Un tempo le forze politiche che ora definiamo Sinistra, e che in passato si nominavano anche Movimento operaio (Partito comunista e socialista, organizzazione sindacale di classe ecc.), agivano sulle proprie scene nazionali animate dalla consapevolezza di essere eredi di un lungo passato di lotte e di conquiste, di essere parte di un movimento internazionale e di avanzare verso il futuro secondo un programma di rivendicazioni immediate e un progetto di società da costruire. L’intero processo, che coinvolgeva milioni di persone, era accompagnato da una costante attività di analisi e di elaborazione intellettuale, dentro e fuori i partiti, che forniva alle rivendicazioni quotidiane analisi, conoscenze, orizzonti. Da qualche decennio questa dimensione intellettuale, culturale, morale, escatologica che accompagnava l’agire politico è stata abbandonata pressoché da tutti i partiti. Il patrimonio teorico che dava profondità all’agire pratico è stato dismesso come un ferro vecchio. Oggi tutto è inchiodato al presente e l’orizzonte del fronte riformatore si limita, nel migliore dei casi, alla rivendicazione di “più risorse alla sanità pubblica”, “più soldi alla scuola”, “maggiore equità sociale” e alle note bagattelle del chiacchiericcio propagandistico. Quel che vorrei qui illustrare è perché questo è accaduto e quali sono state le forze storiche che hanno portato alla disfatta presente. E, sulla base di questo chiarimento, provare a indicare le condizioni che possono far rinascere la politica quale agente di trasformazione sociale, progetto di una nuova organizzazione della società. Premettendo che il grande crollo subito dal movimento operaio organizzato è stato provocato, a mio avviso, da due agenti e processi convergenti: il successo dell’iniziativa capitalistica in due grandi Paesi, UK e USA, e il crollo dell’Unione Sovietica.
1. La cosiddetta
globalizzazione a partire dagli ’90 ha contrapposto la mobilità mondiale del
capitale alla fissità nazionale del lavoro e ai vincoli della politica entro lo spazio
dello Stato-nazione. Si è creata un’asimmetria drammatica. In risposta
alle rivendicazioni sindacali il capitale può fuggire nei paesi poveri, a
sfruttare la loro forza-lavoro, mentre gli operai delle società di vecchia
industrializzazione non possono contrapporre nulla. Così il conflitto si
depotenzia, la politica di classe muore, sopravvive l’amministrazione
dello status quo. Una grande capacità di penetrazione
egemonica hanno avuto, inoltre, le dottrine neoliberiste, le quali si
presentavano, in quella fase storica, come un ampio patrimonio di idee, cariche
di suggestioni liberatorie e di grande fascino. Chi legge qualche testo di
Friedrich von Hayek, ad esempio, non può non rimanere colpito dal radicalismo
quasi anarcoide con cui egli esalta le libertà dell’individuo. Ora, a parte la
potenza di fuoco che il movimento neoliberista è riuscito a mettere in atto per
conquistare le élites occidentali (efficacemente raccontata da D.
De Masi, La felicità negata, Einaudi, 2023) quel
paradigma di idee non solo colpiva un marxismo ridotto a ideologia dello
sviluppo economico, ma faceva apparire le conquiste della classe operaia dei
decenni precedenti (che aveva intaccato, grazie a potenti movimenti
rivendicativi, il processo di accumulazione capitalistica) come
arroccamenti burocratici e privilegi corporativi che frenavano lo
sviluppo e impedivano alla macchina economica di produrre più
liberamente e più ampiamente ricchezza. Quella ricchezza che poi, secondo
l’ingannevole teoria dello sgocciolamento, si poteva utilmente
distribuire anche ai ceti operai e popolari. È stato questo, ridotto all’osso, il
messaggio semplice e potente che ha sedotto anche le menti dei dirigenti
comunisti e socialisti e le seduce ancora, benché non siano più né
comunisti, né socialisti.
