venerdì 4 ottobre 2024

Ciao Alberto, a sarà dura!!

 

Nella tarda serata di ieri, giovedì 3 ottobre, ci ha lasciati Alberto Perino.

Ricordare la sua figura monumentale per la Valle di Susa e per tutto il Movimento No Tav è difficile in queste ore di estremo dolore. Il vuoto che ci lascia sarà incolmabile.

Una cosa però è certa: nel corso della sua vita ha saputo trasmettere a tutte e tutti noi la voglia di lottare contro ogni ingiustizia e devastazione ambientale. Se è da trent’anni che la Valsusa resiste è anche e soprattutto merito suo.

Oggi è un giorno di dolore, ma da domani il suo spirito continuerà a vivere in ogni lotta per la salvaguardia della nostra amata terra.

Tutto il movimento si stringe forte a Bianca e ai suoi famigliari in questo tragico momento. Come da volere del caro Alberto i funerali si svolgeranno in forma strettamente privata.

Nei prossimi giorni verrà organizzata una giornata per poterlo ricordare come meritava.

Pubblichiamo di seguito un contributo di Chiara Sasso, scrittrice e attivista No Tav nonché cugina di Alberto.

 

 


“Bertino”, per noi famigliari, per chi ha vissuto con lui nel burg dle ciòché per tutti gli amici che hanno conosciuto Alberto Perino in tempi passati, quelli legati alla sua vita trascorsa a Bussoleno, ai suoi impegni antimilitaristi. Con Bianca condivideva anche la passione della montagna, le gite al Rocciamelone, la montagna sacra che governa la valle. Erano tempi quelli delle stelle alpine trovate sui sentieri, insieme al genepy scovato fra le rocce in luoghi impervi. Due simboli che bene lo rappresentano. La montagna vissuta come un prolungamento di casa, A Bessen Haut con don Oreste Cantore l’assistente spirituale della GIAC Gioventù italiana di azione cattolica, “una bella figura di uomo e di prete, con una generosità incredibile”. Cosi Alberto lo definirà ripescandolo dai ricordi, con lui e con altri volontari ha partecipato alla creazione e al funzionamento di colonie alpine per i ragazzi. “Un’esperienza che mi ha insegnato a lavorare manualmente, rendendomi quasi autonomo alle manutenzioni della casa”. I suoi studi di ragioneria non lo appagavano anche se nella vita è stato impiegato in banca, ma subito coprendo anche il ruolo di sindacalista segretario generale dei bancari della Cisl della provincia di Torino. I pranzi della domenica dalla madre lo vedeva raccontare con enfasi le risse all’interno del sindacato (che lo portò ad allontanarsi nel 1982). Lui grande interprete di copioni diversi amava raccontare attraversando a grandi passi il parquet di legno tirato a lucido del salotto, noi pubblico adorante per le sue performance ridevamo fino alle lacrime. E’ sempre stato così univa l’impegno più totale e sfrenato con una dose enorme di ironia e sarcasmo capace di riposizionane qualunque tema trattato nella giusta cornice.

Negli anni Settanta si sposa con Bianca e si trasferisce a Condove dove incontra Achille Croce, un operaio con una cultura umanistica fuori dal comune, grande cultore della nonviolenza. Con lui Alberto si avvicina all’antimilitarismo, al pacifismo e al vegetarianesimo (lo sarà fino alla fine della sua vita), con lui e altri amici fonda il Gruppo Valsusino di Azione Nonviolenta. Uno dei primi nati gruppi in Italia impegnati sul fronte dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Bertino aveva fatto il servizio militare e si era autodenunciato partecipando ad una manifestazione con un cartello al collo: “Ho fatto il servizio militare e mi vergogno” in solidarietà con gli obiettori di coscienza processati il 13 marzo 1971 e condannati dal tribunale militare di Torino. La polizia aveva strappato il cartello, e poi lo aveva denunciato e processato per ‘vilipendio alle forze armate’. In prima istanza in corte d’assise era stato condannato a 8 mesi e 5 giorni, poi assolto in appello, perché il fatto non costituisce reato.

