domenica 14 dicembre 2025

Ecco il primo report sull’evasione nei 27 Paesi Ue: Italia nel mirino per il nero degli autonomi e la riscossione che fa acqua - Chiara Brusini

Il rapporto Mind the Gap della Commissione è il primo tentativo di analizzare le lacune fiscali dell'Unione. In Italia quasi il 60% dell’Irpef attesa dagli autonomi non viene versata, l’evasione Iva nel 2023 è tornata a salire e solo una minima parte degli importi accertati viene effettivamente incassata

 

L’Italia continua a distinguersi in Europea per il livello di evasione fiscale concentrato sul lavoro autonomo e una riscossione che fatica a trasformare gli accertamenti in incassi. Sono alcune delle evidenze che emergono dal nuovo rapporto Mind the Gap della Commissione europea, primo tentativo di offrire una fotografia comparabile dei “buchi” fiscali nei 27 Stati membri. Il documento, che distingue tra mancati introiti dovuti all’infedeltà dei contribuenti e gap determinati da scelte politiche come agevolazioni, esenzioni e sgravi di vario tipo, non consente però di creare una classifica europea dell’evasione: solo per l’Iva, che è un’imposta comunitaria, esistono infatti stime armonizzate per tutti i 27 Paesi. I dati sulle imposte dirette restano invece scarsamente comparabili, perché solo pochi Paesi pubblicano stime disaggregate per categoria di reddito.

Il primato italiano

L’Italia almeno da questo punto di vista è virtuosa perché è tra i pochi Stati che stimano ogni anno sia il tax gap (differenza tra le imposte dovute e quelle effettivamente versate) relativo alla tassazione del reddito di impresa sia quello che riguarda l’Irpef, la tassazione personale. E rende pubbliche le previsioni nella Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva. Ma le buone notizie finiscono qui. La scheda Paese ricorda che nel 2022 l’evasione complessiva è tornata a superare i 100 miliardi di cui 37 (dai 35 dell’anno prima) non versati dai lavoratori autonomi e piccole imprese, la cui propensione al nero è poco sotto il 60% (59,8%). Un confronto con gli altri Paesi Ue come detto è impossibile per mancanza di dati comparabili. Ma per esempio la Svezia, che pubblica (non tutti gli anni) stime dettagliate sul tax gap dell’imposta personale, stando a controlli causali ha registrato tra 2014 e 2018 per i redditi da “business activities” un gap del 21%. Non minuscolo, comunque lontano anni luce dai livelli italiani.

In aumento anche il gap sull’Ires, cioè l’imposta sugli utili delle imprese: è salita al 19,5% per un valore assoluto di 10,3 miliardi, dai 7,6 del 2021. Stando al rapporto, la media sulla base delle stime disponibili per 23 Paesi Ue è del 10,9%. Al contrario, l’evasione è residuale tra i lavoratori dipendenti: il gap si ferma al 2,1% per i lavoratori irregolari e al 5,7% se si considerano le addizionali regionali.

Non sorprende che il peso sul pil dell’economia sommersa – attività non dichiarate, sottostimate o illegali, lavoro nero – sia soffocante: uno studio del Parlamento europeo nel 2022 l’aveva quantificato nel 20,2% del Pil, quasi tre punti percentuali sopra la media Ue (17,5%). Secondo le ultime stime Istatnel 2023 l’economia non osservata valeva circa 198 miliardi di euro, pari al 10,2% del Pil, in aumento di oltre 15 miliardi rispetto all’anno precedente. Lo scarto tra le due quantificazioni dipende da differenze metodologiche.

La riscossione che arranca

La Commissione riconosce che l’Italia ha fatto progressi importanti sul fronte della digitalizzazione grazie a fatturazione elettronica, interoperabilità delle banche dati e utilizzo di strumenti di analisi avanzata, che nel medio periodo hanno ridotto il tax gap complessivo dal 19,6% del 2018 al 17% circa. Ma la dimensione resta elevata e il recupero effettivo delle imposte accertate è limitato. Nel 2024, a fronte di 72,3 miliardi di evasione fiscale accertata, il recupero effettivo si è fermato a 12,8 miliardi, pari al 17,7%. La riscossione coattiva arranca ancora di più, con incassi fermi al 3,1% a fronte di 40,7 miliardi di euro di somme accertate. Un dato che fotografa una debolezza strutturale della fase finale del sistema di contrasto all’evasione: quella che va dall’accertamento all’effettivo incasso. Nel 2023, le cartelle pendenti a fine anno ammontavano al 180,8% delle entrate nette complessive, a fronte di una media Ue del 30,7%. La gran parte di questi crediti è considerata di fatto non riscuotibile. Da vedere se la riforma messa in campo nell’ambito della delega fiscale sarà sufficiente per invertire la rotta.

Non aiuta che la legge di Bilancio 2026 prevede una nuova rottamazione delle cartelle. Il rapporto richiama a questo proposito le valutazioni della Corte dei conti, secondo cui l’aspettativa diffusa di future sanatorie e condoni fiscali può indurre i contribuenti a rinviare il pagamento confidando di farla franca o al massimo salire sul carro della prossima definizione agevolata.

L’evasione Iva aumentata nel 2023

A livello europeo, l’evasione Iva nel 2023 è stimata in 128 miliardi di euro, pari a circa il 9,5% della base imponibile teorica. L’Italia si colloca ancora sopra la media Ue. Negli anni 2021-2022 la Penisola aveva registrato un forte calo del gap dal 19 al 15%, in parte legato al boom dell’edilizia e al Superbonus 110%, che ha incentivato l’emersione delle transazioni nel settore delle costruzioni. Ma nel 2023 si è registrato – così come in diversi altri Paesi membri – un nuovo aumento a circa 25 miliardi. Il peggioramento potrebbe essere stato determinato in parte dalla progressiva abolizione della maxi detrazione e in parte dalla normalizzazione della domanda dopo il rimbalzo post-pandemico: in particolare il buon andamento di turismo, servizi ricreativi e ristorazione, caratterizzati da livelli di compliance fiscale sotto la media, potrebbe spiegare perché la riduzione dell’evasione ha conosciuto una battuta d’arresto.

In aggiunta, anche il gap dovuto a misure introdotte dalla politica (riduzioni ed esenzioni) è sopra la media Ue: nel 2023 era pari al 55% del gettito potenziale, contro una media del 51%.

Il buco nero delle tax expenditure

E per restare ai “buchi” creati da chi è al governo, il rapporto ricorda che in Italia le agevolazioni fiscali o tax expenditure introdotte anno dopo anno e mai cancellate si tradurranno nel 2025 in mancate entrate per ben 119 miliardi di euro. Vale a dire circa l’11,4% del gettito fiscale totale riscosso dallo Stato, il 5,8% del pil. Vengono monitorate in un rapporto ad hoc e da anni si parla della necessità di “disboscarle”, ma nessuno ha avuto il coraggio di metterci mano pesantemente visto che dietro ogni agevolazione ci sono gli interessi di piccole o grandi platee di contribuenti.

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sabato 13 dicembre 2025

La Ue rinuncia a tassare le transazioni finanziarie. E ritira la direttiva contro le società di comodo - Chiara Brusini

 

Nel programma di lavoro 2026 la Commissione prende atto dei mancati progressi e archivia la tassa sulle transazioni finanziarie proposta poco dopo la crisi finanziaria per frenare la speculazione e raccogliere decine di miliardi di euro l’anno. In soffitta anche la direttiva Unshell

 

Stop alla direttiva contro le società di comodo utilizzate solo per pagare meno tasse. E addio alla tassa sulle transazioni finanziarie, in discussione dal 2013. La Commissione europea ha deciso di ritirare diverse proposte legislative chiave che ritiene non abbiano chance di passare. Come parte del programma di lavoro per il 2026, presentato a fine ottobre, l’esecutivo europeo guidato da Ursula von der Leyen ha preso atto dei mancati progressi e ufficializzato quindi l’intenzione di archiviare alcuni dei progetti più dibattuti degli ultimi anni. Tra cui la direttiva “Unshell”, concepita per contrastare i “gusci vuoti” mirati a eludere il fisco, e la decennale proposta di un’imposta comune sulle operazioni finanziarie all’interno dell’Unione, che avrebbe disincentivato la speculazione e le operazioni ad alta frequenza.

