Quello che sta succedendo a Gaza ormai da due anni, e che non pare affatto interrotto da un accordo di pace già declassato nei fatti a flebile tregua, in Ucraina da oltre tre, le pur scarsissime notizie che filtrano dalle altre decine di luoghi del pianeta, trasformati in zone di guerra spaventose, Sudan e Nigeria in testa con gli stermini di massa che li abitano, stanno incidendo progressivamente anche sul nostro modo di sentire e reagire, sul nostro psichismo, vulnerabile a ogni esperienza, vissuta anche solo da testimoni: le reazioni iniziali sono state di incredulo sgomento, di sbigottimento davanti alle cronache quotidiane di massacri, agli spazi dei media invasi da realtà che pensavamo appartenere a tempi spazzati via da una inarrestabile civilizzazione, marcata dalla ricerca dell’universalizzazione dei diritti. I meno giovani di noi, cresciuti immaginando e vagheggiando, sull’onda di canzoni divenute inni e miti, “un mondo senza ragioni per uccidere né per morire, un mondo senza confini né avidità, nessun paradiso da guadagnare né inferno da temere, nessuna religione ad imporre dogmi,” eravamo davvero persuasi che, se di sogno matto si trattava, era un sogno bello da sognare, e forte tanto da generare azione.
Il risveglio
da quello che si sta rivelando essere stato uno stato soporoso, di ottundimento
o di colpevole ingenuità, in cui il desiderio è stato scambiato per
realtà, è stato brutale. Innegabile che i decenni appena trascorsi fossero
stati carichi di indizi, lì pronti da cogliere se solo lo si fosse voluto:
parole quali giustizia, solidarietà, diritti andavano sempre più scansandosi
per fare largo a individualismo, indifferenza, competizione, che per le nuove
generazioni diventavano il brodo di coltura per una diversa idea di mondo.
Ma ancora
nulla a che fare con l’idea di guerra, ripudiata dalla
Costituzione, ma soprattutto rifiutata dai giovani totalmente insofferenti
anche a quel servizio militare preparatorio al suo svolgersi, obbligo insensato
che chi poteva rifuggiva poco nobilmente provando ad imboscarsi e molti altri,
più coscienziosamente, a preferirvi il servizio civile, che un senso
condivisibile ce lo aveva. Make love, not war era diventato il
mantra esibito gioiosamente non solo in oceaniche manifestazioni, ma anche su
onnipresenti spille e autoadesivi: infine tanto interiorizzato e normalizzato
da non necessitare nemmeno più di essere ribadito. Imparare a imbracciare un
fucile, magari strisciando su terreni dissestati, zaini zavorrati in spalla,
era ormai considerato un esercizio di machismo, da lasciare a chi ne aveva
bisogno per compensare scarsi livelli di autostima, ma capace solo di sottrarre
tempo alle bellezze della vita.
Sembrava
strada senza ritorno. Eccoci invece catapultati in
scenari prima appannaggio esclusivo di quei film di guerra, visti dalla
postazione rassicurante di una poltrona cinematografica o dal divano di casa:
tutto si risolveva in un paio d’ore di ansia adrenalinica, eccitante intervallo
tra più o meno confortanti tran tran da vita civile, magari un po’ noiosa, ma
di certo rassicurante.
I droni
Poi, quasi
senza preavviso, le cronache quotidiane hanno cominciato a parlare un
linguaggio esondante di massicci attacchi, linee del fronte, difese aeree,
offensive finali, piogge di missili, esplosioni, raid…, mentre
i droni, oggetti ancora sconosciuti a molti, entravano di prepotenza nel nostro
vocabolario, provocando prima sorpresa e ben presto progressiva abitudine.
Molto più
drammatico è stata convivere con le immagini, tanto più universali delle parole, perchÉ capaci di
scatenare un impatto emotivo dirompente anche quando ci sfilano davanti solo
per pochi secondi. I nostri occhi e di conseguenza la nostra mente sono andati
registrando il dilagare sugli schermi di uomini trasformati da mitra, bombe a
mano, kalashnikov: da esseri umani a macchine da guerra, spaventose e ferali. E
poi scenari di edifici rovinanti al suolo a trasformarsi in cumuli di
macerie; città in frantumi; fumo ad annerire il cielo.
Ancora
niente a confronto della straripante disperazione umana: bambini sporchi e
disperati a piedi nudi tra le macerie con fratellini più piccoli sulle spalle,
che al microfono di chi prova a farli raccontare, rispondono per esempio, con
un sorriso mite, che la cosa più brutta è quando di notte piove e i
materassi sono tutti bagnati: orrido atto d’accusa verso il mondo adulto. E
poi fiumane di gente spossata che si trascina verso chissà dove, bende su corpi
feriti, lenzuola ad avvolgere cadaveri di ogni dimensione.