A Condove conosce e stringe amicizia con un altro grande prete, figura fondamentale per tutto il paese, don Giuseppe Viglongo, un prete operaio impegnato nel sociale, senza parrocchia, perché considerato scomodo dai vertici della Chiesa locale, impegnato con le ACLI a fianco del mondo operaio. Era un tempo quello dov’era possibile che nascessero in piccoli territori di provincia grandi azioni. Il 24 settembre 1970 i lavoratori delle Officine Moncenisio (che in passato facevano armi per la Marina militare) presentano una mozione nata da lunghe discussioni in fabbrica per opporsi alla costruzione delle armi in quanto strumenti di morte e violenza. La mozione era stata votata all’unanimità.

 All’inizio degli anni Novanta, con l’apporto fondamentale di un gruppo di amici e tecnici (professori del Politecnico di Torino, esperti in autostrade, ingegneri ambientali ecc.) fonda l “Comitato Habitat” che si prefiggeva il compito di essere di supporto e consulenza alle amministrazioni locali per contrastare le grandi opere. Inizia la grande storia dell’opposizione al Tav una lotta che dura da oltre trent’anni. Alberto Perino viene definito il portavoce, il leader, ma lui non accetterà mai questa definizione. Certo il suo modo di stare sulla scena, la sua fisicità, il fatto che non si risparmiava mai di accollarsi ogni tipo di impegno lo fa notare più di altri. Il suo merito sicuramente è stato quello di aver unito le diverse anime del movimento, aveva una autorevolezza naturale che si coglieva fisicamente.

Negli anni, come altri militanti notav, anche lui subisce perquisizioni, e denunce. Per un caso della vita torna anche l’accusa di ‘vilipendio alle forze armate’, perché in una intervista apparsa sul quotidiano La Stampa nel 2011 aveva dichiarato che “i vecchi del paese dicono che adesso quello che stanno facendo le truppe di occupazione italiane nella Val di Susa è peggiore di ciò che hanno fatto le truppe nazifasciste, perché i nazisti non avevano mai chiuso le strade o obbligato a presentare i documenti per andare lavorare la vigna”. Ad Alberto non si deve solo lo straordinario lavoro, di carte, di ricerca, di presenza ai presidi, alle manifestazioni, alle interminabili riunioni, si deve anche una certa leggerezza della lotta, un divertimento inserito in ogni situazione, cosa che ha permesso di portare avanti trent’anni di impegno. Ha saputo traghettare momenti difficili facendo convergere le anime diverse del movimento, il suo motto era: “cerchiamo quello che ci unisce e non quello che ci divide”. I nemici sono altri.

 Fino all’ultimo ha messo la sua vita a disposizione. La email che ha inviato pochi giorni fa ai comitati assicurava la sua presenza (a costo di andare in ambulanza) domenica 13 ottobre al presidio di San Giuliano. Un testo che la dice lunga su quanto era disponibile a fare a mettersi in gioco. “Facciamo rumore” scrive. “Ormai è chiaro a tutti che gli espropri di Telt sono solo un’operazione mediatica per dire stiamo facendo qualcosa anche in Italia così Salvini è contento e un po’ di soldi continuano a darglieli. Dobbiamo trasformarla anche noi in una operazione mediatica non usando le deleghe ma andando in tantissimi di persona a farci espropriare contando le piante facendo andare la cosa per le lunghe. Io stesso verrò a farmi espropriare con l’ambulanza, spero della Cri di Susa, con un trasporto privato che mi pagherò; perché così l’esproprio si può trasformare in un bell’ambaradan mediatico. Può anche essere che sia l’ultima occasione, per me, ormai bloccato a letto, di incontrare i carissimi compagni No Tav per salutarli. L’evento lo dobbiamo costruire bene. e se non fanno loro gli stronzi potremmo essere davvero in tantissimi. Se fanno gli stronzi si danno la zappa sui piedi. Diamoci da fare, io cerco di fare la mia parte e voi datevi da fare per la vostra parte tutti insieme faremo un bel botto mediatico”. Era capace di grande “spazzolate” ma anche di un amore immenso verso tutti. Le sue email corpo 18 risuoneranno per molto tempo come la sua voce in tutti noi. Facciamo rumore.