2. Tale lettura aclassista e
sviluppista del capitalismo ha contribuito non poco a una valutazione
gravemente sbagliata della dissoluzione dell’URSS: un evento che ha spinto le
forze progressiste a guardare alla storia della prima rivoluzione
proletaria come a unico grande errore. L’immobilizzazione burocratica di
quella società, tanto più evidente di fronte al rutilante slancio che avevano
preso le società capitalistiche dell’Occidente, portava facilmente ad
accogliere questa versione. Ora – tengo a ricordarlo – esistevano, in quel
grandioso esperimento che è stata la Rivoluzione d’Ottobre, dei limiti e degli
errori di partenza, in parte legati all’immaturità storica della situazione
russa, in parte di ordine teorico, che non possono essere trascurati. Forse i
più importanti erano la pretesa di un’economia interamente
amministrata dall’alto e l’abolizione totalitaria del mercato. È un nodo su
cui bisognerà tornare se si vuole riprendere un progetto di società
socialista, ma la lettura dell’esperienza sovietica con “gli occhi
dell’Occidente” non solo è sbagliata e ingiusta storicamente, ma ha agevolato
la dissoluzione della Sinistra e condotto alle presenti aberrazioni
guerrafondaie.
È sbagliata
perché trascura le grandi conquiste sociali realizzate in quella esperienza: scuola e università aperte a
tutti, sanità gratuita e di buon livello, trasporti pubblici a prezzi popolari,
beni alimentari (benché mal distribuiti) a buon prezzo, ritmi umani
di lavoro. E la libertà dal bisogno non è certo l’ultima delle libertà. Un
livello di egualitarismo che oggi non si può non guardare con ammirazione, soprattutto
alla luce delle immense disuguaglianze in cui sono precipitate le società
capitalistiche. Oggi è rinata la povertà operaia e lo schiavismo nelle
campagne. Ricordo qui che durante la guerra fredda ha dominato in Occidente un
trucco comunicativo micidiale, rilevato dalla slavista Laura Salmon nel suo
romanzo, C’era una volta l’URSS (Teti editore, 2024). Anziché
confrontare le cose che non andavano bene in URSS con le cose che non andavano
bene in Occidente e viceversa, i nostri media paragonavano le inefficienze
sovietiche con gli aspetti di maggior successo della società americana ed
europea. Cosi, nell’immaginario occidentale, quella società è stata seppellita
sotto lo stereotipo unidimensionale del potere censorio e illiberale e
dell’inadeguatezza dell’apparato distributivo.
È poi
gravemente sbagliato il giudizio sulle ragioni del crollo dell’URSS, perché esso si è privato di una
visione classista dei processi e più precisamente di una visione storica. Non
si può, infatti, astrarre la costruzione dello Stato sovietico dal
contesto dei 70 anni in cui ha operato e, soprattutto, dalle guerre, dai
sabotaggi, dalle lotte politiche, culturali, mediatiche con cui l’Occidente ha
cercato di soffocarlo. L’assedio è cominciato sin dall’anno della sua nascita, il
1918, con l’esplosione della guerra civile e l’invio di corpi di spedizione
europei e Usa a sostegno dell’Armata Bianca. Quasi sempre si dimentica che
l’invasione hitleriana del 1941 è stata ispirata anche dalla volontà di
soffocare lo Stato comunista in quel paese. Così si omette di valutare
quel che ha significato quella guerra nel futuro svolgimento della società
sovietica. La Russia non solo ebbe tra 20 e 27 milioni di morti, ma anche un
numero mai conteggiato di mutilati e invalidi con cui l’economia sovietica e
l’industria devastata dai bombardamenti tedeschi hanno dovuto fare i conti nel
dopoguerra. Ed è contro un Paese così ridotto che già a partire dal
1945, con l’amministrazione Truman, gli USA hanno iniziato la guerra fredda e
la campagna anticomunista. Da allora l’URSS, che ha sempre vissuto
con la sindrome dell’accerchiamento, è stata costretta a dilapidare immense
risorse nelle politiche di armamento, sottraendo investimenti ai beni
primari e deformando in modo irreparabile la propria economia con gravi
conseguenze sociali e politiche. Così è stato per quasi 70 anni. Naturalmente
questo non assolve né la precedente dittatura stalinista, né il quasi ventennio
di immobilismo burocratico di Breznev, né i vari errori dei gruppi dirigenti.
Ma la storia dell’URSS, che non è la storia di un paese qualsiasi, ma di
uno Stato anticapitalista, di uno Stato socialista, non si può
comprendere se non si conosce la storia della politica estera americana, vale a
dire della lotta sistematica e senza quartiere che le ha mosso il più
potente Stato capitalista del pianeta.
3. I
dirigenti ultimi dei partiti comunisti e socialisti europei non hanno compreso
la portata antisocialista e antioperaia della vittoria del mondo capitalista. Hanno apprezzato e valorizzato la
conquista delle libertà formali e la ventata di liberalismo che investiva
quella società inefficiente, ma hanno dannato la memoria di quel Paese senza
comprendere nulla, senza neppure uno sguardo alla catastrofe che si è abbattuta
sulla società russa, con l’”apertura al mercato”, nel decennio di Boris Eltsin.