E il dolore
misconosciuto di altri esseri, gli asini, fantasmi pelle e ossa obbligati a
trascinare pesi immensi e ci si chiede come possano farlo e speriamo manchi
poco perché stramazzino a terra verso l’unica liberazione a cui possano
aspirare, quella fornita dalla morte: senza il debole sostegno di cui almeno
gli umani possono godere abbracciandosi gli uni agli altri. Loro no: in totale
solitudine, lontano anche dal conforto di un’ultima carezza che consoli una
briciola del loro immeritato martirio.
Cancellare
tutto con un click
Noi,
testimoni involontari e lontani, abbiamo reagito ognuno a modo proprio,
nel tentativo di mitigare lo spettacolo spaventoso che l’umanità, a cui
apparteniamo, dà di sé: i più coraggiosi sono partiti per provare ad offrire
aiuto, tantissimi hanno manifestato, scritto, raccolto aiuti.
Anche altro
sta però succedendo: una sorta di stanchezza per la quotidiana
informazione sulle tragedie in atto, che hanno il grande pregio di poter essere
cancellate con un click del telecomando o sulla tastiera. E sparire
dai nostri pensieri. Così da una parte ci sono quelli che non si possono
sottrarre alla tragedia e noi, che ci indigniamo, ma ne possiamo annullare
anche solo la percezione perché troppo dolorosa. Non è certo la prima
volta che succede: basta pensare ai naufragi a poche miglia dalle nostre coste
e alla morte in mare di decine, a volte centinaia, di persone alla ricerca di
una vita vivibile. Anche in quel caso lo sgomento dei primi tempi,
alimentato anche da puntuali cronache e filmati, si è via via affievolito:
relegato a trafiletti sulle pagine interne dei giornali, a informazione di
pochi secondi dalle televisioni, ha finito per essere bypassato dalla nostra
attenzione e soprattutto dalla nostra compassione e solidarietà. Tutto
normalizzato nella sua ripetitività. È una realtà molto preoccupante
perché “a tutto ci si abitua” significa che basta un po’ di pazienza e poi
tutto quello che è insopportabile diventa accettabile.
Volendo
essere un po’ meno severi verso noi stessi e la nostra pericolosa adattabilità
al peggio, è giusto ricordare che non sempre si tratta di indifferenza e
cinismo: è invece vero che quella che appare come colpevole desensibilizzazione
è a volte figlia di compassion fatigue, di un esaurimento,
alimentato dall’esposizione prolungata alle sofferenze altrui, in cui ci si
identifica empaticamente, ma che si è impotenti a modificare. Se quella sofferenza viene
assorbita, può travolgere e sottrarvisi appare l’unico modo per rimanere
integri. E allora cambiare canale, leggere altro sull’web perché “non ce la
faccio più a guardare”, corrisponde a una strategia di salvezza, certo non
esente da sensi di colpa, di inconfessata vergogna, ma comunque salvifica.
L’eliminazione
degli alimenti proteici
Non sempre è
possibile: le notizie sono a volte talmente forti da bucare come una lama il
ghiaccio delle nostre corazze. Arrivano dai luoghi da cui le informazioni sono più
frequenti, a partire dal massacro di Gaza. Una di queste riguarda la
strategia di Israele per affamare la Striscia, di cui si parla da tempo:
prendere per fame è piano indegno, ma non nuovo, come la storia insegna: per
restare a tempi non lontani furono i tedeschi a far morire di fame oltre un
milione di civili russi tenendo sotto assedio Leningrado per oltre due anni nel
corso della seconda guerra mondiale. Ma nulla può competere in orrore con
l’Holodomor, devastante piano genocidario ordito da Stalin negli anni 1932/33,
quando vari milioni di ucraini furono letteralmente fatti morire di fame,
secondo gli storici per perseguire una collettivizzazione forzata e contestualmente
reprimere le aspirazioni nazionalistiche dell’Ucraina stessa. Ne dà una
descrizione agghiacciante Vasilij Grossman nel suo Tutto scorre scritto
tra il 1955 e il 1963, in cui la descrizione di morti individuali restituisce
la dimensione di tragedia umana alla valenza storica dei fatti.