Addio anche alla Tobin Tax europea

La tassa sulle transazioni finanziarie era stata proposta nel 2011, poco dopo la crisi finanziaria e nel pieno di quella dei debiti sovrani. L’obiettivo era duplice: frenare la speculazione e raccogliere nuove risorse pubbliche, fino a 57 miliardi di euro l’anno secondo le stime iniziali. La direttiva avrebbe introdotto un’aliquota minima comune dello 0,1% sulle transazioni relative ad azioni e obbligazioni e dello 0,01% sui derivati, da applicare alle operazioni effettuate da istituzioni finanziarie quando almeno una delle controparti avesse sede in uno Stato membro. La misura, ispirata alla tassa proposta dal premio Nobel per l’Economia James Tobin, si basava sul principio di residenza, così da tassare anche le operazioni spostate fuori dai confini europei.

Il progetto è stato osteggiato da Regno Unito, Svezia e Lussemburgo. Undici Paesi tra cui GermaniaFrancia e Italia sono andati avanti da soli attivando una cooperazione rafforzata. Proventi potenziali, in questa configurazione ridotta, circa 30 miliardi di euro. Ma i negoziati si sono impantanati sulle differenze tra i sistemi nazionali e sulla paura di fuga dei capitali. L’Italia ha proceduto da sola, introducendo sotto il governo Monti una “Tobin tax nazionale” sulla compravendita di azioni italiane e derivati con aliquote dello 0,10 e 0,20%, a seconda del tipo di transazioni, e un gettito di circa 400 milioni l’anno.

Dopo oltre dieci anni di discussioni, il ritiro formale della proposta “rischia di porre una pietra tombale su un dossier che quando l’eco della crisi finanziaria del 2008 ancora rimbombava era arrivato a un passo dall’accordo”, commenta Mikhail Maslennikov, policy advisor sulla giustizia economica di Oxfam Italia. “La scelta è da scongiurare. Se confermata, sancirebbe l’incapacità dei governi Ue di mettersi in sintonia con le istanze dei propri cittadini. La misura è popolarissima tra gli europei. Aiuterebbe a contrastare pratiche speculative sui mercati finanziari e, se disegnata in modo ambizioso, genererebbe cospicue risorse, destinabili a soddisfare crescenti bisogni sociali, alla lotta contro il cambiamento climatico e alla solidarietà internazionale”. La speranza è che la commissione Econ del Parlamento europeo chieda a Bruxelles di ripensarci. Ma dovrebbero essere i governi che hanno aderito alla cooperazione rafforzata a ridare slancio alle trattative.

Società di comodo, tramonta la direttiva Unshell

Stesso destino, salvo ripensamenti, rischia di averlo anche la direttiva Unshell con cui la Commissione aveva tentato di introdurre un quadro comune per individuare e neutralizzare le società di comodo, attraverso una serie di test sulla sostanza economica: si trattava di valutare per esempio la presenza di personale e locali aziendali e le effettive attività svolte. Le società identificate come “vuote” avrebbero perso i benefici fiscali dei trattati contro la doppia imposizione e delle direttive Ue sui dividendi o gli interessi intra-gruppo.

Dopo tre anni di discussioni e veti incrociati, l’iniziativa è naufragata. Il colpo di grazia è arrivato dal rapporto Ecofin del 18 giugno 2025, in cui il gruppo tecnico “Questioni commerciali” ha rilevato “potenziali sovrapposizioni” tra i criteri della Unshell e le regole già previste dalla direttiva DAC6, che impone la segnalazione degli schemi fiscali transfrontalieri aggressivi. Molti governi hanno concluso che gli stessi obiettivi potevano essere raggiunti con semplici modifiche alla DAC6, senza una nuova norma vincolante. Così la direttiva Unshell è uscita di scena, lasciando il posto a un vago impegno per “approcci alternativi”.

La “pulizia” nell’agenda fiscale

L’obiettivo, secondo Bruxelles, è sgombrare il campo da proposte rimaste senza sbocco per concentrarsi su quelle con possibilità concrete di adozione e sulle nuove sfide strategiche” come transizione verde, digitale, sicurezza e competitività. Nell’elenco delle misure destinate alla stessa sorte figurano anche la proposta sulla riduzione della distorsione tra debito e capitale proprio (Debt-equity bias reduction allowance) e la direttiva sui prezzi di trasferimento (Transfer pricing directive). Restano invece in agenda il proseguimento dell’iniziativa BEFIT (Business in Europe: Framework for Income Taxation) per creare un sistema comune per la tassazione del reddito delle imprese, la fiscalità verde – revisione della Energy Taxation Directive e attuazione del Sistema di scambio di quote di emissione riformato – e la riforma delle risorse proprie per assicurare entrate stabili al bilancio dell’Unione. Tra il resto, si punta a ottenere gettito da un nuovo prelievo sui rifiuti elettronici, dai dal Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, cioè la tassa sull’anidride carbonica incorporata o emessa per la produzione di beni importati in Europa, e dal contributo legato ai rifiuti di plastica non riciclata. Nessun cenno al Pillar Two, la tassazione minima globale al 15% per le multinazionali elaborata in sede Ocse: la Ue l’ha trasposta in una direttiva in vigore dal 2024, ma gli Stati Uniti non hanno mai ratificato l’accordo e a giugno Donald Trump ha ottenuto dagli altri leader del G7 l’assicurazione che i gruppi Usa saranno esentati perché sarebbero già soggetti ad adeguate misure nazionali di contrasto all’erosione della base imponibile e al profit shifting. Una resa che potrebbe costringere il vecchio continente a modificare la sua normativa.

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Perché non deve essere concesso l’ampliamento della fabbrica di bombe Rwm - Roberto Mirasola

 

In questi giorni i comitati impegnati in opposizione all’ampliamento della fabbrica di bombe RWM, hanno presentato alla Presidente Todde un’importante lettera.

Un contributo che fa ben capire il perché è stata corretta la posizione assunta nel chiedere un ulteriore approfondimento prima di pronunciarsi sulla richiesta di VIA. Si evidenzia che la sentenza del TAR che intima alla regione di pronunciarsi nel termine dei 60 gg. è una procedura amministrativa dovuta. La PA deve pronunciarsi non essendo possibile il suo silenzio. Viene, dunque, intimato un termine ma i giudici amministrativi giustamente non entrano nel merito della decisione politica che chiaramente è a carico della Presidente e della sua Giunta.

A nostro parere sarà difficile non tener conto degli importanti elementi che emergono dalla lettura del documento scritto dai comitati. Si fa notare ad esempio che “Il mancato coinvolgimento della Soprintendenza ai Beni Paesaggistici e Ambientali in ogni atto e procedimento riguardante l’ampliamento della fabbrica RWM, pur in presenza di vincoli paesaggistici tali da rendere il parere della Soprintendenza necessario e vincolante”. Queste affermazioni derivano dall’attenta lettura del D.lgs. 42/04: il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Si tratta delle norme che tutelano la protezione, la conservazione e la promozione del patrimonio culturale e paesaggistico. Ebbene i comitati evidenziano con dovizia di particolari tutte le omissioni della RWM tanto da far riportare che “L’istruttoria condotta dal Servizio VIA si è quindi conclusa senza che fossero acquisiti i necessari pareri in merito ai vincoli paesaggistici presenti nell’area di intervento, né da parte della Soprintendenza, che non è mai stata coinvolta, né da parte del Servizio tutela del paesaggio della Sardegna meridionale che non si è mai espresso in merito all’ampliamento dello stabilimento RWM nel suo complesso, come richiesto dalle sentenze del C.d.S.”

Altro aspetto importante riportato è la sottovalutazione da parte della RWM nel costruire gli insediamenti produttivi nonostante la presenza del Rio Figu. In particolare si legge “Si omette però di precisare che da tale analisi sia risultato un rischio di esondazione molto elevato per il Rio Figu (livello Hi4), il che comporta un rischio idraulico molto elevato in tutta l’area (livello Ri4, il massimo possibile…..Reparti produttivi, depositi, locali tecnici, strade e piazzali realizzati in quest’area si configurano quindi come abusi non sanabili”. Non possono non tornare alla mente tutti i disastri idrogeologici verificatisi in Sardegna quando si è costruito nel corso dei fiumi. Giusto per ricordare. Il ciclone Cleopatra nel 2013 causò perdite in vite umane e ingenti danni materiali, perché l’enorme quantità d’acqua non trovò spazio sufficiente nei canali a causa del fatto che diversi corsi d’acqua furono tombati o ristretti. Stesso discorso vale per l’alluvione del 2008 a Capoterra.