Una lunga damnatio memoriae che ha consumato una frattura
epocale non solo con il passato della Russia, ma con tutta la storia del
movimento operaio cominciata nel XIX secolo. Di conseguenza, quando si è
insediato alla presidenza della Federazione Wladimir Putin, che ha rimesso in
piedi un Paese devastato e in preda all’anarchia, e lo ha potuto fare solo
attraverso una sistematica e autoritaria opera di ricostituzione del potere
statuale, hanno considerato soltanto gli elementi di illiberalità di
quella operazione. Dimenticando che il presidente russo governava
ormai una società capitalistica aperta al mercato, tant’è che nel 2002 aveva
chiesto di far parte della Nato.
L‘aver
dismesso le categorie classiste dell’analisi sociale e aver abbracciato i
paradigmi neoliberisti ha portato esponenti e intellettuali della
sinistra residua a interpretare le presidenze di Putin come una riedizione, in
nuove forme, del potere sovietico. Putin come uno Stalin dei nostri giorni.
Mentre l’acquisizione di una visione euroatlantica ha impedito di
scorgere l’inedita aggressività dell’impero unico globale che gli USA erano
diventati. Un potere assoluto che esportava la democrazia per il mondo a
suon di bombe e che, dopo aver vinto la guerra fredda, voleva disfare la
Russia. Si spiega così che la gran parte del fronte democratico e di
sinistra, in Italia come in Europa, non abbia capito gran che della guerra in
Ucraina e abbia interpretato l’invasione da parte di Putin, che –
come sappiamo ormai da una letteratura schiacciante – ci è stato trascinato
dall’insediamento della Nato ai suoi confini e a suon di bombe ucraine nelle
regioni russofone, come espressione del revanscismo del “dittatore di Mosca”.
Così, interpretare la risposta armata dell’Ucraina all’invasione russa come la
resistenza della Democrazia contro l’Impero era quanto di più facile e
consolante potesse fare quel fronte politico. Ma questa posizione maggioritaria
presso i partiti politici, che ha condotto gran parte dei loro dirigenti a
convergere sulle stesse posizioni belliciste di tanta destra (e talora di
superarle in foga guerriera), non ha solo contribuito alla presente disfatta
europea. Tale postazione interpretativa impedisce di comprendere il
grandioso processo di mutamento degli equilibri mondiali in corso.
L’emergere
del fronte dei BRICS, e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai,
che governano gran parte della popolazione mondiale, segnala che i Paesi
occidentali non potranno più contare sul saccheggio delle loro economie come
hanno fatto negli ultimi cinque secoli. È finita. Cina,
India, Brasile, Indonesia, Iran – malgrado le sanzioni vessatorie
degli USA – dotate di fiorenti economie industriali e popolazioni
giovani, sono sulla strada di uno sviluppo tumultuoso e vogliono trattare alla
pari con i vecchi padroni del mondo.
Ma non è
solo questo. Lo scenario che appare in prospettiva davvero catastrofico per USA
e Europa è che la tendenza alla finanziarizzazione, insita nel capitalismo
maturo, sarà resa ancor più obbligata dalla competizione insostenibile mossa
dai paesi emergenti. Economie di carta, deindustrializzazione, debito
pubblico, disoccupazione, bolle speculative pronte a esplodere, questo è il
possibile futuro di USA e UE. Alcuni analisti contano sull’uso
dell’Intelligenza artificiale per far ripartire il processo di
accumulazione. Ma la potenzialità economica di questa tecnologia consiste nel
produrre ricchezza con sempre meno lavoro: essa diventerà insostenibile in una
società organizzata secondo orari di lavoro ottocenteschi e dentro le vecchie
logiche capitalistiche. È la percezione, più o meno chiara, di questo futuro
alle porte che induce alla disperazione le inadeguate e improvvisate élites occidentali.
Il comportamento banditesco di Trump, anche contro le economie degli alleati
europei, non è espressione della sua psicopatia, ma frutto della comprensione
della trappola in cui è finito l’Impero. È il leone ferito e
accerchiato che ruggisce e mena zampate a destra e a manca.
4. È da questa prospettiva che
occorre analizzare i fatti e provare a immaginare quali possono essere le
strade per una nuova visione strategica delle forze progressiste.