Chiara Sasso


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Il caporalato esiste a Bologna? Sì. E il padrone si chiama Poste Italiane

 

Il Movimento Lottiamo Insieme diffonde la lettera a cuore aperto di un rider della posta.

 Roma, 2 ottobre 2024

Il servizio postale costituisce un servizio pubblico e, in quanto tale, ogni anno viene finanziato pubblicamente con 262,4 milioni di euro. Non è accettabile che il denaro dei cittadini venga utilizzato per generare precarietà lavorativa e incertezze nel vissuto di migliaia di lavoratrici e lavoratori. Soprattutto giovani. Per non parlare dei disagi all’utenza causati dal continuo ricambio dei portalettere. Con l’obiettivo di informare e sensibilizzare la cittadinanza su quanto accade sistematicamente nella filiera del recapito di Poste Italiane, il Movimento Lottiamo Insieme intende dare visibilità alla lettera di Gabriele, uno dei tantissimi rider della posta, a cui va la nostra più sincera solidarietà.

 

 

Lettera di un postino precario a Bologna

 

Il caporalato esiste a Bologna? Sì. E il padrone si chiama Poste Italiane. Già! Il primo datore di lavoro in Italia, certificato “Top Employer” per il quinto anno consecutivo «grazie alle sue politiche di risorse umane e, in particolar modo, all’impegno rivolto al benessere dei dipendenti e delle loro famiglie», si legge in un comunicato aziendale. La realtà però è ben diversa, almeno per la parte più debole dei lavoratori. Quegli oltre 10 mila precari assunti ogni anno con contratti di pochi mesi, sottoposti a condizioni “extra-contrattuali” vergognose. Ma andiamo con ordine.

 

Dal primo febbraio 2024 sono stato assunto da Poste Italiane per tre mesi. Ho firmato un contratto di 36 ore settimanali, per 1.300 euro circa più buoni pasto. Non male, penserete voi. Ho lavorato un mese a Bologna, poi mi sono visto costretto a dare le dimissioni. E come me altre centinaia di lavoratrici e lavoratori in tutta Italia. In 35 anni non ho mai sperimentato una condizione lavorativa così vergognosa.

 

È giusto che si sappia: il postino precario lavora sotto ricatto, costretto a fare ore e ore di straordinari non pagati, a subire mobbing e pressioni psicologiche, a mettere a rischio la sicurezza propria e degli altri. Dopo soli tre giorni di affiancamento viene chiesto ai neoassunti di lavorare come se fossero postini esperti. Il che è ovviamente impossibile, perché le procedure da ricordare sono tante, la posta va lavorata prima e dopo la consegna (in gergo “gita”), la posta ordinaria va sommata a quella prioritaria e a quella a firma per cui si esce carichi come muli.

 

Le zone di consegna sono nuove, perciò, serve tempo per imparare i percorsi, inoltre spesso si viene assegnati dopo pochi giorni a zone diverse perché i precari fanno anche da tappabuchi per colmare esigenze di organico. I colleghi a tempo indeterminato, sottoposti a ben altri ritmi e condizioni lavorative, scommettono su chi “molla prima”. I capisquadra e i responsabili esercitano sui precari una certa pressione con minacce più o meno velate, del tipo «qua se non si migliora con le consegne non ti rinnovano», oppure «non guardare l’orario, vai avanti», o ancora «non vi posso autorizzare gli straordinari, la posta è quella e va consegnata. È normale rientrare più tardi all’inizio».

 

Tutto ciò significa lavorare almeno dieci ore al giorno in media, ma si arriva anche a dodici, sapendo che te ne verranno pagate solo sette. Significa essere sempre sotto pressione, di corsa, rischiare di farsi e fare male per consegnare di più e più in fretta. Significa essere costretti a compiere infrazioni e gesti poco sicuri. Significa saltare la pausa pranzo (che sarebbe di 15 minuti ma risulta impossibile farla). Significa offrire anche un servizio più scadente, perché ogni cosa diventa potenzialmente una perdita di tempo, un ostacolo. In pratica, non c’è alcuna corrispondenza tra quello che ci viene spiegato nei tre giorni iniziali di formazione sulla sicurezza e quanto, di fatto, ci viene poi richiesto. Un vero paradosso!