Ultimo aspetto che si fa notare è che nei documenti presentati dalla RWM alcuni edifici, si dice siano adibiti ad uso magazzinaggio quando in realtà il loro uso è ben diverso. Si legge: “L’unità esterna collocata in comune di Musei non svolge però la funzione di magazzino esterno, ma si tratta invece di un vero e proprio reparto produttivo nel quale si svolge l’assemblaggio delle loitering munitions (Droni Killer) della serie Hero prodotti su concessione della UVision Air Ltd, azienda israeliana del comparto militare-industriale”

In questi giorni diversi esponenti politici si sono espressi, alcuni mettendo in discussione il principio della libera impresa. In particolare si ritiene che l’eventuale decisione negativa della Regione limiterebbe irrevocabilmente l’iniziativa privata. L’articolo 41 della Costituzione riconosce la libera iniziativa economica privata, tuttavia la limita espressamente nel caso in cui rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute o all’ambiente.  Rischi alla salute e all’ambiente che per i motivi sopra riportati sono abbastanza evidenti che devono creare una grande preoccupazione. Ricordiamoci che parliamo di una fabbrica che utilizza esplosivi e le conseguenze sulla popolazione non devono essere sottovalutate.

Roberto Mirasola è il responsabile pace di Sinistra Futura

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venerdì 12 dicembre 2025

Passaggio al Bosco e l'Operazione Politica di alto livello - Matteo Flora

 




Resistere e disertare - Franco Berardi Bifo

 

Nelle numerose occasioni di discussione pubblica che hanno accompagnato la presentazione dei miei due libri recenti (Disertate, del 2023 e Pensare dopo Gaza del 2025), qualcuno mi ha rivolto una domanda: che rapporto c’è tra resistenza e diserzione? È una questione che ho aggirato in varie maniere, cui non ho mai veramente risposto. Ma ero del tutto consapevole del fatto che prima o poi dovevo giungere al cuore della questione. Ora ci siamo: durante il genocidio ho dovuto chiedermi mille volte: come si può suggerire ai palestinesi di disertare, visto che l’aggressione israeliana consiste in un accerchiamento che dura da decenni?

I palestinesi resistono, non accettano di disertare, e comunque non possono. Si può consigliare la diserzione a una persona, a una famiglia, a un popolo che da decenni è rinchiuso in un campo di concentramento? Avrei potuto rivolgere l’invito a disertare a una persona rinchiusa dietro i cancelli di Auschwitz? Sappiamo che Gaza è una riproduzione di Auschwitz in cui le tecniche dello sterminio e della tortura sono state dosate in un tempo più lungo. Nessuno poteva né può entrare nella striscia di Gaza, nessuno può né poteva uscirne. Che significa allora in quel caso disertare? Niente.

D’altra parte da molti decenni i palestinesi hanno fatto della resistenza la speranza di riscatto, la condizione per mantenere dignità e per riaffermare la propria esistenza come popolo.

Quando pubblicai quel libro non intendevo la parola Disertate come una consegna, come un suggerimento politico. La intendevo piuttosto come riconoscimento di un comportamento che molti praticano in modo individuale o collettivo. Intendevo riconoscere che, venuta meno ogni possibilità di alternativa di lungo periodo, la resistenza è perdente, e se si può è opportuno o disertare.

Ma in quel libro ho dimenticato di dire che disertare è un privilegio. Chi ha la possibilità di disertare si trova in una condizione di privilegio rispetto a chi non può fare altro che resistere. O soccombere.

Non intendo affatto contrapporre la diserzione alla resistenza, perché nella realtà di milioni di donne e di uomini questi due comportamenti, pur essendo molto diversi, non sono i due corni di un’alternativa, non sono le due possibilità tra le quali scegliere. Chi può scegliere di disertare lo faccia. Ma chi non può allontanarsi dal luogo e dalla condizione di violenza in cui è intrappolato, cosa può fare se non resistere, nell’attesa che il mostro si disintegri?

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giovedì 11 dicembre 2025

Il caso David Rossi - Franco Fracassi

 

La guerra degli zombie europei alla Russia - Giuseppe Masala

 

Nel contesto del sempre più evidente disinteresse di Washington per la Nato e la UE la posizione bellicista di molte capitali europee assume sempre di più la logica del giocatore d'azzardo che per non perdere tutto rilancia. Quella che preparano a Londra, Parigi e Berlino è sempre di più una guerra degli zombie contro la Russia.

Mentre sul campo di battaglia ucraino appare sempre più evidente la rotta delle truppe del regime di Kiev, sul piano della diplomazia a rompere l'inerzia è il piano di pace proposto da Trump che poi non è altro che la presa d'atto di ciò che il conflitto armato ha decretato  e che, al massimo, può essere visto come il tentativo da parte della Casa Bianca di limitare i danni militari, diplomatici ed economici innanzitutto per gli USA, ma anche per i suoi scriteriati vassalli europei.

Definire scriteriato il comportamento europeo non può essere considerato esagerato perchè chiaramente fondato sulla completa negazione della realtà ovvero l'evidenza che l'Ucraina ha perso la guerra nonostante l'enorme aiuto della Nato, degli USA e della UE sia sul piano militare che su quello diplomatico ed economico. Va detto che per i paesi europei questa è una realtà difficilissima da accettare  perché sancisce la completa e catastrofica sconfitta anche della Nato e della UE come istituzione.  Alla luce di questo si comprendono i tentativi europei di questi giorni di riuscire a sabotare le trattative di pace sia portando Zelensky dalla propria parte, sia usando metodi poco ortodossi tra alleati come quello di divulgare intercettazioni tra il plenipotenziario americano Witkoff e i suoi interlocutori russi. Tentativi che molto probabilmente non fermeranno la volontà di Washington di arrivare ad una soluzione che consenta certamente di limitare i danni e probabilmente di avere un profitto diplomatico ed economico dalla veste di paciere che vuole indossare in questa fase

Ma perchè l'Europa anziché percorrere la via pragmatica della limitazione dei danni insiste a voler applicare la logica del muro contro muro con Mosca? Certo, c'è una certa negazione della realtà ma c'è anche una logica fondata sugli interessi economici vitali. I tre più importanti paesi europei, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno infatti enormi problemi economici che spingono le loro classi dirigenti a puntare sul conflitto con la Russia nella speranza di farla collassare e così depredarla come nei ruggenti anni 90 post caduta dell'Unione Sovietica. Più precisamente, Francia e Gran Bretagna sono afflitte da un enorme debito estero che espone il loro sistema finanziario di fronte ad una possibile crisi sistemica mentre la Germania, pur essendo ancora oggi ricchissima, è completamente priva di prospettive economiche causata dalla perdita di competitività del proprio sistema produttivo orfano delle materie prime e dell'energia a buon mercato che venivano fornite dalla Russia.

Molto probabilmente però, in questa scelta dei più importanti paesi europei c'è dell'altro oltre al mero interesse economico, per quanto vitale possa essere. A tale proposito a svelare l'arcano è stato l'ex militare e diplomatico norvegese Dan Viggo Bertgun che in una intervista al giornale Steigan ha dichiarato: “La NATO non si sta indebolendo. La NATO sta morendo. Non con una forte esplosione, ma a causa di una marcescenza politica iniziata molto prima dell'Ucraina, la sconfitta in Afghanistan ha spogliato l'alleanza di tutta la sua autorità ed è diventato il momento in cui la NATO ha effettivamente perso il suo sostegno strategico." per poi concludere in maniera emblematica che la Nato si sta trasformando in un: “pezzo da museo di un'epoca in cui l'Occidente credeva ancora di controllare il mondo, perdendo il contatto con le reali dinamiche globali”.  Anche l'amministrazione USA peraltro, sembra non avere posizioni dissimili da quelle di Bertgun, infatti in più di una circostanza a Washington hanno trattato l'Alleanza Atlantica come un mero cliente per l'acquisto di armi, per non parlare poi dell'offerta fatta dall'ambasciatore USA presso la Nato di lasciare il ruolo di Capo Militare (Saceur) dell'organizzazione ad un tedesco che dimostra un assoluto disinteresse di Washington per la difesa dell'Europa. E come se queste prese di posizione non fossero abbastanza chiare circola sempre più insistentemente la voce che il Segretario di Stato non parteciperà al prossimo summit dell'Alleanza che si svolgerà il prossimo 3 di Dicembre a Bruxelles. Segno che ormai a Washington vedono questa alleanza come un mero residuato del passato privo di qualunque importanza.

