fermo“. Un messaggio che fu mandato con successo.

L’ANNO DELL’EUROPA

La terza direttrice su cui gli americani si muovono per rimodulare il rapporto tra Washington e l’Europa è sicuramente più benevola e conciliatoria nei suoi intenti.

L’idea di Nixon e Kissinger è di sfruttare l’occasione del ritiro dal Vietnam per migliorare le relazioni con i paesi comunitari, da diversi anni alienati ed infastiditi da una guerra le cui priorità strategiche non condividevano e rispetto alla quale le popolazioni europee erano fortemente critiche. Il 1973 sarebbe dovuto essere l'”Anno dell’Europa”, un anno in cui si sarebbe firmata una nuova dichiarazione atlantica, imbevuta delle nuove realtà strategiche e di un nuovo, rinnovato, impegno per la difesa comune e la comune consultazione nelle problematiche out of area (il problema di svolgere le discussioni a livello NATO o Comunità Europea è solo procedurale, in quanto le due organizzazioni si sovrappongono nei loro membri più importanti). L’obiettivo è quindi quello di “istituzionalizzare” nuovamente il legame atlantico e stabilire su base consensuale: “Quanta unità ci serve? Quanta diversità possiamo tollerare?

A lanciare l’iniziativa è Henry Kissinger, in veste di consigliere per la sicurezza nazionale, alla riunione degli editori dell’Associated Press, il 23 aprile 1973, al Waldorf Astoria di New York.

La risposta da parte degli europei però è piuttosto fredda, come avevano anticipato le consultazioni di Kissinger con vari leader europei prima di tenere il discorso.

La politica europea del 1973 è decisamente fuori fase con quella statunitense, ed è lungi dall’essere inebriata da una rinnovata passione per le relazioni atlantiche. Quella che Kissinger si trova davanti, invero, è forse l’Europa Occidentale più ostile verso gli Stati Uniti che ci sia mai stata dal secondo dopoguerra ad oggi.

La Comunità Europea sta prendendo forma, e per prendere forma sente il bisogno di costruire un’identità separata da Washington, senza voler dare l’immagine che la nascita dell’Europa unita sia un mero sottoprodotto del legame atlantico.

Ma i problemi principali sono con i governi dei tre principali interlocutori di Washington: Regno Unito, Francia e Germania Ovest, tanto da creare quasi una tempesta perfetta.

A Londra siede forse l’unico Primo Ministro britannico – oltre John Major – ad aver mai creduto nell’unità europea: Il conservatore Edward Heath. Il veto della Francia all’entrata britannica nella Comunità è caduto da poco, ma il (fondato) sospetto che – a causa della sua special relationship con Washington – Londra entri nella Comunità per essere un cavallo di troia americano, è ancora lungi dall’essersi dissipato. Il Regno Unito non può quindi guidare l’anno dell’Europa – o mostrarsi troppo entusiasta a riguardo – anche per ragioni di immagine.

A Berlino il cancelliere Willy Brandt – forse il più atlantista tra i capi di governo continentali – è visto con sospetto dagli altri europei a causa della sua Ostpolitik nei confronti del blocco orientalee non è nella posizione di esercitare l’influenza che servirebbe per creare un consenso europeo.

A Washington non resta che puntare sulla Francia del gollista Pompidou: Parigi resta l’unica capitale con il potere sia di costruire, che eventualmente di distruggere, l’anno dell’Europa.

Quello che seguirà per mesi sarà una metaforica partita a Go – l’antico gioco da tavolo giapponese – tra Henry Kissinger e il ministro degli esteri francese – l’antiamericano Jobert – che lentamente frustrerà e priverà di ogni significato e vitalità l’iniziativa americana, attraverso una serie di tattiche negoziali e aperte critiche, impedendo che prendesse forma qualsivoglia dichiarazione.

L’anno dell’Europa vedrà un epilogo – caduco e ormai privo di senso – solo nel 1974, dopo la traumatica esperienza della Guerra dello Yom Kippur.

LA GUERRA DEL KIPPUR

Tutti i nodi del rapporto tra USA e Comunità Europea vengono al pettine con la Guerra del Kippur – nel 1973 – in concomitanza con l’anno dell’Europa.

E’ una guerra molto particolare perché – 50 anni dopo, con una lettura storica – appare quasi come un’azione coreografata, con un risultato finale già scritto e solo dei dettagli contingenti da decidere sul campo di battaglia e al tavolo delle conferenze.
In questa performance, il direttore d’orchestra è senza dubbio il Presidente egiziano Anwar Al Sadat – da poco subentrato a Nasser – con il Segretario di Stato americano Henry Kissinger, pur all’oscuro delle intenzioni egiziane, in (quasi) totale controllo della situazione. Israeliani, siriani, giordani, sovietici ed europei rimangono in balia delle onde e della regia egizio-americana per tutta la durata della guerra.

La guerra si apre con un attacco coordinato da parte di Egitto e Siria alle prime luci dell’alba del 6 ottobre 1973, in un giorno di festa per la comunità ebraica. Questo attacco prende di sorpresa veramente tutti; sia gli israeliani, che le due superpotenze che si sfidano per procura nello scacchiere mediorientale. Diventa però subito chiaro che sono gli americani ad avere in mano il pallino, e che sarà Washington a condurre le trattative e a dettare i tempi della crisi, per trarne vantaggio sia in Medio Oriente che in Europa. E che è stato Sadat a manovrare per mettere gli USA in questa posizione.

Nell’aprile 1972, si apre un canale di comunicazioni segreto tra Anwar Al Sadat ed Henry Kissinger (ancora Consigliere e non Segretario di Stato) tramite un giornalista del Cairo legato all’intelligence egiziana ed americana. Lo scopo di questo canale – tra due paesi che non hanno relazioni diplomatiche ufficiali – è quello di trovare un’uscita dallo stallo diplomatico successivo alla guerra del 1967, che vede i paesi arabi (con supporto sovietico ed europeo) chiedere la ritirata di Israele dai territori recentemente occupati, e Israele rifiutare categoricamente (con supporto americano). Sadat si rende conto che Mosca – nonostante un appoggio vocale, diplomatico e anche tecnico/militare – non abbia realmente intenzione di supportare gli arabi, con ogni mezzo necessario, in una “guerra di liberazione” contro Israele, minacciando una vitale alleanza americana e rischiando di arrivare ad uno scontro tra superpotenze (peraltro, in epoca di detente).
Sadat si rende conto però, di poter ottenere ciò che vuole da Washington, che – svolgendo un ruolo di protezione irrinunciabile per Israele – sarà disposta a mettere pressione su Tel Aviv per una sistemazione, se otterrà in cambio una drastica riduzione dell’influenza sovietica in medioriente e l’entrata de facto dell’Egitto nella sua sfera d’influenza, inclusa la non belligeranza nel vitale Canale di Suez.