 

Nel solo mese di febbraio cinque neoassunti, me compreso, hanno dato le dimissioni dopo poche settimane. Il turnover è pazzesco, i ritmi sempre altissimi, le condizioni assurde. La cosa più inquietante di tutte è la normalizzazione di questa condizione indecente di sfruttamento e umiliazione continua.

 

Tutti nel centro promuovevano la narrazione del lavoro come sacrificio, veicolando una morale iper-lavorista funzionale alla perpetuazione del modello di sfruttamento stesso. «È normale all’inizio, poi ti abitui», una delle frasi motivazionali più ricorrenti nell’ambiente. Intanto «tieni botta, mi raccomando» e «resisti, poi andrà peggio perché andrà peggio, ma tu resisti», mi dicevano alcuni colleghi per confortarmi. E chi legittimamente si sottrae a queste dinamiche è un debole, uno che molla, un mantenuto.

 

I postini precari non hanno ovviamente alcun potere a disposizione, c’è un esercito di riserva pronto a sostituire chi non si adegua. Chi resta qui spera di lavorare almeno sei mesi per accedere alla graduatoria per una futura possibile assunzione a tempo indeterminato. Ma Poste può prorogare fino a dodici mesi, poi la stabilizzazione è tutt’altro che scontata.

 

In effetti, le opzioni per i precari sono due: ci si dimette ritenendo le condizioni inaccettabili, o si continua a testa bassa ingoiando tutto, nella speranza di essere riconfermati e un giorno assunti a tempo indeterminato. Così la macchina va avanti, nel silenzio generale, e nell’ignoranza dell’opinione pubblica che non sa cosa si cela dietro una cartolina pubblicitaria, un pacco o un quotidiano messo in buchetta.

 

Io stesso, determinato a non restare silente, sono rimasto senza energie e senza speranze in fretta. Il sindacato è poco presente e in molti casi connivente, attivare un percorso legale è lungo e costoso, dimettersi prima del tempo o fare meno lavoro fa ricadere le conseguenze su altri postini precari, quasi nessuno si lamenta o protesta per cui diventa molto difficile sottrarsi al meccanismo.

 

Ma la domanda di fondo è: per quale motivo un’azienda pubblica che dovrebbe svolgere un servizio pubblico opera come una multinazionale?

 

 

Il processo di privatizzazione va avanti da diversi anni e si presta ad un’accelerata. Con l’attuale governo il controllo pubblico si ridurrà al 51 per cento. Poste Italiane è una S.p.A. quotata in borsa, deve remunerare il capitale e spremere i dipendenti mica rispettare il diritto del lavoro e fornire servizi di qualità alla cittadinanza.

 

D’altra parte, i colossi di e-commerce e logistica dettano il modello in quanto clienti di Poste. In questo scenario sconcertante, è una vera fortuna che la scorsa primavera sia nato a Roma il Movimento Lottiamo Insieme delle lavoratrici e dei lavoratori precari di Poste Italiane, per dare voce e speranza a chi vive o subisce tali situazioni.

Carmine Pascale 

Movimento Lottiamo Insieme – movlottiamoinsieme@gmail.com

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giovedì 3 ottobre 2024

La nonviolenza è più forte del decreto. Il Movimento Nonviolento scrive al Senato prima del voto sul decreto anti-Gandhi

 – Al Presidente del Senato

– Ai Senatori e alle Senatrici di tutti i gruppi parlamentari

– Ai Senatori a vita

 

Egregi membri del Senato della Repubblica,

ci rivolgiamo a Voi che siete chiamati a discutere e votare il Ddl 1660 proveniente dalla Camera, il cosiddetto “Decreto Sicurezza” o peggio “anti-Gandhi”.

Noi rappresentiamo il Movimento Nonviolento (fondato nel 1962 dal filosofo Aldo Capitini) che storicamente si ispira, nei valori e nella pratica, alla nonviolenza gandhiana, appunto.