Non pare azzardato allargare le considerazioni di questo diplomatico norvegese anche all'Unione Europea. Una sconfitta militare e diplomatica come quella che si prospetta in Ucraina potrebbe causare la stessa dislocazione del progetto europeo. Sia perchè il meccanismo economico che la sostiene non è più in grado di funzionare proprio perchè la locomotiva tedesca si è fermata, sia perchè ci sono comunque forti discrepanza di idee all'interno dell'Unione: se da un lato, come  si è già detto, paesi come la Germania e la Francia sembrano fermamente disposti a continuare la guerra con la Russia, dall'altro lato paesi come l'Ungheria non intendono recedere dalla loro idea di mantenere ottimi rapporti con Mosca. Una situazione questa che lascia intravvedere le prime crepe, infatti il Parlamento Europeo ha votato favorevolmente per richiedere l'attivazione delle misure sanzionatorie (compreso il diritto di voto) per l'Ungheria che starebbe trasgredendo in maniera continuativa e persistente “i valori fondamentali della UE” come la Democrazia, i Diritti Umani e lo Stato di Diritto così come previsto dall'Articolo 7 del Trattato sull'UE.

Quindi, non solo enormi problemi economici per i paesi europei a causa della sconfitta ucraina ma un sempre più evidente terremoto che potrebbe far crollare l'architettura delle istituzioni che governano l'europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sia sul piano politico che sul piano militare. E' proprio in questo contesto che l'idea di continuare il conflitto contro la Russia che viene portata avanti in molte capitali europee assume sempre di più il senso di un irresponsabile salto in avanti tipico di chi ritiene di perdere tutto e che quindi è costretto a rilanciare sperando nella buona sorte.

Quella che stanno progettando a Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles è di fatto la guerra degli zombie europei contro la Russia.  Questo è ciò che si evince dall'orizzonte degli eventi che si sta prospettando.

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mercoledì 10 dicembre 2025

Lo straniero a scuola mia - Roberto Contu

Gli anni Ottanta

Ho finito la terza media nel giugno del 1990, trentacinque anni fa e fino a quel momento, sia alle medie che alle elementari, io che vivevo in provincia di Viterbo gli stranieri non li avevo mai avuti in classe, poco più li avevo conosciuti. Per me da bambino, gli stranieri erano solo i marocchini, così li chiamavano sulla spiaggia di Torvajanica dove d’estate andavo al mare, a casa di mio zio. A me da bambino pareva che esistessero solo quelli di stranieri, i marocchini, e poco importa che ovviamente non fossero solo magrebini, a me pareva proprio che nell’Italia intera gli stranieri fossero solo i marocchini. Però alle elementari era arrivato in quinta un ragazzino adottato dalla Colombia, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, giocava bene a pallone e il mister alla prima partita gli aveva dato la maglia numero dieci. Un po’ io c’avevo sperato nella maglia numero dieci, ma a me aveva dato la otto, lui era molto più forte di me ed era mancino, come Maradona. Il maestro ce l’aveva presentato così quando era arrivato: «viene da un paese molto lontano, e adesso il suo papà è Sergio Guidi e la sua mamma la Rosa». Sergio Guidi, che noi lo conoscevamo tutti perché era il dirigente della nostra squadra e ci caricava in sette sulla Ford Escort per portarci alle partite, da quel giorno ci avrebbe caricato in otto. Quel bambino veniva da un mondo lontano come ci aveva detto il maestro, ed era per me una cosa strana perché, se magari nelle scuole delle grandi città alla fine degli anni Ottanta gli stranieri erano già arrivati, per me, per la mia scuola in provincia di Viterbo, alle elementari, ma anche alle medie, gli stranieri veri, quelli che avevo conosciuto, erano stati fino a quel punto solo i marocchini del mare di Torvajanica che vendevano le palette e le ciambelle di Goldrake e da allora in poi anche il mio amico adottato dalla Colombia. Poi certo, c’erano anche i Rom, che erano gli zingari, anzi, gli zingheri, che ti portavano via se non ti comportavi bene: così mi aveva istruito la mia zia zitella. Ma anche i Rom, a parte quelli che si vedevano in giro per la festa di Santa Rosa e quelli che un po’gli assomigliavano e che erano i padroni delle giostre e del calcinculo, non erano pervenuti nella mia vita tra Ottanta e Novanta. Insomma, nella mia scuola in provincia di Viterbo fino alla terza media non c’erano mai stati gli stranieri e sarà sempliciotto, ma storicamente c’è del vero, nell’Italia di più o meno trentacinque quaranta anni fa, per lo meno nella mia Italietta di provincia che era la Tuscia, lo straniero in pratica non esisteva. Trentacinque quaranta anni fa, che poi è uno sputo di tempo, tanto che lo sto qui a raccontare come fosse ieri.

 

Gli anni Novanta/1

 

Nell’anno di Italia ‘90, a settembre, ho iniziato il liceo e sì, anche nella mia classe non c’era nemmeno uno straniero. Vabbè, il liceo. Eh sì, il liceo: tutti italianissimi e viterbesissimi (ché il liceo io l’ho fatto a Viterbo) e forse, a dirla tutta, quello più straniero lì dentro ero proprio io, non solo perché in centro ci arrivavo da Celleno – oggi detto Il borgo fantasma – con venti minuti di postale dell’Acotral (oggi Cotral), ma soprattutto per il cognome sardo che mi ritrovavo: Contu, ché mio nonno, arrivato dalla Barbagia nel Lazio nel 1963, come tutti i sardi della migrazione sarda di quel periodo, lui sì che era proprio straniero in continente. Per non dire di mio padre, giovane sardo sbarcato a Civitavecchia e poi dopo qualche anno da Monterotondo a Viterbo, dove avrebbe sposato una continentale – mia madre – e dove sarei nato io due anni dopo mia sorella, nel 1976, proprio quando i sardi erano quelli dell’Anonima Sarda (figurati, i Contu venivano pure da Onanì, a due km da Lula, il paese di Matteo Boe).  Nei racconti di famiglia c’era sempre stata, tra le altre, la storia delle visite di cortesia dei carabinieri alle famiglie sarde come la nostra nel viterbese durante il sequestro Moro, quando lui pare villeggiasse bellamente a Gradoli sul lago di Bolsena, e io che avevo due anni al tempo, mi dicono essermici trovato a mio modo e da dentro una culla in mezzo a una di quelle improvvisate. E allora, forse proprio per questo non avevo avuto gli stranieri a scuola: una specie di punizione, perché in realtà lo straniero ero io, continentale di seconda generazione, che in tavola invece della rosetta avevo il pane carasau, che qualcuno mi chiamava malignamente sardignolo, che ero figlio di quelli dicevano con la Pattada sempre in tasca, e se in quegli anni me la prendevo e pure parecchio, forse mi sarebbe bastato uno qualunque proveniente dal futuro a consolarmi, profetizzandomi che una volta diventato insegnate non sarebbe stato troppo difficile capirle quelle seconde generazioni nate e cresciute in Italia, perché il primo a essere una seconda generazione nella ridente Tuscia con lo stigma del bau bau venuto da lontano, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ero stato proprio io. Niente di strano eh, l’esperienza praticamente di metà degli italiani con storie di migrazioni interne sul groppone familiare, anche se troppo presto gli italiani se lo sarebbero dimenticato.

 

Gli anni Novanta/2

 