L’espulsione di quindicimila “istruttori” sovietici dall’Egitto, e lo scambio epistolare che seguirà tra Sadat e Kissinger, danno forma a qualcosa di simile ai patti Mussolini-Laval che portarono all’invasione italiana dell’Etiopia: Non si parlerà mai di guerra ad Israele, ma diventa estremamente chiaro a Sadat che gli americani siano disposti a mutare radicalmente le loro posizioni riguardo il confine israeliano. A questo punto possono iniziare i preparativi di guerra, lontano dagli occhi degli (ex) ospiti sovietici.

I combattimenti veri e propri dureranno meno di un mese, e si svolgeranno all’interno di uno stretto “recinto” non dichiarato: Un’eccessiva avanzata araba è resa impossibile dal deterrente nucleare israeliano (di cui Kissinger non fa menzione, ma che – completato nel 1967 – è messo in stato di allerta per paura di uno sfondamento siriano nel Golan) e dalle lente forniture sovietiche, regolate da Mosca in modo da non causare uno scontro tra superpotenze; mentre un eccessivo contrattacco israeliano è reso impossibile da un vero e proprio veto americano (reso invalicabile dalla totale dipendenza di Tel Aviv sulle forniture belliche USA), nonché dalla “deterrenza strategica” imposta dallo squilibrio demografico tra paesi arabi ed Israele, che rende un’occupazione militare protratta (di territori abitati, a differenza del Sinai) da parte di quest’ultima praticamente impossibile.

E’ estremamente significativo notare che le linee di armistizio – a fine ottobre – vedano una (seppur piccola) cessione di territorio amministrato da parte di Israele su ambo i fronti, nonostante una controffensiva in Siria arrivata a 30km da Damasco, e un’intera armata egiziana circondata aldilà del Canale di Suez. Questo è indice della pressione americana, l’unica in grado di estorcere concessioni così dolorose ad Israele.
La strategia egiziana paga: Con una tacita cooperazione americana, l’Egitto riesce a lavare via l’umiliazione del 1967 oltrepassando con le sue forze militari il Canale di Suez e infliggendo un duro colpo alle forze armate israeliane, precedentemente ritenute invincibili. Questo permette a Sadat di sedersi al tavolo delle trattative, ottenendo ciò che l’Egitto desiderava da anni – il Sinai, perso 6 anni prima – offrendo in cambio ciò che Israele desiderava dalla sua nascita, ciò che una nazione sconfitta non avrebbe potuto offrire: La pace e il reciproco riconoscimento.

Washington ne esce con un’influenza in Vicino Oriente drasticamente aumentata. Persino in Siria – il più oltranzista e filosovietico dei paesi arabi – che durante le trattative per l’armistizio ignora in maniera umiliante il ministro degli esteri sovietico Gromyko, per permettere a Kissinger di svolgere indisturbato la sua shuttle diplomacy tra Israele e Damasco, e disegnare quello che è ancora oggi il confine siriano.

La “razionalizzazione” nel Vicino Oriente è poi prodromica a quella in Europa: Nel 1975 vengono fissati ad Helsinki i confini dei due blocchi, ora ufficialmente immutabili.

LA LENTA RESA EUROPEA

Tornando alla nostra Europa però, a travolgere il continente e a influire pesantemente sul rapporto euro-americano in fase di trasformazione – più delle linee armistiziali tra Israele, Egitto e Siria – è l’enorme divergenza tra le priorità delle capitali europee – legate ai paesi arabi produttori di petrolio e con opinioni pubbliche in larga parte filopalestinesi – e quelle degli USA, forti di un’ingente produzione domestica, impegnati nel confronto bipolare in medioriente, con opinione pubblica filoisraeliana e invero desiderosi di ridurre l’indipendenza politico-strategico-energetica dell’Europa, anche prolungando artificialmente il dolore.

Il famoso embargo e taglio di produzione dell’OPEC inizia il 17 ottobre ma – contrariamente a ciò che afferma Kissinger – la politica europea adotta una linea filoaraba dalle prime ore del conflitto (non come reazione supplicante alla decisione araba) in continuità con quella tenuta dal 1967.

Allo scoppio delle ostilità, le capitali europee (compresa l’ancora franchista Madrid) notificano – in forma riservata o pubblica – a Washington l’impossibilità di usare le basi americane e NATO sul loro territorio per funzioni in qualsiasi modo collegate alla guerra nel Vicino Oriente, una problematica out of area – esterna ai territori degli stati membri dell’Alleanza Atlantica e all’Atlantico del Nord – in cui il sostegno americano ad Israele (gli europei non sono a conoscenza della collusione americana con Sadat) è opposto alla politica estera di quasi tutti i membri europei dell’Alleanza. Un ordine che gli USA ignoreranno, arrivando addirittura a mettere in allerta le proprie forze non solo convenzionali, ma anche nucleari, di stanza in Europa – in risposta all’offerta sovietica all’Egitto di invio di un contingente di “peacekeeper“, per liberare la terza armata, circondata da Israele successivamente ad un primo cessate il fuoco – mettendo di fatto l’Europa nella condizione di subire un olocausto nucleare per una guerra nell’ambito della quale non esisteva alcun dovere di solidarietà o azione comune.

Francia, Italia, Spagna, Danimarca, Belgio e in seguito Germania arriveranno anche a chiudere il proprio spazio aereo ai voli militari americani e i propri porti alle spedizioni relative alla guerra arabo-israeliana, una prescrizione anch’essa parzialmente ignorata.

La politica comunitaria non riesce a modificare la condotta americana, ma riesce – forte anche di una parallela scelta giapponese – ad ottenere esenzioni da alcuni tagli di produzione dell’OPEC e dall’embargo totale, che invece viene imposto a USA e Olanda (unico stato europeo-occidentale, insieme al Portogallo di Salazar, a seguire la linea americana). Anche grazie al “dialogo euro-arabo”, intavolato a sorpresa da Jobert durante un summit della Comunità.