Il primo
errore da evitare è quello di valutare le forze del Sud del mondo a partire dai
loro ordinamenti interni. Ne ho già parlato in queste pagine (Il pregiudizio democratico,
5.8.2025). Benché in buona parte governati da regimi illiberali, bisogna
considerare che soltanto se messi in condizione di sottrarre alla miseria le
proprie popolazioni e di sfuggire ai ricatti del dollaro, questi paesi, liberi
dalla minaccia di un regime change ad opera degli USA,
potranno evolvere in senso democratico e liberale. Ci piaccia o no, ma è verità
storica: il nostro liberalismo (e di recente la nostra democrazia) si sono
fondati sul dominio di altre economie. Hanno impedito ad altri paesi quelle che
sono state le nostre conquiste. È evidente, d’altra parte, che se un
qualsiasi Stato del Sud del mondo è indotto a guardare, a ogni movimento
rivendicativo che sorga al suo interno, come a una minaccia alla sua sicurezza
(perché la CIA, segretamente lo sta manovrando per il suo rovesciamento), la
risposta sarà sempre repressiva. E questo penalizza oggi, e continuerà a
penalizzare, il conflitto di classe in tante regioni del pianeta. Dunque la
sicurezza geopolitica di questi paesi favorisce lo sviluppo di partiti e
sindacati, di forze popolari e democratiche.
Ma c’è
un’altra ragione strategica per cui dobbiamo guardare con favore a questo
fronte che avanza. In questi paesi si conserva ancora un immenso patrimonio
che noi abbiamo perduto: la relativa autonomia della politica. Gli
stati non sono stati privatizzati, com’è accaduto in Occidente. Non sono
finiti in mano a un ceto politico vassallo che serve gli interessi dei grandi
gruppi industriali e finanziari. Basterebbe guardare non solo a Trump, che
entra ed esce dal mondo degli affari alla presidenza degli USA, ma anche al
cancelliere Merz, passato da Black Rock, il gigante del risparmio gestito, alla
guida della Germania, o a Draghi, globetrotter della finanza
internazionale e nostro presidenze del Consiglio e così via. L’élite politica,
scomparsi i grandi partiti di massa, è diventata un ceto di broker,
che, se vuole sopravvivere, deve servire interessi più potenti di quelli di
uno Stato sovrano. E non solo lo Stato viene assoggettato a
interessi particolari, ma anche la società tende a dissolversi nel progressivo
accaparramento privato delle sue risorse. Così non è, invece, per gli stati che
noi indistintamente, e con immensa superficialità, spregiamo come
autocratici. Lì la politica, per quanto può, anche in una economia
sostanzialmente capitalista, agisce prevalentemente secondo logiche pubbliche
guardando agli interessi collettivi del paese.
È dunque
dalla sconfitta dei gruppi dirigenti USA e di quel che resta dell’UE e
dall’affermarsi di un ordine internazionale cooperativo, che passa una
condizione indispensabile per riaprire le prospettive di un possibile
socialismo del XXI secolo. Non solo perché, se non può più trovare condizioni di favore nei
paesi un tempo poveri, il capitale sempre meno potrà sfuggire al conflitto. Non
solo, dunque, perché si creerà il nuovo spazio sovranazionale comune che l’UE
non ci ha garantito. Ma perché questo è il primo fondamento per puntare
all’ambizioso tentativo, genialmente elaborato da Luigi Ferrajoli, di una
costituzione della Terra (Per una costituzione della Terra,
Feltrinelli, 2022) in grado di garantire la pace e di salvare la biosfera dal
collasso.
E non è
tutto. Finalmente in Italia potremmo guadagnare una condizione che
abbiamo perduto sin dal dopoguerra: la sovranità (Luciano
Canfora, Sovranità limitata, Laterza, 2023). Provate a immaginare
quanto durerebbe, nelle presenti condizioni, un governo popolare che intendesse
tassare severamente i grandi patrimoni, la rendita fondiaria, bloccare il
saccheggio delle città e del territorio, nazionalizzare i servizi strategici
ecc. Immediatamente esploderebbe la fuga dei capitali, scatterebbe il ricatto
dei gruppi finanziari, fiorirebbero campagne di diffamazione, col seguito di
possibili attentati terroristici. Dunque a tutti i democratici atlantisti
ricordiamo che la sconfitta della Nato in Ucraina e il ridimensionamento
dell’Impero americano sono condizione indispensabile perché l’Italia recuperi
la propria sovranità, quella capacità di decidere liberamente il proprio futuro
che gli USA le sottraggono da quasi 80 anni.
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