Siamo stati obiettori di coscienza al servizio militare, affrontando processi e carcere per affermare un principio inalienabile di coscienza, riconosciuto poi dalla Legge che ha accolto le nostre ragioni morali, istituendo il servizio civile alternativo.

Abbiamo sostenuto denunce e processi per “istigazione” per aver promosso e attuato la Campagna di obiezione di coscienza alle spese militari, l’obiezione fiscale, per cui abbiamo subito pignoramenti e sanzioni amministrative. Ma non ci siamo fermati, fino ad ottenere il riconoscimento con Sentenze della Corte Costituzionale, perché abbiamo preferito “pagare per la pace, anziché per la guerra”.

Siamo stati arrestati e processati per aver fermato, con blocchi ferroviari, treni che trasportavano armi nei teatri di guerra. Poi abbiamo ottenuto assoluzioni piene per aver agito per alti valori morali.

Abbiamo praticato la disobbedienza civile per impedire l’installazione dei missili a Comiso, che poi sono stati ritirati. Abbiamo bloccato l’entrata nella basi militari dove erano depositate armi nucleari. Abbiamo manifestato pacificamente davanti a tribunali e carceri militari, anche quando era vietato, salvo poi veder riconosciuto il nostro diritto democratico a farlo.

Abbiamo marciato nei territori militarizzati, violando il divieto di entrare nelle servitù militari.

Abbiamo bloccato il traffico ferroviario e stradale per protestare contro l’installazione delle centrali nucleari, che poi un referendum popolare ha eliminato, dandoci ragione.

 

Vi abbiamo raccontato brevemente la nostra storia, che è anche pratica attuale, per dirVi che nessun decreto fermerà mai la forza della nonviolenza che, come diceva Gandhi, è la forza più potente a disposizione dell’umanità (più potente della bomba atomica, perché l’atomica ha una forza distruttiva, mentre la nonviolenza ha una forza creatrice).

Il Decreto che Vi accingete a votare ha un carattere solo repressivo, aumentando le pene e introducendo nuovi reati: dimostra che chi l’ha concepito è mosso dalla paura. I regimi basati sulla paura, la violenza, lo stato di polizia, alla fine sono sempre crollati sotto la spinta dei popoli che si liberano. La storia di Gandhi e della nonviolenza lo sta a dimostrare.

Sappiate che mai nessuna legge, mai nessun carcere, ha fermato la forza attiva e liberatrice della nonviolenza dei forti. La disobbedienza civile, la non collaborazione, l’azione diretta nonviolenta, lo sciopero, il boicottaggio, l’obiezione di coscienza, sono immensamente più forti e puri di qualsiasi Decreto.

Vi auguriamo di votare in piena coscienza. Ed ora, buon voto a Voi.

Movimento Nonviolento


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Il ruolo degli Stati Uniti e di Israele nei governi dell’UE e della Francia - Thierry Meyssan

  

L’Unione Europea non è stata fondata dagli europei, ma dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, allo scopo di controllarli meglio. La Commissione Europea, che un tempo si chiamava Alta Autorità, è l’amministrazione non-eletta cui è affidato il compito d’imporre la volontà degli anglosassoni ai Paesi membri. Negli ultimi anni è riuscita a estendere le proprie prerogative a scapito della sovranità degli Stati membri, senza tuttavia modificare i Trattati. Nella stessa ottica, il primo ministro Michel Barnier introduce nel governo francese i Democratici statunitensi e la fazione fascista di Israele.

 

 

In Francia e nell’Unione europea il ruolo e la responsabilità degli Stati membri sono stati progressivamente messi in discussione. Negli ultimi cinque anni molti poteri degli Stati membri sono stati trasferiti alla Commissione Europea, senza alcuna modifica ai Trattati europei.

 

L’origine della Commissione Europea

È bene innanzitutto ricordare che l’Unione Europea è il risultato di un processo ideato dagli anglosassoni alla fine del 1942. L’ammiraglio William Leahy, capo di stato-maggiore delle forze armate statunitensi ed ex ambasciatore a Vichy fino a maggio 1942, istituì ad Algeri un Governo miliare alleato dei territori occupati (Allied Military Government of Occupied Territories – AMGOT) per la Francia, guidato da François Darlan, poi dal generale Henri Giraud. Esso applicava le leggi di Vichy, ma non riconosceva l’autorità di Charles De Gaulle a Londra.