Posto che i marocchini per me a quel tempo continuavano a esserci specie d’estate – ma avevo fatto un salto, diciamo di qualità, passando dal mare di Torvajanica a quello di Montalto di Castro dove un giorno avrei pure trovato moglie – a un certo punto, nell’ italianissima nazione, irruppe una specie di criptide nuovo. C’era che era caduto il muro, s’era sfasciato tutto là dove stavano i comunisti di Ivan Drago, e nel giro di due anni, 1991 e 1992, seconda e terza liceo per quanto mi riguarda, spuntò fuori a scuola un nuovo bau bau che più bau bau non si poteva: l’albanese. E allora giù, tutti a spaventarsi con i primi barconi, che quelli erano barconi veri da fare spavento, altro che le barchette che un giorno avrebbe combattuto eroicamente l’oh Capitano, mio Capitano. La banchina come un formicaio del porto di Bari, la nave Vlora che pareva l’arca di Noè, e davvero mamma li turchi, arriva l’orda, gli albanesi vi ammazzeranno tutti, vi porteranno via il lavoro, le mogli, i bambini, e giuro, un insegnante ci disse in classe che l’errore nostro era stato di non fare la resistenza navale come a Lepanto, a noi che, mentre ci diceva questa cazzata, le battaglie navali la facevamo per davvero, ma sotto il banco. Ora, sarebbe pure troppo citofonato stare a vedere come dopo un altro sputo di tempo, i trent’anni che separano quel buffo ieri dall’oggi, quegli stessi albanesi che facevano sognare il 1571 al mio professore sarebbero diventati quanto di meglio c’è oggi nel mio quartiere e nella mia scuola, dall’imprenditore e la sua ditta che assume gli italiani e che mi ha fatto i lavori in casa, ad alcuni dei migliori amici dei miei figli, fino al cento e lode uscito dalla mia classe di liceo classico – sì, horribile dictu, liceo classico – della ragazza albanese che a breve diventerà mia collega di lettere e insegnerà italiano ai nipoti di chi gridava ai bau bau che erano sbarcati all’inizio dei Novanta, con il mito del Milan di Sacchi e delle Mercedes 190. Ma allora già si gridava all’apocalisse anche se, per restare a quei miei primi anni Novanta e a stare onestamente sul pezzo, stranieri nella mia Viterbo di allora ancora pochi, zero nella mia classe. Se non altro avevo capito che non c’erano solo i marocchini diventati magicamente magrebini, che a quel punto bisognava preoccuparsi anche dell’est, e non solo degli albanesi, ma di tutti quelli in fuga dal disastro balcanico, ma anche dei polacchi, addirittura già di qualche rumeno, e poi a Roma c’erano anche i centroafricani, i filippini no, che quelli stavano rintanati nelle ville all’Olgiata, e poi gli indonesiani e i bangladini e pure i latinoamericani che aumentavano sempre più con i zufoletti nelle piazze (ma loro li conoscevo bene, perché ero iscritto all’associazione Italia-Nicaragua) e pure qualche cinese si iniziava a vedere, ma poca roba. Insomma, pareva che qualcosa di grosso stesse accadendo, anche se, nella mia modestina Tuscia, continuavamo a essere, anzi continuavano a essere, tutti Rossi, Ricci e Proietti, Delle Monache, Bernini e Morucci, Meschini, Serafini e Buffetti. Beh, sì, c’era anche Contu, ma a quel punto più o meno m’ero integrato anche io o, meglio, ero diventato sufficientemente stronzo anche io da accontentarmi di quel mondo incredibilmente micragnoso e piccolo.

 

Gli anni Novanta/3

 

Finito il liceo, come mezza mia famiglia, nel 1995 vengo a fare l’Università qui a Perugia, dove vivo adesso, da dove non mi sono più mosso. L’impatto straniero a Perugia fu per me davanti all’Università per gli Stranieri, allora ma anche oggi istituzione più che prestigiosa, che ricordo in quel primo giorno in città non per integranti motivi, ma per colpa della marmitta della Vespa che mi ero portato da Viterbo. Eh sì, perché avevo preso alloggio fuori dal centro di Perugia, e per quello m’ero industriato per portarmi la Vespa da Viterbo per andare a lezione, ma per l’ennesima volta lo straniero ero io nel nuovo posto dove ero arrivato. La Polini della mia Vespa modificata (nel bildungsroman del giovane viterbese ci doveva essere almeno una Polini/Dr75/carburatore Dell’Orto 19 come precondizione all’esistenza) faceva talmente casino che il vigile, fermandomi, m’aveva intimato «ma che ti dice la testa di fare tutto ‘sto bordello? Ma da dove arrivi tu? Viterbese? Ma tornatene a casa tua!». Ovvio che l’ultima esclamazione è farlocca e l’ho aggiunta io (ma, secondo me, l’aveva pensata davvero il vigile), ma insomma, per farla breve, certo che a quel punto, arrivato a Perugia, gli stranieri c’erano ovunque, ma stranieri variegati, da quelli della stazione di Fontivegge un po’ più incasinati a quelli del centro e delle facoltà un po’ più pettinati. E poi c’ero anche io, il viterbese con la Vespa ma con il cognome sardo, straniero al quadrato, e forse davvero non è un caso che per quattro anni avrei felicemente convissuto in appartamento con due pugliesi di Taranto innamorati di Cito, uno di Roccabernarda che faceva arrivare il pacco di giovedì e un altro di Rieti: stranieri pure tutti loro, ché, passi Taranto e la mitologica provincia di Crotone, ma se non è straniero uno di Rieti a Perugia di che stiamo a parlare. Emergenze presunte perugine di allora dunque, a parte noi studenti fuorisede: albanesi – aridaje – i latinoamericani di via della Pallotta, e il nome di un quartiere sentito per la prima volta allora, Ponte San Giovanni, alle porte di Perugia, che pareva fosse una specie di Bronx, un ricettacolo di provenienze diverse da rimanerci secchi al solo entrarci, una specie di bolgia a cielo aperto (spoiler: ci sarei andato a vivere nel 2005, ci abito tutt’ora, lì avrei fatto crescere con gran soddisfazione quattro figli). Mettici poi, per quanto mi riguarda, un Erasmus, i quattro anni di università e uno da obbiettore di coscienza alla Caritas dove per quattordici mesi avrei abitato in comunità con i messi alla prova (manco a dirlo, marocchini e albanesi), frequentato per altrettanti mesi il centro d’ascolto ai tempi dell’articolo 18, leggi portare i vestiti e i panini negli androni della questura di notte alle ragazze della tratta che venivano rastrellate e caricate sui pullman ai tempi della Bossi – Fini («tra una settimana sono di nuovo qui» mi disse Aisha in un’alba d’inverno, nei sotterranei della questura, con il più bello dei sorrisi mai visti. Mi innamorai all’istante: Aisha fece talmente tremare di chiaritate l’aria che ancora ce l’ho piantata in testa). Insomma, alla fine degli anni Novanta e all’inizio degli anni Zero il mio apprendistato da italiano medio sulla presenza dello straniero era di certo andato avanti un bel pezzo.  Ma nel giro di pochissimo per me sarebbe iniziato un altro giro, un’altra corsa.

 

Gli anni Zero

 

Nell’ottobre del 2003 vengo al mondo per la seconda volta, entro per la prima volta in classe, in un Ipsia della provincia di Perugia: prof Contu al servizio delle patrie scuole. Da quel primo giorno mi tocca andare un po’ più veloce: dieci anni di precariato in giro per la regione che avrei fatto tutti in istituti tecnici e professionali, con una parentesi al liceo artistico. Ovviamente le classi si erano a quel punto riempite di alunni con cognomi per niente viterbesi, ma nemmeno perugini. Eh sì, perché già all’inizio degli anni Zero, quelli che avevo in classe, se non ancora tutti erano nati in Italia, comunque c’erano arrivati da piccoli, e chiamarli stranieri già mi pareva una cosa cretina, dal momento che stavano nella stessa aula di scuola dove stavano gli altri. Ma è un fatto che per la prima volta la scuola, la società mi pareva davvero cambiata, il mondo finalmente era arrivato in Italia, ovvero circa venticinque anni fa, uno sputo ancora più piccolo per la storia di questo paese. Nei miei primi dieci anni da insegnante precario, che cambiava una scuola all’anno, ma anche che ogni tanto ce ne iscriveva un figlio o una figlia – tre Contu/Marcacci su quattro nascono in quel periodo – le classi, la vita, l’Italia intera questa volta per davvero, per lo meno ai miei occhi, s’era riempita, vivaddio di persone che arrivano non solo da Spello o Panicale, ma anche da mille altre parti del pianeta. Le classi nelle quali ogni anno mi trovavo a insegnare per altro già mi propinavano la lezione storica della scuola che, al riparo di chi si impegnava con riscontro (elettorale e al bar sotto casa mia) per fomentare il bau bau e il mamma li turchi, tra mille difficoltà si faceva carico delle difficoltà, e soprattutto le superava, nel semplice e naturale procedere degli eventi e della storia che a scuola è sempre tanto più silenziosa quanto al trotto se non di corsa: sì, la scuola già mi squadernava davanti l’evidenza di un mondo finalmente nuovo. Penso alla percezione dell’albanese che nel giro di nemmeno un decennio era nettamente mutata (forse anche il mio vecchio professore s’era ricreduto sulla Lepanto da fare a Durazzo), alle millanta di alunne e alunni di provenienza nord e centro africana che, al netto del racconto e delle etichette infami che ci già allora piacevano tanto, iniziavano allora a dare e continuano tutt’ora a dare lezioni positive di riscatto politico e sociale nelle nostre classi, alle millanta di ragazze e ragazzi dell’est, Polonia, Romania, Moldavia, Ucraina etc., dell’altro continente, Perù, Ecuador, Cile etc., che ho avuto in classe e che, semplicemente, prosaicamente, naturalmente, mi mostravano come l’integrazione, giorno per giorno, al netto di tutte le fatiche, giuste e naturali, stava fiorendo come margherite tra l’asfalto proprio a scuola. Per non farmi mancare nulla, o per lo meno per non fare l’integrato con le scuole degli altri, ebbi in quegli anni la buona ventura di mandare i primi miei tre figli nelle scuole del quartiere di Ponte San Giovanni, sì, il Bronx di noialtri perugini, scuole dove tutti e tre i piccoli e poi adolescenti Contu avrebbero studiato con profitto (dovrei scrivere altrettante righe per parlare di quegli insegnanti, di quelle scuole), scuole dove si erano mischiati a mille altri cognomi per niente perugini e di ogni parte del mondo (a un certo punto il più grande, che aveva i suoi due migliori amici con famiglia congolese mi disse in alla fine della seconda media: «babbo, Maurice, Martial e io abbiamo fondato una crew, lo sai come ci chiamiamo?», «come?». «I Negrita»). Scuole nelle quali i miei figli hanno studiato, imparato, avuto la possibilità di fare e fare bene quello che si fa scuola compreso il fare molto bene le superiori, ma soprattutto avuto il privilegio di un’idea di mondo e di realtà meno micragnosa di quella che a me era parsa normale alla loro di età.