Un’inchiesta
del Guardian denunciava già mesi fa oltre alla evidente crudeltà anche un
intollerabile cinismo da parte di Israele, colpevole di affamare “in modo
calcolato” la popolazione palestinese attraverso un preciso controllo delle
calorie necessarie alla sopravvivenza, monitorando il divieto di
lasciare affluire alimenti proteici per donne e bambini. La notizia è
stata ripresa e diffusa a settembre dall’organizzazione umanitaria MUSIC FOR
PEACE che ha fatto sapere che, per ordine del COGAT, (organismo che coordina le
attività governative nei Territori) i pacchi destinati a Gaza vengono aperti e
svuotati da biscotti, miele, marmellata, datteri in quanto proteici e quindi in
grado di dare un po’ di forza a una popolazione stremata. Le autorità
israeliane hanno calcolato con precisione svizzera quante calorie sono
necessarie ai palestinesi per sopravvivere e conseguentemente autorizzato
l’ingresso nella Striscia di quantità inferiori. Il Guardian cita un precedente
già nel 2006, quando un collaboratore dell’allora premier Olmert disse:
“Mettiamoli a dieta senza farli morire”. Ma neppure il solerte collaboratore
poteva vantare, tra i suoi pregi, quello dell’originalità. È necessario
risalire ancora un po’ a ritroso la corrente del tempo per imbattersi in un
altro precedente, il famigerato programma AktionT4: attuato dal
regime nazista in centri situati in Germania e in Austria ufficialmente tra il
settembre 1939 e l’agosto 1941 (proseguito in forma clandestina fino al termine
della guerra), prevedeva l’uccisione sistematica di persone “indegne di vivere”
perché affette da disabilità fisiche o mentali, considerate gusci umani vuoti.
Ufficialmente si parla di 70.000 morti forse, 250.000/300.000 se si estende la
ricerca alle fasi clandestine. Ne fa una tragica ricostruzione il film Nebbia
in agosto (2016), sulla storia vera del tredicenne Ernst Lossa, che ne
fu vittima, film che bene ripercorre la minuziosa tecnica della riduzione delle
calorie nei cibi quale strategia di uccisione silenziosa, attuata da medici,
solerti esecutori degli ordini hitleriani, con la loro scienza al servizio del
Male, quello con la M Maiuscola.
Il confine
tra carnefici e vittime
Insomma una
delle forme più subdole di sterminio burocratico, che Israele riprende,
traendone ispirazione proprio da quelli che furono i suoi persecutori. Un altro
tassello da prendere in considerazione quando ci si interroga su come sia
possibile passare dal ruolo di vittime a quello di carnefici. Domanda a cui
forse ha già dato risposta Primo Levi nel suo I sommersi e i
salvati in cui rifletteva su come il confine fra carnefici e vittime
non sempre sia netto e si possa piuttosto collocare in una zona intermedia,
abitata dal bisogno e dalle circostanze, che determinano i comportamenti. E lo
fa la riflessione psicologica relativa a come le esperienze possano essere
interiorizzate nella loro complessità: non sarà avere subito orrore e
ingiustizie a trasformare la vittima in difensore del diritto e dei deboli, se
ad essere stato interiorizzato è il rapporto di prevaricazione come stile di
relazione. Riproponendolo, sarà possibile mettersi dall’altra parte,
quella dell’oppressore.
E poi ci
sono i casi in cui infliggere il male non è neppure la conseguenza, per quanto
ingiustificabile, di averlo subito. Anzi: proviene da chi dalla vita sembra avere
tutto: ricchezza, posizione, possibilità di gestire il tempo come gli pare e
piace. E, tra ciò che gli pare e piace ci sono le battute di caccia, dove
infliggere dolore e sofferenza fino allo spasimo contro vittime indifese eccita
e soddisfa. Ma la sindrome di onnipotenza è così pretenziosa da non ritenersi
soddisfatta di obiettivi animali nonumani, bersaglio alla portata di tanti
altri compagni di fucile da risultare così poco elitaria. E allora le
competenze in tema di abilità e di sadismo si possono meglio esprimere su
vittime umane, scelte come capita, ma in osservanza di un tariffario della
vergogna. È successo a Sarajevo negli anni tenebrosi dell’assedio dove,
sta emergendo, alcuni stimati professionisti si spostavano dalle zone
ricche del nord Italia per eccitanti week end all’insegna del cecchinaggio
contro i bambini, di certo un po’ costoso, ma ne valeva la pena, se mai
pareggiando il conto con vittime meno care, uomini e donne, fino ad arrivare
agli anziani, di tanto poco valore da poter essere uccisi anche gratis. Orrore?
Vergogna? Sdegno? No, non c’è parola al mondo capace di connotare l’essenza che
la ricostruzione dei fatti comporta. Il vocabolario non è stato aggiornato.
Migliaia e
migliaia di pagine sono state scritte nel tempo nel tentativo di trovare una
spiegazione al perché della guerra e della violenza così ubiquitarie nella
storia umana né tanto meno di trovare quale sia la strada per escluderle dal
tragitto della storia. Nulla di
fatto ad oggi. Anzi. Forse varrebbe la pena approfondire lo strano caso, di cui
parla il ricercatore Carl Safina, di una comunità di gorilla divenuta quasi
pacifica per mancanza di modelli comportamentali aggressivi dopo la morte per
tubercolosi dei maschi adulti. Chi sia depositario di tali modelli è di certo
meno netto tra gli umani che non tra i gorilla, ma, una volta allargato il
cerchio, una seria riflessione sulle responsabilità dei modelli anche
oggi in circolazione sarebbe molto più che un ottimo punto di partenza per
modificare lo stato di questo mondo che, semplicemente, è un mondo sbagliato.
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