Il
videomessaggio sul grande schermo di Kaja Kallas alla “Maratona per la Pace”
della CISL, nel quale dice che “se vogliamo la pace dobbiamo prepararci alla
guerra” sembra tratto da una pagina di 1984 di George
Orwell, dai cui
schermi il Grande Fratello ribadiva le formule “la pace è guerra, la libertà è
schiavitù, l’ignoranza è forza”. La proposta di Kallas, ripetuta
ossessivamente dall’establishment della UE e dai vertici della Nato, non è
proprio innovativa e tantomeno ragionevole: deriva dalla massima
latina si vis pacem para bellum, ampiamente superata dal
moderno pensiero razionale europeo, laico e religioso, che ne rivela la
sperimentata controproduttività. Che pure l’Alta rappresentante per gli affari
esteri e vicepresidente della Commissione europea, che non perde occasione di
citare i “valori” europei, dovrebbe conoscere.
Da Erasmo
da Rotterdam, “La guerra piace a chi non la conosce” (Adagia),
ad Immanuel Kant, “Gli eserciti permanenti devono col tempo
scomparire del tutto. Infatti pronti come sono a mostrarsi sempre armati a
questo scopo minacciano costantemente gli altri Stati e spingono questi a
superarsi a vicenda nella quantità degli armati…“ (Per la pace perpetua);
da Bertrand Russell, “La preparazione alla guerra, lungi
dall’essere un mezzo per prevenire la guerra, è in realtà la causa principale
delle guerre. (…) Gli armamenti e le alleanze militari creano un clima di
sospetto e paura che porta inevitabilmente al conflitto” (Common Sense and
Nuclear Warfare), a papa Giovanni XXIII, “La guerra è
aliena alla ragione” (Pacem in terris), la deterrenza militare è
disvelata nella sua infondatezza e logica perversa che alimenta la minaccia che dichiara di voler
prevenire. E’ il il dilemma, o paradosso, della deterrenza, come abbiamo
spiegato più volte.
Del resto,
già nella lettera che Albert Einstein inviò a Sigmund
Freud nel luglio del 1932, quattordici anni dopo “l’inutile strage”
della Grande guerra e sette anni prima della Seconda guerra mondiale, ponendo
al padre della psicoanalisi la domanda cruciale su come liberare l’umanità
dalla guerra – già consapevole che la risposta a questa domanda “è una
questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta” – attribuisce la
causa principale delle guerre “al piccolo ma deciso gruppo di coloro che attivi
in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono
nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione
per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale
autorità”. È quel gruppo di potere, sia interno ad ogni Stato che trasversale
ad essi, che il presidente (ed ex generale) USA Dwight D. Eishenhower, nel
discorso di addio alla presidenza del 1961 avrebbe definito “complesso
militare-industriale”, che dal riarmo globale per la preparazione della guerra
ha tutto da guadagnare, tanto quanto dal disarmo per la preparazione della pace
ha tutto da perdere.
Ma, si
chiedeva Einstein scrivendo a Freud, com’è possibile che
questa minoranza che fa affari con le guerre “riesca ad
asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo
da soffrire e perdere?” Anche su questo lo scienziato delinea nella lettera a
Freud una risposta che ha pienamente valore – o addirittura maggiore – anche
per il nostro presente: “La minoranza di quelli che di volta in volta sono al
potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le
organizzazioni religiose. Ciò consente di organizzare e sviare i sentimenti
delle masse rendendoli strumenti della propria politica”. Salvo che per la
chiesa cattolica, che man mano si è posizionata dalla parte del pacifismo
anziché della “guerra giusta”, per il resto la lettera di Einstein mette a
fuoco i dispositivi formativi e informativi che ancora sovraintendono alla riconversione
bellicista delle menti, necessaria alla riconversione bellica dell’economia e
del lavoro al servizio della guerra. Alimentando la costruzione di un nemico
minaccioso che, intanto, disarma i paesi di fronte alle minacce reali.
Mentre per
preparare la guerra la spesa militare italiana ha superato nel 2025 la cifra
dei 35 miliardi di euro – puntando progressivamente a quel 5% del PIL
che significherà 140 miliardi di euro all’anno, sottratti agli investimenti
sociali e civili – ancora nel 2020 le organizzazioni per la pace e il disarmo
denunciavano che per un caccia F-35 si spende la stessa cifra che serve per
allestire 3.244 posti in terapia intensiva (vedi ricerca Greenpeace): proprio quell’anno l’Italia fu “attaccata” dalla pandemia da Covid e si
trovò negli hangar decine di caccia F35 – dentro un programma pluriennale di
spesa che ne prevede l’acquisto di 125 – e gli ospedali senza sufficienti posti
di terapia intensiva, costringendo i medici a dover scegliere tra chi curare e
chi no. Ne avevo parlato nel libro che proponeva di Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita
nonviolenta dall’epoca delle pandemie (GoWare), pubblicato nel 2021, ma
sono stato ampiamente smentito dai fatti. Peccato che oggi anche la
CISL, ospitando la narrazione obsoleta, irrazionale e pericolosa di Kaja
Kallas, abbia iniziato a preparare, di fatto, i lavoratori all’accelerazione
della riconversione al militare dell’industria civile e della riconversione
alla guerra dell’economia sociale. Anziché a lottare per il disarmo e la pace.
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