L’Europa evita la devastazione totale e la deindustrializzazione, ma viene duramente colpita da un taglio di produzione/embargo che durerà diversi altri mesi (con nessuna fretta da parte americana affinché venisse tolto) e da una crisi energetica che diventerà di fatto permanente e strisciante, indebolendo il continente in maniera strutturale.

Come avevamo scritto sopra, il legame atlantico viene messo in tensione da due poli che vogliono tutti i vantaggi dell’alleanza senza sobbarcarsene alcun costo: Americani che vogliono un’Europa forte ma servizievole, europei che vogliono un’Europa demilitarizzata ma indipendente. Questo scontro non può che finire (nella cornice di un ultimatum di Nixon, un discorso del 18 marzo in cui minaccia di ritirare le truppe statunitensi dall’Europa) con un compromesso tra le due concezioni, nella fattispecie si ritorna ad una versione leggermente modificata dell’Europa demilitarizzata e servizievole degli anni ’40 e ’50, impossibilitata a seguire una politica estera veramente indipendente a causa della sua scelta di appoggiarsi agli USA per la difesa dei confini esterni, sintomo di un continente umiliato dalle due guerre mondiali, ancora incapace di pensare in termini di potenza (con forse l’eccezione della Francia) mentre il resto del mondo non ha mai cessato di farlo.

Sia chiaro: Non c’è mai un momento in cui gli europei “cedono” alla linea americana per imposizione di Washington; al contrario iniziano immediatamente dopo la guerra a sviluppare legami energetici con l’Unione Sovietica. La strategia europea viene semplicemente sconfitta sul campo, sconfitta da una realtà in cui l’Europa occidentale è una mera unione doganale, un ricco “giardino” (per usare le parole di Borrell) – o una ricca “casa di riposo”, per usare quelle di Zbigniew Brzezinski – incapace di plasmare a suo favore gli eventi sullo scacchiere geopolitico, neanche in una regione così vicina – dove riteneva fino a pochi anni prima un’influenza predominante – come quella del conflitto arabo-israeliano, a causa della sua impotenza militare.
Un giardino destinato a cadere lentamente in decadenza, in balia di volta in volta delle intemperie esterne o dei desideri del guardiano, che ha in mano le chiavi.

2022: LA STORIA SI RIPETE

Questa tendenza europea sembra riproporsi di nuovo in occasione della seconda “razionalizzazione” dell’impero americano, resa necessaria dalla crisi del 2008, dall’ascesa di Cina e altre grandi/medie potenze e dalle lunghe guerre di logoramento combattute dagli USA dall’inizio degli anni ‘2000. Razionalizzazione che culmina con la lunga guerra in Ucraina e con la storia che si ripete, questa volta come farsa.

Con un’Unione Europea che si comporta da protettorato nonostante una minaccia militare convenzionale ai suoi confini – rispetto agli anni ’70 – quantitativamente risibile, nonostante i Trattati prevedano un patto di mutua difesa (più stringente di quello Atlantico) le cui forze combinate sono perfettamente adeguate a confrontarsi con la Russia ad armi pari, senza necessità di tutele esterne (e lo sarebbero ancor di più con un minimo riarmo, ironicamente osteggiato proprio dalle sinistre europee e dalle figure televisive più critiche verso l’operato angloamericano in Europa). Che rinuncia finanche alle limitate leve usate negli anni ’70 per affermare il suo interesse ad evitare la deindustrializzazione. Che permette il bombardamento delle sue infrastrutture strategiche senza colpo ferire.

Lacerata da un conflitto interno tra “intermarium” (con sostegno anglofrancese e americano) e asse Roma-BerlinoBudapest – che la retorica prova invano a nascondere dietro l’immagine di un’Europa unita nella linea decisa dal blocco favorito dai rapporti di forza del momento e dalla maggiore vitalità (e indipendenza da centrali straniere) della sua leadership – nonostante un’unità dal punto di vista burocratico e formale nettamente maggiore di quella fornita dalla Comunità Europea nel 1973.

La ciliegina sulla torta: La “Vecchia Europa” non potrà – come ha fatto negli anni ’70 – “diversificare” le sue forniture energetiche sviluppando convenienti legami con una superpotenza nucleare, tramite pipeline che attraversano confini sicuri e recentemente stabilizzati come la cortina di ferro congelata dagli Accordi di Helsinki.

Le nuove forniture energetiche a cui in particolare l’Italia si affida – piagata al suo interno, come la Germania, dall’opposizione al nucleare, su cui paesi come Polonia e Francia invece giustamente puntano – arrivano dal rimland in ebollizione del mondo multipolare, dove l’Europa – se anche avesse una volontà unitaria – non avrebbe alcuna potenza reale da proiettare per influenzare gli eventi: Dall’Algeria dove influenti testate come l’Economist “prevedono” un cambio di regime, dall’Azerbaijan che combatte la sua piccola “Guerra del Kippur”, dalla Libia e l’Egitto dove l’instabilità locale si fonde con la guerra per procura tra paesi europei, dall'”equivoco” Qatar situato sulla linea di faglia della guerra fredda mediorientale.

L’unica fornitura stabile e sicura rimane, oltre a quella norvegese, via Polonia, quella – proibitivamente costosa e letale per la competitività industriale – proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico.
Situazione che non cambierà con la corsa alle rinnovabili: La non-volontà di estrarre almeno le terre rare presenti nel sottosuolo europeo, unita ancora una volta ad una debole proiezione militare e ad un’assenza di direzione unitaria, porterà l’approvvigionamento delle terre rare a sottostare alle stesse dinamiche di quello di gas e petrolio.

da qui

venerdì 17 maggio 2024

Provvedimento d’espulsione per Seif Bensouibat, educatore e rifugiato politico

 

Riceviamo dall’avvocato Flavio Rossi Albertini l’oggetto di una interrogazione scritta inviata giovedì 16 maggio 2024 al Ministro della Giustizia e al Ministro dell’Interno:

“Premesso che:

l’interrogante ha appreso che il cittadino algerino Seif Bensouibat, rifugiato politico in Italia dal 6 dicembre 2013, educatore apprezzato da numerosi anni del liceo francese Chateaubriand, laico, incensurato e privo di carichi pendenti, in data odierna, 16 maggio 2024 a seguito dell’ingresso nella sua abitazione di numerosi agenti di polizia ha ricevuto la notifica di un provvedimento di revoca dello status di rifugiato e la sua espulsione dal territorio nazionale perché ritenuto persona pericolosa per la sicurezza dello stato italiano con conseguente trattenimento in un CPR;
quanto accaduto deve ricondursi all’episodio già segnalato con interrogazione del mese di gennaio u.s. dallo stesso interrogante, che ha condotto all’apertura di un procedimento disciplinare nei confronti dell’uomo;

in particolare, a seguito della visione quotidiana dei filmati provenienti dalla striscia di Gaza, scioccato per il numero di civili inermi uccisi dalle bombe israeliane e dalle tragiche immagini dei bambini mutilati, Bensouibat ha scritto alcuni post rabbiosi, carichi di risentimento per la potenza coloniale israeliana e noi confronti dei suoi alleati paesi occidentali. Detti post sono stati pubblicati su una chat chiusa alla quale partecipavano amici e colleghi dello stesso, mai su facebook e/o su siti aperti;
in conseguenza di tali esternazioni giunte a conoscenza dell’Istituto francese e prontamente da questo comunicate alla Digos, l’uomo è stato dapprima sottoposto a perquisizione domiciliare alla ricerca di armi ed esplosivi, e successivamente, a distanza di pochi giorni, convocato in Questura e informato dell’avvio a suo carico di una indagine penale e del procedimento di revoca dello status di rifugiato con relativa convocazione innanzi alla Commissione Territoriale per l’1 febbraio u.s.;
dopo oltre due mesi in totale libertà, nel corso dei quali ha proseguito a svolgere le sue ordinarie mansioni, tranne quella lavorativa – essendo stato nel frattempo licenziato dal Liceo francese in esito al citato procedimento disciplinare – come anticipato, nella giornata odierna in seguito alla notifica del provvedimento di revoca è stato condotto da una squadra di agenti verso un CPR non meglio identificato;
il provvedimento motiva la pericolosità dell’uomo connettendo il contenuto dei post al terrorismo religioso di matrice Jihadista, e in particolare con il fenomeno dei c.d. lupi solitari, evidentemente ritenendo che i moti di sdegno, anche scomposti, urlati e rabbiosi per quanto avviene in terra palestinese possano essere ricondotti all’Isis e alla propaganda religiosa.

Tutto ciò premesso,

Si chiede di sapere dai ministri interrogati ciascuno per quanto di propria competenza:
in quale CPR Seif Bensouibat sia stato condotto;

se non ritengano il provvedimento del tutto abnorme rispetto ai fatti contestati;

se non ritengano il provvedimento citato emanato in violazione del diritto fondamentale alla libertà di manifestazione del pensiero dell’uomo”

Ad integrazione di ciò, per completezza riportiamo che in seguito si è appreso che, oggi verso le ore 13,  la polizia è entrata in casa di Seif Bensouibat. Lo hanno prelevato, portato all’ufficio immigrazione di via Patini e da qui trasferito nel CPR (Centro Permanenza e Rimpatrio) di Ponte Galeria,  la notizia è stata comunicata nella serata di ieri al suo avvocato che per tutto il giorno ha cercato di mettersi in contatto con lui. Si preparano ad espellerlo.

Luigi Manconi, ex presidente della Commissione parlamentare per la tutela dei diritti umani, sull’accaduto ha commentato: «È una decisione inaudita. Seif ha vissuto oltre dieci anni in Italia, rispettando sempre le leggi e integrandosi nel nostro sistema di relazioni sociali – ha dichiarato Manconi -. Adesso viene espulso dall’Italia per aver inneggiato ad Hamas. Il suo è configurabile al più come un reato di opinione, che ricorre ad affermazioni per me totalmente inaccettabili ma che sono una manifestazione, sia pure estrema, della libertà di espressione, costituzionalmente garantita».

L’avvocato Rossi Albertini ha chiesto formalmente la revoca del provvedimento della commissione territoriale, affinché a Seif venga restituito il diritto di restare in Italia e anzitutto di poter tornare a casa, a Roma.

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Movimento “Lottiamo Insieme”: l’inerzia delle Istituzioni dinanzi allo strapotere di Poste Italiane (e delle grandi aziende)

 

Quando la legge non è uguale per tutti… perché denaro, potere e amicizie rendono taluni più uguali degli altri!

 

Al Capo dello Stato, Presidente Sergio Mattarella,

Precarietà vuol dire vivere in uno stato di costante incertezza economico sociale che abbraccia e cambia ogni aspetto dell’esistenza quotidiana, generando emozioni negative quali rabbia, angoscia, disperazione. Appare evidente come tale disagio possa compromettere la possibilità di progettare un futuro. Ma significa anche maggiori profitti per le imprese, perché un lavoratore precario è un lavoratore fragile e ricattabile, propenso a rinunciare all’esercizio dei propri diritti nel timore di non essere riconfermato alla scadenza del contratto.

Il principale datore di lavoro in Italia, Poste Italiane, dichiara di promuovere uno «sviluppo sostenibile orientato al benessere dei dipendenti», però ogni anno assume migliaia di giovani precari usa e getta da destinare alle attività di smistamento e consegna della posta. Sono i cosiddetti CTD, coloro che vengono assunti con contratti a tempo determinato, costretti solitamente a spostarsi di centinaia di chilometri da dove risiedono e a farsi carico di spese di locazione non indifferenti, anche solo per brevi periodi. L’occasione di entrare a far parte della grande azienda, prospettata attraverso un’incessante campagna di propaganda, presto si riduce a fugace, e per di più illusoria, esperienza lavorativa. Può durare, infatti, sino a un massimo di dodici mesi.

Successivamente, la possibilità di conquistare l’ambito posto fisso ruota intorno a una procedura di stabilizzazione che si avvale di graduatoria. Formulata in base al numero di giorni di servizio prestati e aggiornata escludendo l’applicazione del diritto di precedenza. Così da favorire l’instaurarsi di logiche clientelari! Circa diecimila persone sono attualmente presenti in questa sorta di limbo senza speranza. La maggior parte si è vista scavalcare da colleghi che hanno avuto la “fortuna” di raggiungere il fatidico traguardo dei 365 giorni di durata contrattuale.