 

Gli anni Dieci

 

Dagli anni Dieci agli anni Venti, mi rendo conto però di una cosa. Di quello che di incredibile e di rapido stava avvenendo a scuola, con tutte le contraddizioni e le difficoltà possibili, ma con un’evidenza di un progresso morale e civile senza precedenti, di contro nella società, nella comunicazione, soprattutto nella politica, passava ben poco. Anzi, il racconto di questa cortissima storia italiana con lo straniero a scuola (trentacinque? Quaranta anni?) era sempre più spiaccicata sull’episodio brutto e singolare che diventava sineddoche a quattro colonne sui giornali dell’invasione incontrollata, sulla classe di frontiera dove le proporzioni tra il numero di figli della nazione e figli dell’invasione era fuori da ogni controllo, insomma, da tutti i disastri che ci avrebbe portato questa piaga purulenta detta immigrazione. Certo che di questioni aperte c’erano e ce ne sono (quando mai sono mancate a scuola), ma ciò che mi colpiva è come la quotidianità nella quale mi trovavo (istituti tecnici e professionali con un alto numero di immigrati, un quartiere assolutamente multietnico, un’ esperienza significativa di tre figli in scuole fortemente multietniche) mi parlava di un mondo dove la speranza e il progredire dell’integrazione era evidente in casi incalcolabilmente più abbondanti delle cosiddette questioni critiche. Insomma, a fronte di una storia relativamente breve dello straniere a scuola, trenta, quaranta anni, a me pareva – e pare tutt’ora -, che se c’era un luogo dove l’integrazione progrediva spedita, quello era proprio la normalità della vita scolastica, mentre nel senso comune, la percezione fosse alimentata dal veleno di un vocabolario osceno, dall’idea dello straniero, proprio di quello straniero finito sul giornale,  come prova provata della rovina dei tempi e della nazione anziché, come di fatto constatavo, di tutto il resto di quella nuova umanità nella quale, ogni mattina, a scuola, a casa, nel quartiere, percepivo i segni di una nuova fioritura. O forse, semplicemente si trattava di quella storiella antica ma sempre vera dell’albero che cade e che fa più casino della foresta che in silenzio cresce.

 

Gli anni Venti

 

Negli ultimi dieci anni insegno sempre nella stessa scuola, un istituto con al suo interno vari indirizzi, dal liceo classico al liceo delle scienze umane ed economico sociale. Il mondo è cambiato in modo radicale da quel piccolo mondo antico delle mie elementari e medie a Viterbo, su questo ci faccio ogni anno una lezione a scuola, siamo in un tempo dove la frattura, il cambiamento epocale, è sotto gli occhi di tutti: «se dici a tuo nonno “taggami” che ti risponde?», inizio così quella lezione. Trentacinque? Quaranta anni? Uno sputo di storia. Eppure, lo dico con convinzione adamantina, è un mondo infinitamente più bello e sensato di quel piccolo mondo antico nel quale sono cresciuto io. In classe oramai ho stabilmente ragazzi e ragazze nate in Italia, ma con il cognome diverso come lo era il mio Contu quando ero proprio io la seconda generazione. Alcuni sono bravissimi, la ragazza di cui dicevo prima, il 100 del liceo classico e che sarà mia collega di Lettere spero prestissimo, un giorno, nel suo ultimo anno, quando io auguro buon primo voto a tutti in occasione dell’ultimo referendum, mi sorprende dicendomi: «ma io non voto prof, non ho ancora la cittadinanza». Quel giorno rimango muto, mi frigge la rabbia dentro e penso solo a che paese meschino, ottuso, cieco nonostante tutto continuiamo a volere essere. Nel frattempo, ci è nata una quarta figlia, anche lei frequenta nido e materna a Ponte San Giovanni, mi rendo conto come a cinque anni il fatto che i suoi amichetti e le sue amichette si chiamino Sara ma anche Kayla, Lorenzo ma anche Amir, Luca ma anche Eliot, sia per lei la cosa più pacifica del mondo, come la pioggia che cade all’ingiù. Vivo dal 2005 in un condominio multietnico, le scale a volte puzzano un po’ di cipolla, ma se per questo anche del torcolo umbro che fa mia moglie, e che, per quanto mi riguarda, ha un odore ben più nauseante della cipolla che preferisco di gran lunga. La scuola, le nuove generazioni, ragazze e ragazzi nata ormai negli anni Dieci del terzo millennio (in prima ci sono i 2011, e noi ancora stiamo a frignare sul Novecento e i bei tempi andati) vivono anche loro come un semplice e banale dato di realtà un Italia che finalmente, troppo tardi rispetto al resto d’Europa, s’è aperta al mondo. I problemi ci sono ogni giorno, la scuola, ogni mattina, riapre per risolverli ogni giorno, di più, spesso e volentieri ci riesce ogni giorno. Trentacinque? Quaranta anni? Uno sputo di storia.  Eppure, tutto sembra navighi contro, la politica, un senso comune che continua a generare paura, un tempo dove l’odio passa nelle parole (un giorno dovremo rendere conto dell’uso, anche su giornali illustri, di abomini come il termine “maranza” eletto a tipo umano), politici indegni che costruiscono consenso sulla condanna degli ultimi. Soprattutto, mi rendo conto che la reazione della maggior parte – io dico soprattutto adulti per non dire vecchi – di coloro che leggessero questa piccola storia fin qui raccontata sarebbe l’eccepire «sì, ma tu in quale mondo vivi e hai vissuto?». Non sarebbe troppo complicato rispondere: «vivo a scuola, dove stiamo costruendo, anzi, abbiamo già costruito, nonostante te che in fondo nemmeno te lo meriti, nonostante quello che ti dicono e leggi, nonostante questa politica misera, un mondo nuovo e infinitamente migliore per te, ma soprattutto per chi verrà dopo di te».

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STATI UNITI. “L’ICE funziona come un esercito di occupazione. Lo so perché ne ho fatto parte” - Rory Fanning

Gli elicotteri dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) sorvoleranno senza dubbio il mio quartiere in cerca di riparatori di tetti e giardinieri in questo “Veterans Day”, proprio come hanno fatto per settimane. Negli Stati Uniti, sei un bersaglio facile se hai la pelle scura e il tuo lavoro richiede di lavorare all’aperto.

La mia città, appena fuori Chicago, pullula di agenti o soldati dell’ICE (i due termini possono essere usati in modo intercambiabile) da settimane ormai. Di recente, due mamme, al freddo e con i loro fischietti, hanno aiutato a sorvegliare una squadra che lavorava su un tetto danneggiato dalla grandine. Gli agenti/soldati dell’ICE, vestiti con l’equipaggiamento militare completo, armati di armi semiautomatiche e con passamontagna per nascondere la loro identità, pattugliano su camion senza insegne – credo che ormai sappiamo tutti come riconoscerli.

 

Queste persone mi ricordano i soldati con cui ho pattugliato in Afghanistan, solo che l’agente medio dell’ICE ha meno addestramento del soldato medio. Sembra che ogni quartiere degli Stati Uniti sia ora soggetto a uno scontro armato e potenzialmente violento con le truppe federali. L’occupazione statunitense dell’Iraq e dell’Afghanistan ha chiuso il cerchio.

