Il grande critico letterario Cesare Garboli diceva di Leopardi che è uno che ha ragione anche quando ha torto. L’aforisma, per quanto semplice, non è agevole da sciogliere e, come tutti gli aforismi ben riusciti, perderebbe il suo fascino se ci mettessimo a spiegarlo. È la stessa regola che vale per il Witz: quale motto di spirito resiste all’analisi senza perdere la sua caratteristica principale, che è quella che nasce da un corto circuito del senso? Negli anni mi sono resa conto che vengo attratta con forza soprattutto da quei pensatori che hanno ragione anche quando hanno torto. In questa categoria rientra a pieno titolo anche Pier Paolo Pasolini, di cui nei giorni scorsi giorni si è ricordato il cinquantenario del feroce assassinio che lo ha strappato alla vita. Sì, Pier Paolo aveva ragione anche quando aveva torto. I perbenisti di ogni colore politico che hanno reso la sua vita difficile si collocano all’estremo opposto: hanno torto anche quando hanno ragione.
Ho dovuto occuparmi di scuola per molti anni. All’inizio pensavo che una
scuola, pur difettiva e zoppicante, per i ragazzi fosse meglio che stare in
strada; ma a poco a poco, anno dopo anno, di fronte al conformismo dilagante,
di fronte alla tiepidezza con cui si trasmetteva il sapere (mi verrebbe da dire
il sub-sapere) a bambini e ragazzi che invece avrebbero avuto bisogno di adulti
ragionevoli e appassionati e piuttosto di una scuola scompigliata ma viva,
questa mia convinzione si incrinò. Iniziavano i terribili anni Novanta,
quelli dell’affermazione del pensiero neoliberista, introdotti dal crollo del
Muro di Berlino che trascinò, nelle sue macerie, anche ogni progetto comunista
e socialista, relegando nella pattumiera della Storia l’opera di un gran numero
di persone, primo tra tutti Marx, che avevano teorizzato una società
migliore e meno ingiusta di quella loro contemporanea. Fu all’inizio di quel
decennio che incontrai le Lettere luterane di Pier Paolo
Pasolini e fu un articolo, uscito sul Corriere della sera, che,
in particolare mi colpì.
Si tratta di un articolo famoso ma siccome ho perso il polso della
situazione e non so più se le cose che ritengo “famose” lo siano per me e per
pochi altri, oppure lo siano per tanti, corro il rischio della ripetitività e
ne presento il contenuto. L’articolo si intitola “Due modeste proposte per
eliminare la criminalità in Italia” e inizia affermando che i casi di
criminalità che “apocalitticamente” riempiono le pagine dei giornali non sono
“casi” ma “casi estremi” di un modo d’essere criminale “diffuso e profondo”. Pasolini
allude al delitto del Circeo. I colpevoli, identificati in due pariolini
fascisti hanno fatto tirare a tutti un sospiro di sollievo, dice. A sinistra,
perché sono fascisti; a destra poiché di questo delitto borghese ci si può
finalmente occupare. I delinquenti proletari e sottoproletari, si sa, sono
delinquenti a priori e non suscitano grande attenzione.
Pasolini ritiene che “i casi estremi di criminalità derivino da un ambiente
criminaloide di massa” e che, ormai, «l’universo popolare romano» sia «un
universo “odioso”». I giovani proletari e sottoproletari romani hanno perso i
valori del ceto di appartenenza e «appartengono ormai totalmente
all’universo piccolo borghese». La sua opinione (che Pasolini deriva
da una esperienza diretta e quotidiana) è che tra i modelli di comportamento e
l’atteggiamento verso il reale dei giovani dei Parioli e dei sottoproletari
delle borgate non ci sia più differenza. L’assimilazione al modello
piccolo-borghese dei giovani proletari e sottoproletari li ha trasformati in
“masse di criminaloidi”, in un mondo dove il consumismo «ha distrutto
cinicamente un mondo “reale”, trasformandolo in una totale irrealtà, dove non
c’è più scelta possibile tra bene e male» ma soltanto l’«impietrimento, la
mancanza di ogni pietà».
Ed eccoci alle due “modeste proposte” pasoliniane per abolire la
criminalità: 1) abolire immediatamente la scuola media d’obbligo;
2) abolire immediatamente la televisione. Pasolini si rendeva conto
già allora della mancanza di valore emancipatorio della scuola: a quella scuola
media che illude, soprattutto se chi la frequenta non è destinato a proseguire
gli studi, è preferibile «una buona scuola elementare». È una boutade, evidentemente,
perché subito dopo Pasolini afferma che meglio sarebbe arrivare alla
“quindicesima classe”, ma solo a condizioni diverse, a condizione cioè che la
scuola media non fosse più «iniziazione alla qualità di vita piccolo-borghese»
e non fosse più il luogo in cui si insegnano cose «inutili, stupide, false,
moralistiche». Per finire: «mi angoscia letteralmente che vi venga aggiunta una
“educazione sessuale” […] (la scuola media) è meglio abolirla in attesa di
tempi migliori; cioè di un altro sviluppo». Alla fine di un
ragionamento che può apparire paradossale (e lo è) Pasolini arriva al
dunque: questo modello di sviluppo non permette che ci sia una scuola
realmente non autoritaria e che miri a costruire una società di eguali. La
scuola media “progressista” illude i più deboli, fa loro sperare un avanzamento
sociale che poi non ci sarà; toglie alle classi subalterne la loro cultura
spontanea per sostituirla con un imparaticcio, con nozioni approssimative che
li renderanno dei frustrati.
È passato mezzo secolo da quando Pasolini scriveva l’articolo di cui sto
parlando: eppure soltanto adesso, di fronte all’oltranza costituita dalle
misure sulla scuola del Ministero dell’Istruzione e del Merito (una definizione
degna di un sequel di 1984) ci si rende conto di
quanto Pasolini avesse ragione, di come fosse stata fine la sua intuizione
proprio in un momento in cui i più erano convinti che si stesse passando dalla
scuola di classe alla scuola per tutti. In realtà il passaggio dalla scuola
per pochi alla scuola di massa non ha portato a cancellare la natura di classe
della scuola italiana; adesso, nell’era di Valditara, lo smascheramento è
impudico e totale. Perché la scuola cambi, diceva Pasolini, ci
vuole un altro sviluppo – e cioè un altro – e più equo –
modello economico e sociale.
Nel frattempo, al consumismo sfrenato che preoccupava Pasolini, si è
aggiunta la precarietà esistenziale che tocca tutti (non soltanto i giovani,
come ossessivamente ci viene ripetuto). Siamo di fronte al rovesciamento totale
del Rapporto Beveridge, che Churchill definì un programma di
protezione sociale “dalla culla alla tomba”. Precari da quando si nasce a
quando si muore, siamo diventati; immersi in un mondo confuso, privo di pietà e
di speranza, di cui Pasolini, con parole forti ma non così inadeguate, metteva
in luce il modo d’essere criminale “diffuso e profondo”. «Due
modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia» esce sul Corriere
della Sera il 18 ottobre 1975; pochi giorni dopo, il 2 novembre, il
corpo massacrato e sfigurato di Pier Paolo veniva trovato all’Idroscalo di
Ostia. Un delitto feroce e, per buona parte, ancora oscuro, un caso
estremo, frutto di quella società cinica, in cui reale e
irreale si confondono in cui non c’è posto per la pietà, che Pasolini aveva
saputo descrivere mettendone a fuoco il degrado antropologico.
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