Poste Italiane ha assunto ben 90 mila lavoratori a tempo determinato dal 2017 a oggi. Provvedendo a stabilizzare a malapena 12.500 risorse nel medesimo periodo. Molte delle quali attraverso forme occupazionali flessibili, che si traducono in salari bassi e situazioni di vita difficili. Basti pensare all’ampio ricorso al part time, soprattutto tra le lavoratrici femminili: non è una libera scelta, bensì il risultato di condizioni di lavoro sfavorevoli risultanti da un metodo di sviluppo orientato alla massimizzazione del profitto. Sono tantissimi, ma restano invisibili i precari delle Poste in quanto è necessario maturare almeno sei mesi di servizio per inseguire il sogno del posto fisso e, dunque, accedere alla graduatoria.

Come avrete intuito, nel gioco dell’oca della precarietà griffato Poste il traguardo è precluso a molti. La probabilità di ottenere il doppio sei che garantirebbe l’integrazione a tempo indeterminato varia per ciascuna persona. A differenza delle dure condizioni di lavoro simili ovunque. Orari estenuanti, scarsa sicurezza, straordinari non pagati, sono gli elementi ricorrenti nelle storie raccontate dai giovani precari di Poste Italiane. Si trovano, in sostanza, costretti a lavorare sotto il ricatto della mancata riconferma qualora non completassero le consegne previste. Per tale motivo, nella prassi accettano di prestare più ore di lavoro rispetto a quanto stabilito senza ricevere alcun compenso aggiuntivo. Cioè, a titolo gratuito e in nero!

Il risultato è quello di accendere una guerra tra poveri in cui va avanti chi più sopporta e resiste. Poste Italiane non gioca a dadi con i precari. Nel ricorrere al lavoro temporaneo persegue il conseguimento di un ingiusto vantaggio. Pur rispettando la proporzione tra lavoratori stabili e a termine relativa all’intero organico, quest’ultimi sono concentrati sulle figure di addetti allo smistamento e portalettere. In modo da disporre di una quota enorme di flessibilità nella gestione del servizio postale. L’azienda dovrebbe assumere stabilmente laddove necessario. Invece, continua ad approfittare di una normativa a maglie larghe sui contratti a termine, utilizzabili entro l’anno senza dover chiarire quali siano le ragioni che ne legittimano la sottoscrizione.

Negli ultimi tempi le lavoratrici e i lavoratori precari di Poste Italiane hanno dato vita a un vero e proprio movimento di protesta, «Lottiamo Insieme», per dare voce e speranza all’esasperazione di una moltitudine di donne e uomini, soprattutto giovani, prigionieri nel limbo dell’incertezza. Il «metodo Poste» alimenta precariato e produce sfruttamento, in maniera non dissimile da quanto accade nei sistemi di caporalato. È fondamentale, quindi, intraprendere un deciso cambio di rotta che può avvenire in un’unica direzione: promuovendo l’occupazione stabile e dignitosa, preferibilmente attingendo alle risorse selezionate, formate e utilizzate già in precedenza. Ciò in senso conforme allo spirito della nostra Costituzione.

Nel complice silenzio “sindacale”, Lottiamo Insieme invita pubblicamente le Istituzioni e Poste Italiane a fare scelte consapevoli e rispondenti all’esigenza di garantire piena ed effettiva tutela dei diritti dei lavoratori. Augurandosi che la situazione appena descritta possa costituire un’occasione per riaffermare la centralità della dignità del lavoro, a beneficio di tutti i cittadini. Il caso, tenuto accuratamente lontano dai riflettori, di recente è approdato in Parlamento. Con discrezione e senza clamore. In fin dei conti, questa volta è lo Stato a violare le sue stesse leggi!

Roma, 4 aprile 2024

Carmine Pascale

Andrea Fasano

Movimento Lottiamo Insieme

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giovedì 16 maggio 2024

Una luce di speranza - Raúl Zibechi

 

Brecha (settimanale uruguayano per il quale hanno scritto, tra gli altri, Eduardo Galeano e Mario Benedetti, ndr) ha girato gli accampamenti nelle università della Pennsylvania e di Los Angeles, mentre migliaia di studenti in tutti gli Stati Uniti manifestavano contro l’aggressione di Israele a Gaza, chiedendo di porre fine agli affari redditizi tra le istituzioni educative e il regime di apartheid di quel paese. In pieno anno elettorale, la protesta preoccupa il governo e le élite statunitensi.

Il 17 aprile gli studenti della prestigiosa Università Columbia di New York hanno iniziato a piantare tende nel campus in solidarietà con Gaza. La polizia ha provato a sgomberare ma hanno resistito. La repressione ha indignato studenti e insegnanti e ha attirato un gran numero di persone all’accampamento. Una settimana dopo, quando centinaia di studenti si sono riuniti in uno spazio centrale dell’accogliente campus dell’Università della Pennsylvania, a Philadelphia, c’erano già più di sessanta accampamenti in tanti altri edifici accademici.

Quest’esplosione di attivismo ha mostrato l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza. A Philadelphia i più attivi sono stati i giovani bianchi, spesso circondati da afroamericani; tanti anche i migranti latini che mostravano whipalas e bandiere messicane, un gruppo di mussulmani pregavano inginocchiati indossando abiti tradizionali, c’erano moltissime giovani donne e persone queer e trans. Alcuni professori si sono avvicinati con cartelli scritti a mano, manifestando il loro appoggio agli studenti, continuamente minacciati di rappresaglia. Un piccolo gruppo di ragazze ebree si è unito, con il prezioso e audace appoggio degli ebrei antisionisti alla ribellione causata da una guerra che sentono profondamente ingiusta, che non li rappresenta ed è una macchia indelebile nella storia dell’ebraismo. I canti risuonavano forti, cantati da una moltitudine che faceva eco ai “Viva la Palestina”. Né a Philadelphia né in nessun altro campus ha sentito il minimo insulto alla condizione di ebreo o di israeliano, nonostante ciò che dicono i media.

Qui c’è una parte della generazione di Occupy”, dice a Brecha un docente di origine peruviana di nome George, riferendosi al movimento Occupy Wall Street. Aggiunge che queste sono le mobilitazioni studentesche più grandi dalla guerra del Vietnam, un famoso commento che ormai è diventato di buon senso. Un piccolo gruppo chiede come furono smantellate le enormi proteste di Occupy Wall Street nel 2011, quando ci furono grandi manifestazioni in 52 città contro l’1 per cento più ricco della popolazione. “La repressione fu molto forte, con moltissimi arresti”, concludono in molti, ma una voce aggiunge che ci furono anche molte dispute interne tra le varie correnti della sinistra radicale, nella quale anarchici e marxisti inaspriscono le mobilitazioni fino a consumarle.