Analogamente a come ho terrorizzato i villaggi afghani durante il mio periodo nell’esercito dopo l’11 settembre, l’ICE ha terrorizzato la mia città. Quando ero nei Ranger dell’esercito americano, prendevamo di mira afghani in età da liceo e università. Il più delle volte, questi ragazzi stavano semplicemente camminando per strada, facendosi i fatti loro, quando venivano perquisiti, interrogati in modo intimidatorio o rapiti. Dopo un po’, gli afghani avvisavano i vicini ogni volta che la nostra carovana di camion entrava in una città – a volte usavano i fischietti. Gli abitanti del villaggio sparivano rapidamente e sembrava di attraversare una città fantasma. Questa, in parte, è la vita sotto occupazione.

Le forze di occupazione interne del regime di Trump sono in forte crescita

L’addestramento dell’ICE è stato ridotto di cinque settimane per “aumentare” il numero di truppe: l’addestramento dura ora otto settimane rispetto alle precedenti 13. L’amministrazione Trump spera di aumentare il numero di agenti dell’ICE da 6.500 a livello nazionale a 10.000 entro la fine del 2025. Un bonus alla firma di 50.000 dollari ha spinto 150.000 persone a candidarsi per posizioni presso l’ICE. Intanto, l’agenzia utilizza immagini nazionaliste bianche per attrarre reclute suprematiste bianche.

Agenti e soldati dell’ICE stanno occupando i quartieri degli Stati Uniti con alcune delle armi più letali al mondo, con solo otto settimane di addestramento e senza alcuna esperienza pregressa richiesta. Secondo un ex funzionario del Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) intervistato da NBC News, “[il DHS] sta cercando di far passare tutti, e il processo di selezione non è quello che dovrebbe essere”. Eppure, anche se il controllo fosse più rigoroso e approfondito, nessun addestramento può giustificare il terrore creato nei nostri vicini da parte di soldati armati.

 

La mia unità Ranger nell’esercito contava su alcuni dei soldati meglio addestrati al mondo. Eppure, ogni sei mesi circa perdevamo un soldato a causa di uno sparo accidentale. Un primo sergente della mia unità, considerato un soldato estremamente competente, sparò accidentalmente con il suo fucile M-4 all’interno di un elicottero Blackhawk. Il primo sergente perse il grado e fu espulso dai Ranger.
Anche Pat Tillman, l’ex giocatore di football professionista che si arruolò nell’esercito dopo l’11 settembre, era nella mia unità. Fu ucciso in un episodio di “fuoco amico” e la sua morte fu insabbiata lungo tutta la catena di comando di George W. Bush.

La stragrande maggioranza delle vittime della “guerra globale al terrore” degli Stati Uniti dopo l’11 settembre erano civili. “Danni collaterali”, è così che li chiamano. Ma in realtà, queste morti dovrebbero essere definite per quello che sono: grave imprudenza con armi mortali e un generale disprezzo per la vita umana. Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo sono morte per mano dei soldati statunitensi e dei loro leader. Non ci si può fidare nemmeno delle unità militari meglio addestrate per fare la cosa giusta. La “guerra globale al terrore” lo ha dimostrato.

Quindi, quando vedo agenti dell’ICE e poliziotti militarizzati armati di fucili d’assalto o di altre armi, mi rendo conto di quanto sia ingenuo e sciocco fidarsi di chi è armato dal governo degli Stati Uniti. Sta diventando sempre più evidente che agli agenti dell’ICE – vestiti ed equipaggiati come soldati – non dovrebbe essere permesso di avvicinarsi ai nostri quartieri, soprattutto se armati di armi d’assalto.

A ottobre, Miramar Martinez, residente a Chicago, è stata colpita cinque volte da un agente della Border Patrol (Polizia di Frontiera ndt). L’agente mascherato, il cui nome non è ancora stato reso pubblico, è fuggito nel Maine subito dopo l’aggressione. Secondo l’emittente locale della rete FOX News, l’uomo mascherato, pochi istanti prima di aprire il fuoco, ha puntato un fucile d’assalto contro Miramar e ha urlato: ” Fai qualcosa, puttana“.

Silverio Villegas-Gonzalez è stato colpito e ucciso da un agente/soldato dell’ICE in un altro sobborgo di Chicago a settembre.

Solo nelle ultime settimane abbiamo assistito a numerosi episodi che dimostrano quanto sia pericolosa questa banda mascherata di vigilanti.

Nel frattempo, Trump sta cercando di rendere la Guardia Nazionale complice di questa occupazione: finora ha schierato truppe a Washington, DC, Los Angeles, Chicago, Portland, Oregon e Memphis, Tennessee. Minaccia di schierarne ancora di più a Baltimora, New York, New Orleans, Oakland, San Francisco e St. Louis. Il Posse Comitatus Act impedisce alla Guardia Nazionale di essere impiegata in attività di polizia. Ma come ha documentato Democracy Docket , questa legge vecchia di 150 anni non ha fermato Trump, che è già stato rimproverato da un giudice federale che ha stabilito che la sua amministrazione ha violato il Posse Comitatus Act “utilizzando le truppe per assistere direttamente gli agenti federali che effettuavano arresti, istituendo perimetri e blocchi stradali per le operazioni di polizia e, in almeno due occasioni, per arrestare civili”.

Il morale nella Guardia Nazionale sta crollando. Documenti interni mostrano che l’esercito è consapevole che la propria missione è impopolare; un’istantanea di settembre ha rilevato che solo il 2% dei post sui social media analizzati esprimeva un giudizio positivo sul dispiegamento della Guardia Nazionale a Washington, mentre oltre il 53% dei post esprimeva un giudizio negativo. Questo offre un’opportunità a chiunque speri di convincere i membri della Guardia Nazionale a deporre le armi e a resistere alle richieste di Trump. Questi soldati hanno la responsabilità morale di rifiutare ordini illegali. È nostro dovere ricordarglielo: qualcosa da tenere a mente la prossima volta che parteciperete a una protesta o avrete l’opportunità di parlare con un membro della Guardia Nazionale in servizio attivo.

Gruppi di veterani come About Face e Veterans for Peace stanno facendo un lavoro fenomenale nell’incoraggiare i membri della Guardia Nazionale a resistere a Trump. Le proteste “Veters Say No” qui a Chicago e in altre città hanno attirato migliaia di persone. Questi gruppi stanno ricordando ai soldati che non sono soli, che gli Stati Uniti hanno una gloriosa tradizione di rifiuto degli ordini e che coraggio e onore a volte implicano dire di no agli ufficiali in comando.

Rifiutare il culto dell’“eroe”

Parlando con gli immigrati del mio quartiere, so che provano una paura simile a quella degli afghani che controllavo. Mi sono arruolato nell’esercito nel febbraio del 2002 pensando che avrei reso gli Stati Uniti più sicuri contribuendo a proteggerli da un altro attacco in stile 11 settembre. Ho imparato che gran parte di ciò che gli Stati Uniti stavano facendo in luoghi come l’Afghanistan stava rendendo il mondo un posto più pericoloso: sia occupando territori che non avrebbero dovuto invadere, sia uccidendo così tanti civili innocenti. Inoltre, era prevedibile che l’acritica venerazione per i soldati, trattati come eroi, che abbiamo visto dopo l’11 settembre avrebbe generato un pericoloso livello di sicurezza in coloro che portavano armi per conto del governo statunitense.

Divento sempre più arrabbiato e frustrato ad ogni “Veterans Day” che passa – questo è il mio ventesimo da quando ho lasciato i Rangers dell’esercito americano come obiettore di coscienza – perché diventa sempre più chiaro che il “Veterans Day” non è altro che un tentativo di nascondere il programma oppressivo e mortale della classe dirigente statunitense celebrando i nostri “eroi”. Gli eroi non uccidono civili innocenti, non si approfittano degli emarginati e non partecipano a missioni imperialiste progettate solo per arricchire i ricchi, vero? Se porti un’arma per conto del governo federale nel 2025, sei l’opposto di un eroe, nonostante le tue migliori intenzioni.

Non lo chiamo mai “Veterans Day”. Lo chiamo Armistice Day come lo chiamavamo negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale. Il Giorno dell’Armistizio doveva celebrare la fine della guerra, a differenza del Veterans Day, che sembra mirato a glorificare la guerra. Sono d’accordo con Kurt Vonnegut, che disse:

«Il Giorno dell’Armistizio è diventato il Giorno dei Veterani. Il Giorno dell’Armistizio era sacro. Il Giorno dei Veterani non lo è. Quindi mi getterò il Giorno dei Veterani alle spalle. Il Giorno dell’Armistizio lo conserverò. Non voglio buttare via nulla di sacro».