La pietra nello stagno

La Columbia ha fatto il primo passo, solido, potente, con un gran numero di studenti manifestanti, ma la reazione a catena è stata impressionante. In due settimane sono sorti più di 100 accampamenti e giorni dopo la cifra si è andata moltiplicando, arrivando a contagiare anche l’Europa. Le occupazioni in California sono in parte diverse da quelle della costa orientale. La più numerosa e simbolica, quella del campus dell’Università di California, Los Angeles (UCLA), ha mostrato un ampio nucleo militante molto ben organizzato, capace di garantire cibo e assistenza sanitaria a centinaia di accampati, ma con alcune caratteristiche simili a quelle dell’accampamento della Columbia.

L’ingresso dei visitatori solidali era a carico di un gruppo di sicurezza con volti coperti e criteri stabiliti per evitare contrattempi, perché piccoli gruppi sionisti spesso provocavano e aggredivano i campeggiatori, con l’atteggiamento passivo e complice della polizia. Quando è stato annunciato lo sgombero della fortezza in cui si era trasformato il campo della UCLA, barricato da tutte e quattro i lati, i manifestanti hanno deciso di dividersi secondo tre colori: con il rosso chi non aveva problemi ad essere arrestato, con il verde o giallo chi non voleva. Nella lunga notte dello sgombero la polizia ha arrestato 200 giovani, circondati da mille mani solidali che gli portavano da mangiare, che manifestavano fuori dai commissariati contattando media o avvocati difensori. Una meraviglia di organizzazione in cui risaltano vastissime reti di solidarietà quasi spontanee, sorte dal senso comune dell’autodifesa non violenta.

È stato sorprendente arrivare fino all’Occidental College, un’università relativamente piccola in una zona benestante della città, sopra una collina. Più di cento tende in un ambiente rilassato, senza problemi con le autorità accademiche né con la polizia, che non si è mai presentata. L’unica guardia di sicurezza indicava ai visitatori dove si trovava l’accampamento. Invece la California State University, in un lontano quartiere di lavoratori e migranti, mostrava uno stile simile a quello delle grandi occupazioni, anche se con meno partecipanti.

Nei fatti ogni accampamento è un mondo a parte secondo il settore sociale a cui appartengono gli studenti, anche se è evidente che hanno molto in comune, nella forma come negli obiettivi. Uno di questi è il “disinvestimento”, disinvestire in tutte le aziende che fanno affari con Israele e con i fabbricanti di armi, obiettivo che alcune università sono vicine a conseguire e che è stato una delle richieste centrali oltre il cessate il fuoco.

Come evidenzia l’analisi del portale anarchico CrimethInc, “le università dipendono dai finanziamenti e dalle relazioni di ricerca con militari, produttori di armi e sionisti”. In accordo con il Dipartimento di Educazione statunitense, negli ultimi vent’anni un centinaio di università hanno reso note donazioni da Israele o contratti con il paese per il valore di 375 milioni di dollari, una cifra che un’analisi di Associated Press considera molto sottostimata rispetto al valore reale ancora da calcolare. La quantità di denaro investito dalle università degli Stati Uniti in aziende e progetti israeliani dell’industria bellica e di sicurezza è al momento sconosciuta. Gli studenti dell’Università del Michigan affermano che la loro istituzione invia più di 6.000 milioni di dollari a manager di investimento legati a imprese o contraenti israeliani. Secondo CrimethInc, che segue da vicino il movimento delle occupazioni, “la richiesta essenziale di vedere i palestinesi come esseri umani è incompatibile con i programmi del governo e delle università statunitensi”, perché questo paese “ha bisogno di Israele come socio strategico per mantenere la sua presenza in Medio Oriente”.

Mentre sgomberavano la UCLA, in altri atenei si preparavano per gettarsi nella mischia, come a Binghamton e Santa Cruz, quasi agli estremi di questa inafferrabile geografia. Inizia a nascere un sentimento comune ai giovani di rifiuto del massacro indiscriminato di bambini e bambine, che si esprime appena ve n’è possibilità, e le possibilità non sono poche nell’edificio lacerato del potere statunitense. In alcuni quartieri di New York ci sono più bandiere palestinesi che nelle città dell’America Latina. Nel New Jersey per esempio, anche nelle periferie come Paterson, città antesignana dell’industrializzazione, oggi abitata da peruviani, asiatici e arabi. Le kefiah fanno parte ormai dello scenario urbano su treni, metropolitane e strade della Grande Mela.

Lo specchio del Vietnam

Le proteste contro la guerra in Vietnam, in cui gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo decisivo impiegando mezzo milione di soldati, sono iniziate nel 1963 e l’anno seguente centinaia di giovani iniziarono a bruciare in pubblico le cartoline di precetto per rifiuto al reclutamento. Con gli anni gli studenti sono diventati il centro della protesta, a cui si sono unite madri di soldati, afroamericani che protestavano contro la segregazione razziale, fino ai principali ambiti della società, tra i quali spiccano i militari veterani.

Ci furono enormi azioni di massa, come quella del 21 Ottobre 1967, quando 100 mila persone si riunirono davanti al monumento a Lincoln a Washington e più tardi almeno altre 50 mila circondavano il Pentagono. Nell’aprile del 1971 mezzo milione di persone marciò a Washington contro il coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam. L’escalation di mobilitazioni giovanili cambiò il paese, che si polarizzò tra chi appoggiava e chi rifiutava la guerra. Il movimento ebbe una durata notevole e una decadenza lunga e turbolenta. Nel 1966 si era già esteso all’intero paese e a febbraio di quell’anno 100 militari tentarono di entrare nella Casa Bianca per restituire al presidente le loro medaglie. L’opposizione alla guerra continuò a raccogliere seguaci, a tal punto che la maggioranza assoluta degli statunitensi esprimeva il suo rifiuto nei sondaggi. Nonostante la repressione e l’infiltrazione di agenzie statali come l’FBI e la CIA, le manifestazioni non smisero di crescere e di espandersi, giocando un ruolo a parte nel formarsi di una coscienza globale contro la guerra in Vietnam. Artisti come Joan Baez e Bob Dylan, atleti come Muhammad Ali e moltissime altre note personalità contribuirono a espandere la coscienza del fatto che il loro paese non avrebbe dovuto combattere nel sudest asiatico.

Negli anni della guerra migliaia di reclute disertarono (le stime oscillano tra 80 mila e 206 mila); si calcola che mezzo milione di soldati abbandonò l’esercito e altro mezzo milione si licenziò senza onori, per disobbedienza. Cifre allucinanti che portarono la Casa Bianca a sospendere il servizio militare obbligatorio nel 1973. L’appoggio alla guerra cadde dal 61 per cento nel 1965 al 28 per cento nel 1971, ma alcuni fatti mostrano l’entità dell’opposizione: “Nel 1969, durante la cerimonia di apertura del corso della prestigiosa Brown University, due terzi dei laureati diedero le spalle a Henry Kissinger quando si alzò per pronunciare il discorso”, ha scritto lo storico Howard Zinn.

È evidente che la memoria di questo enorme ciclo di proteste aleggia sull’attivismo giovanile che trabocca dalle università. Però non è giusto fare troppi parallelismi o rallegrarsi troppo. L’1 per cento della popolazione quest’anno si sta giocando troppo. La vicinanza delle elezioni di Novembre sta accelerando i tempi della repressione, come si vede in questi giorni in cui sono state arrestate più di duemila persone che manifestavano nelle università. Non possiamo sapere se la repressione e il bombardamento mediatico faranno retrocedere il movimento. Il percorso di queste settimane e già abbastanza trascendente, una luce di speranza per le persone coinvolte.

Per gli analisti più critici, come il citato CrimethInc, gli Stati Uniti vivono una situazione inedita per l’alleanza tra repubblicani e democratici in sostegno di Israele. “Questo crea una situazione che potrebbe essere unica tra tutte le proteste di massa della storia recente”, afferma il portale. Come esempio cita la ribellione davanti all’omicidio di George Floyd nel 2020, soffocato dal ginocchio di un agente bianco. I grandi media e i democratici hanno tollerato le proteste senza censurarle o reprimerle, perché “pensavano di poterne approfittare per costruire una base elettorale contro Trump durante l’anno elettorale”.

Ottobre nello specchietto retrovisore

La percentuale di votanti che approva la gestione del presidente Biden è la più bassa mai registrata, secondo Gallup. Con il 38,7% di sostegno resta sotto anche a Bush padre, che aveva il 41,8% e ha potuto governare per un solo mandato. Se si osserva la grafica, è troppo piatta, e secondo l’impresa di opinione pubblica la popolarità di Biden “non mostra segni di aumento” (Gallup News, 26-IV-24). La stessa impresa sostiene che l’opposizione a Biden continua a crescere e si situa già nel 58% dell’elettorato. Nel frattempo l’indice di fiducia economica è meno del 29% e solo il 23% crede che le cose vadano bene negli Stati Uniti. Secondo i sondaggi l’immigrazione è considerata il primo problema e a livello finanziario l’inflazione è la preoccupazione più lontana dell’elettorato. Il fatto più noto però è che solo il 27% approva il suo coinvolgimento nella crisi tra Gaza e Israele. Una parte sostanziale delle critiche vengono dal suo stesso partito. La settimana scorsa 88 membri del Partito Democratico al Congresso hanno firmato una lettera diretta al presidente in cui denunciano gli ostacoli imposti da Israele agli aiuti umanitari nella striscia di Gaza, affermando che ci sono sufficienti prove per dire che la legge statunitense è stata violata.

In più aleggia il fantasma delle primarie nel Michigan, lo scorso Febbraio, quando 100 mila votanti democratici, per la maggioranza di origini arabe, oltre a giovani e progressisti, hanno voltato le spalle a Biden per via del suo appoggio incondizionato a Israele. “Storicamente, i capi di governo che vogliono essere rieletti con indici di approvazione inferiori al 50% poco prima delle elezioni, hanno perso”, evidenzia Gallup. Il ruolo degli elettori indipendenti sarà decisivo alle presidenziali di Novembre, oltre a un 10% di democratici che non voterebbe Biden anche se questo significasse il ritorno di Trump.

Con il passare dei giorni iniziano ad apparire dati rivelatori sull’atteggiamento della polizia, come il caso dello sgombero alla UCLA. “La notte di martedì un gruppo di persone in maschera ha circondato l’accampamento, lanciando petardi e attaccando violentemente gli studenti. Studenti e giornalisti di diverse testate hanno raccontato che le forze di sicurezza assunte dell’ateneo si sono rinchiuse in edifici là vicino e che la polizia è stata a guardare per ore prima di intervenire” (The Guardian, 2-V-24). Addirittura il pro Israele e lealista New York Times ha dovuto riconoscere, dopo aver revisionato 100 video, che “dei contromanifestanti” sionisti con indosso maschere bianche hanno attaccato l’accampamento pro Palestina per cinque ore davanti alla passività delle forze dell’ordine. Ovviamente il quotidiano newyorchese non ha detto che i violenti erano sionisti, ha detto solo che erano contro i manifestanti. The Times of Israel, edito a Gerusalemme, titola: “Studenti ebrei dicono che la violenza pro Israele nel campo di protesta della UCLA ne ha indebolito la difesa” (2-V-24). “La federazione ebraica di Los Angeles si è fatta portavoce del messaggio in una rara dichiarazione in cui critica le azioni dei sionisti nel campus”, scrive il quotidiano, e aggiunge che ora il prestigio di chi difende Israele è caduto molto in basso. Fatti come quelli della UCLA pongono due questioni fondamentali: che neanche i media più rispettabili possono più nascondere le atrocità del potere, e che il discorso di Biden che accusa gli studenti di violenza è molto lontano dalla realtà.

[10 maggio 2024]

[Traduzione per Comune di Leonora Marzullo]

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Resistere alla distruzione - Gian Andrea Franchi

  

“È andato fino in fondo, ha esaurito le sue possibilità di resistere alla distruzione … si è pienamente realizzato”. Non possono che coinvolgere queste parole di Emil Cioran su Paul Celan, come lui rumeno, scritte dopo il suicidio di quest’ultimo a Parigi, il 20 aprile 1970.