Ma in realtà questa giornata è più propriamente definita “Giornata degli occupanti”, un termine che descrive correttamente la minaccia che le nostre comunità negli Stati Uniti devono affrontare da parte di tutti coloro che portano un’arma per conto del governo statunitense.

Collettivamente, consideriamo questa giornata come un’opportunità per mantenere e accelerare la necessaria reazione per allontanare la mentalità imperialista che ha contagiato fin troppe persone in questo Paese. Nessuno è “illegale” e solo abolire l’ICE garantirà la sicurezza alle comunità. Dobbiamo smettere di celebrare gli occupanti, sia in patria che all’estero.


Fonte: https://truthout.org/articles/ice-is-functioning-like-an-occupying-army-i-know-because-i-served-in-one/

Traduzione a cura della redazione di Pagine Esteri


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martedì 9 dicembre 2025

L’imam Mohamed Shahin, noi, il maccartismo - Livio Pepino

Mohamed Shahin è l’imam della moschea di San Salvario a Torino. Residente in Italia dal 2004, è (anzi era, come si vedrà) titolare di un permesso di soggiorno di lungo periodo, ha moglie e due figli minorenni, è incensurato, è protagonista del dialogo interreligioso nel capoluogo piemontese, partecipa attivamente alla vita politica della città impegnandosi nella diffusione dei valori della Costituzione nella comunità musulmana e facendo della moschea un luogo aperto e di confronto. Sino a qualche anno fa è stato anche docente di “Lingua Araba” alla Scuola di Applicazione dell’Esercito di Torino. È tra i più autorevoli animatori delle manifestazioni cittadine contro il genocidio palestinese, punto di riferimento del movimento pro Pal.

Il 24 novembre scorso, mentre porta i figli a scuola, viene fermato da operatori di polizia e tradotto in Questura, dove gli è notificato un decreto di espulsione verso l’Egitto emesso dal ministro dell’interno “per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato” (con paralleli decreti di revoca del permesso di soggiorno e di accompagnamento alla frontiera). Nell’udienza di convalida dell’accompagnamento davanti al giudice di pace presenta richiesta di protezione internazionale, perché l’Egitto, considerate le sue prese di posizione contro il regime, non è per lui un paese “sicuro” (come non lo è stato, tra gli altri, per Giulio Regeni e di Patrick Zaki…). La richiesta sospende momentaneamente l’esecuzione dell’espulsione ma il questore, senza indicarne le ragioni, ne dispone il trattenimento, anziché nel CPR di Torino (città dove ci sono i suoi familiari e i suoi difensori), in quello di Caltanissetta, all’altro capo della penisola. Il trattenimento è convalidato dalla Corte d’appello di Torino e la richiesta di asilo è respinta, con inusitata rapidità, dalla Commissione territoriale di Siracusa. L’esecuzione dell’espulsione, ancora sospesa a causa dei ricorsi giurisdizionali proposti (che, peraltro, non hanno un effetto sospensivo automatico), è sempre in agguato e potrebbe intervenire a breve. E ciò nonostante una protesta corale che vede in primo piano esponenti di diverse chiese (tra cui il vescovo di Pinerolo), dell’associazionismo cittadino (a cominciare dall’Anpi e dalla Cgil), della società civile e del territorio di riferimento oltre che, evidentemente, dei movimenti di sostegno alla causa palestinese.

Ma che cosa ha fatto Shahin, di quali reati si è macchiato per incorrere in questo trattamento? L’espulsione è stata disposta, come si è detto, ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del Testo unico sull’immigrazione che la prevede “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato”. Ma quali siano questi motivi non è indicato nel decreto, che ne afferma apoditticamente la pericolosità, in considerazione del suo “percorso di radicalizzazione religiosa”, di “una ideologia fondamentalista di chiara matrice antisemita” e del suo ruolo di rilevo “in ambienti dell’Islam Radicale”. Di ciò, peraltro, non è fornito alcun serio riscontro. Il provvedimento, infatti, si limita a contestare a Shahin di avere incontrato due persone successivamente coinvolte in percorsi di estremizzazione (incontri, peraltro, intervenuti nel 2012 e nel 2018 – sic! – e ritenuti, allora, insignificanti), di avere partecipato a un blocco stradale durante una manifestazione per la Palestina e di avere, in un analogo contesto, svolto un intervento nel quale la dichiarazione di non essere favorevole alla violenza si accompagnava all’affermazione che “quanto successo il 7 ottobre” non è un atto di terrorismo ma di resistenza (almeno stando a una trascrizione dell’intervento in verità assai confusa e caratterizzata da evidenti errori). Il rilievo dei primi elementi come indici di una condotta lesiva della sicurezza dello Stato è all’evidenza nullo, ma egualmente inconferente è il terzo elemento ché, anche nell’interpretazione più radicale (e nient’affatto univoca) delle dichiarazioni in questione, intese come disconoscimento di un crimine di inaudita gravità, l’affermazione contestata è – e resta – un’opinione, per di più priva di ogni valenza istigatoria.

La conclusione è obbligata: il decreto di espulsione del ministro è un gesto di pura repressione del dissenso finalizzato a indebolire e criminalizzare il movimento di solidarietà al popolo palestinese. In una democrazia – lo abbiamo scritto infinite volte (https://volerelaluna.it/controcanto/2025/11/11/liberta-vigilata/) – le idee si confrontano, si discutono e, se del caso, si contestano ma non possono essere il presupposto per interventi repressivi di qualunque natura (in particolare amministrativa o giudiziaria). Ed è superfluo precisare che la libertà di parola è a tutela delle minoranze e del pensiero critico ché la maggioranza e il pensiero dominante non ne hanno, per definizione, bisogno. L’articolo 21 della Costituzione è chiaro: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. La libertà di parola e di espressione del pensiero non può, dunque, essere sottoposta a limiti se non quelli previsti dal diritto penale. Pretendere di contrastarla con strumenti amministrativi e, addirittura, con un provvedimento di espulsione è fuori dal sistema costituzionale. Ed è un segnale dei tempi bui in cui viviamo che ciò sia ignorato non solo dal ministro, ma anche dalla Corte d’appello di Torino che, nel decreto di convalida del trattenimento di Shahin, si spinge a indicare come inaccettabile “la possibilità che le parole e la loro diffusione creino disordine e instabilità“. Sono proprio queste le parole tutelate dalla Carta fondamentale, non certo quelle a sostegno dell’ordine costituito e della stabilità del sistema. La libertà di espressione del pensiero infatti, ieri come oggi, serve – come è stato scritto da un illustre penalista – “a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio e osannare il Re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più”.

Ad essere sotto attacco, in questa vicenda, è ovviamente la libertà dell’imam torinese, ma, con essa, anche i diritti di tutti, già fortemente compressi con l’ultimo “decreto sicurezza”, confluito nella legge n. 80/2025 (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/05/02/237-professori-di-diritto-pubblico-il-decreto-sicurezza-viola-la-costituzione/ ). C’è, peraltro, un ulteriore elemento specifico che riguarda la questione palestinese. Il sostegno alla causa della popolazione di Gaza e della Cisgiordania è guardato con sfavore e, talora, represso duramente nell’intero Occidente, dagli Stati Uniti all’Inghilterra e alla Germania. Ciò accade anche in Italia, mediante evidenti discriminazioni culturali e provvedimenti amministrativi come l’espulsione di Mohamed Shahin, e rischia di essere ulteriormente incentivato con interventi legislativi oggetto di proposte di diversa provenienza che non solo prevedono l’adozione, a tutti gli effetti, della controversa definizione operativa di antisemitismo approvata dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/07/25/antisemitismo-e-dintorni-vietato-pensare/) – disegno di legge n. 1722/Senato, d’iniziativa del sen. Delrio e altri – ma addirittura si spingono a introdurre la criminalizzazione delle “manifestazioni di antisionismo” e della “negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele” (disegno di legge n. 1627/S d’iniziativa del senatore Gasparri). Difficile non vedere in questo insieme di provvedimenti e proposte i segnali di un nuovo maccartismo, particolarmente pericoloso per la sua connessione con i venti di guerra che soffiano nel mondo.

La matrice è chiara e la si ritrova, per esempio, in una sorta di catechismo del fascismo “ad uso delle scuole e del popolo” edito dalla Libreria del Littorio nei primi anni del regime in cui si legge, tra l’altro, che “il concetto di libertà non può essere assoluto” e che “il concetto di Stato fascista urta contro il vecchio concetto di libertà, per cui un cittadino può tutto, perfino cospirare contro lo Stato, vilipendere le istituzioni e negare la Patria”. Il seguito è noto.

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