 

Celan, ebreo rumeno, i cui genitori muoiono durante la deportazione nazista, dalla quale lui stesso si è fortunosamente salvato, ha scelto di scrivere in tedesco, invece che nella lingua natale. Questa scelta è un grande gesto di politica culturale – mettendo in forte risonanza cultura e politica – perché distingue la grandezza creativa di una lingua, di una cultura, da chi la stravolge irrigidendola nel più atroce razzismo. Celan ha resistito alla distruzione proprio esprimendosi nella lingua dei distruttori: ha restituito a quella lingua la sua grandezza, separandola dal suo uso razziale, affermandone, invece, l’umana universalità. Ha vinto gli assassini (anche) della lingua. E ha vinto per tutti.

Pensiamo alla densità dei versi di Celan in confronto alla lingua degli scritti o dei discorsi di Hitler, ai secchi ordini mortali urlati dalle SS nei lager… Celan scinde la lingua di Hölderlin e di Goethe dall’uso nazista con un gesto essenziale di salvezza, umana e politica: la lingua tedesca non è razzista – l’essere umano non è solo odio e violenza.

Colpisce questo paradosso tragico: il poeta esprime nella lingua dei persecutori una tragedia personale e storica, in quella perfetta fusione dei due aspetti che è la qualità essenziale del linguaggio poetico – tale proprio per la capacità di mostrare il nesso costitutivo tra l’”intimo” e lo “storico”. In questo modo esprime pienamente la dimensione tragica della condizione umana, ben colta nelle parole di Cioran, che la vita e l’opera del poeta mostrano con una peculiare intensità. Celan si è realizzato nell’esprimere una tragedia che, alla fine, lo ha ucciso, ma consegnandoci le parole adeguate per dirla è andato oltre: ha superato la sua personale tragedia e ha anche comunicato a tutti una speranza, concreta nella potenza dei suoi versi.

La possibile salvezza della condizione umana risiede nella potenza comunicativa, cioè nella effettiva manifestazione del carattere relazionale dell’umano, togliendolo dal suo stravolgimento predatorio diffuso nella violenza dominante.

Questa potenza comunicativa si è espressa finora nell’arte, nella letteratura ma anche in innumerevoli forme sociali creative.

Quest’ordine di riflessioni sembra tanto più significativo in un momento storico nel quale lo Stato d’Israele afferma con violenza genocida che nella storia c’è posto solamente per persecutori o perseguitati: “There is not alternative!”. Fare politica in basso, nella società, creando forme comunitarie, vuole affermare invece che “There is alternative”, che l’essere umano non è solo odio e violenza, a malapena celato sotto la maschera dell’economia.

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mercoledì 15 maggio 2024

Egemonie. La storia che si farà a scuola e il passato immaginario di Valditara - Alessandro Robecchi

Seduto sul bordo del fiume, aspetto che passi la famosa contro-egemonia culturale della destra che viene ogni giorno annunciata con grande dispiego di mezzi. Per ora è una faccenda di parolette in libertà, la Patria nominata con il famoso metodo “a cazzo” ad ogni piè sospinto, i “patrioti”, dolorosamente impossibilitati a chiamarsi “camerati” come piacerebbe a loro, la parola “Nazione” che sostituisce “Paese”. Ma insomma, tomo tomo, cacchio cacchio, ecco il nuovo Italiano che avanza, spinto dalle avanguardie culturali (mi scuso) della destra meloniana. Ha fatto (flebilmente) notizia, l’intenzione del ministro Valditara, titolare dell’Istruzione e persino del Merito (ehm…) di voler mettere mano alle linee guida per la scuola elementare e media, insomma, cambiare un po’ i programmi, ripristinare un po’ di orgoglio nazionale tra i ragazzini delle elementari perché così, contessa, dove andremo a finire. Si metterà in piedi un comitato di esperti, e a presiederlo sarà la professoressa  Loredana Perla, che ci sarebbe francamente sconosciuta (colpa nostra, per carità) se non come co-autrice di un libro scritto a quattro mani con Ernesto Galli della Loggia, Insegnare l’Italia. Dove si legge, tra le altre cose, che bisogna insegnare “l’identità italiana”, che sarebbe “Un tema visto negli ultimi decenni con profonda diffidenza, soprattutto per ragioni ideologiche”. Urca!

In attesa di un ritrovato nazionalismo didattico e magari, che so, di qualche lezione sul “suicidio Matteotti”, la gloria dell’Impero e “quando c’era Lui, caro lei”, si torna sempre lì, alla bizzarra lettura di un passato immaginario: un’Italia in cui la mefitica e staliniana sinistra ha manipolato storia e cultura per opprimere e sminuire l’identità della nostra bella patria e dei nostri bei patrioti.

E del resto, questa visione storica degli italiani fieri di esserlo e baciati dagli dei ma oppressi dal “comunismo” (eh? ndr), risuona qui e là in discorsi e dichiarazioni pubbliche, lanciate nell’etere o sui giornali con un cospicuo sprezzo del ridicolo. Tra le più divertenti, la recente uscita (in un’intervista) del ministro della cultura Sangiuliano per cui in Italia ci sarebbe stata, nel dopoguerra, una “dittatura comunista”. Roba da fare un salto sulla sedia, non tanto per la fesseria storica conclamata, ma per la dabbenaggine di una tale dittatura. Brutta cosa le dittature comuniste, capaci di tutto davvero: in Unione Sovietica di mandare Solgenitsin in Siberia, e in Italia di mandare Sangiuliano alla direzione del Tg2, quando si dice non azzeccarne una. Ma insomma, poi Sangiuliano ha tentato di metterci una pezza, ha scritto un pezzo sul Corriere per dire che sì, vabbé, non c’è stata veramente una dittatura comunista, però Togliatti… però il Komintern… però Stalin… Insomma, palla in tribuna e ritirata strategica. Tutto da ridere. 

Il problema è che per fare revisionismo storico e per creare una conto-egemonia, ci vorrebbe qualcosa di solido da contrapporre all’egemonia, e questo qualcosa la destra meloniana al potere non ce l’ha. Chi come me è affezionato al profilo twitter del ministro della cultura e segue i suoi consigli “un libro al giorno”, capisce che non basta consigliare l’opera omnia di Prezzolini o “Il libro nero del comunismo” per costruire una base culturale alternativa a quella – solidissima – della cultura antifascista italiana del Novecento. Ci provano lo stesso, certo, rapidi ed invisibili, come i sommergibili della canzone, ma come diceva De Gaulle “Vaste programme”. Auguri.

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