Charles De Gaulle, convinto che inglesi e statunitensi non avessero diritto di occupare la Francia più di quanto ne avessero i nazisti, vi si oppose fermamente: da qui la sua contrarietà allo sbarco in Normandia [1]. Sicché l’AMGOT poté essere instaurato in Germania, Austria e Giappone, Italia, ma non, come previsto, in Norvegia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Belgio, Danimarca e Francia.

Alla luce di questo fallimento, gli anglosassoni cercarono una forma di governo che permettesse loro di controllare comunque il mondo nel suo complesso, secondo il comune desiderio espresso nella Conferenza Atlantica.

Alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e il Regno Unito si divisero il mondo. Churchill ipotizzò di raggruppare Germania Ovest, Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi in un’organizzazione sovranazionale, la Comunità economia europea (CEE). Essa doveva sostituirsi all’AMGOT (che perdurava in Germania e Italia) per concretizzare il principio della libera circolazione di persone, servizi e capitali, in linea con la strategia anglosassone del libero scambio. Gli Stati Uniti vincolarono i prestiti del Piano Marshall all’obbligo di adesione di questi Paesi alla CEE.

L’MI6 britannico creò la Lega europea per la cooperazione economica (European League for European Cooperation, ELEC), mentre la CIA finanziò l’Unione europea dei federalisti (UEF) e creò il Comitato americano per l’Europa unita (ACUE).

Il primo presidente dell’Alta autorità della CEE, antenata della Commissione dell’Unione europea, fu il tedesco Walter Hallstein (1958-1967). Questo giurista nazista creò il Neuordnung Europas (Nuovo ordine europeo) per il führer Adolf Hitler: l’idea era sostituire gli Stati-nazione con strutture etniche regionali, estendendo al tempo stesso il Reich a tutte le popolazioni di lingua tedesca e svuotandone lo spazio vitale dalle popolazioni autoctone. Dovendo solo gestire per gli anglosassoni una parte dell’Europa, Walter Hallstein non dovette affrontare le questioni dell’espansione della Germania né quella dell’espulsione o sterminio delle popolazioni slave. Per precauzione, gli anglosassoni lo neutralizzarono sottraendogli la politica di regionalizzazione, che affidarono al Consiglio d’Europa.

Nel corso di tutta la loro storia, l’Alta Autorità e la sua erede, la Commissione Europea, sono state solo interfacce civili tra la Nato (che sostituì l’AMGOT) e gli Stati membri. I primi funzionari provenivano dall’AMGOT di Germania e Italia. Durante la guerra ricevettero una formazione in materia di affari civili e militari in una dozzina di università americane.

È prerogativa di queste amministrazioni (non elette, ricordiamolo), e non del parlamento europeo (eletto), introdurre norme all’interno dell’Unione. Questo è un punto estremamente importante: l’Alta Autorità prima e la Commissione poi non hanno altro scopo che incorporare tutte le norme della Nato nelle leggi degli Stati membri. Il parlamento europeo è solo un organismo di registrazione delle decisioni dell’imperialismo anglosassone.

Oggi le imposizioni della Commissione spaziano dagli standard per la produzione di cioccolato (che sono esattamente quelli stabiliti dalla Nato per la tavoletta di cioccolato della razione del soldato) a quelli per la costruzione di determinate strade, al fine di consentire il passaggio dei carri armati dell’Alleanza.

 

La Commissione von der Leyen

Nel 2014 fu concordato che la presidenza della Commissione venisse attribuita al capolista del partito arrivato in testa alle elezioni del parlamento europeo. All’epoca si pensava che a spuntarla sarebbero stati o il Partito popolare europeo (PPE) o il Partito socialista europeo (PSE), che già si alternavano alla presidenza del parlamento. Così il PPE designò l’ex primo ministro lussemburghese Jean-Claude Junker, membro delle reti stay-behind della Nato (Gladio), che guidò la Commissione dal 2014 al 2019.

Nel 2019 la presidenza della Commissione sarebbe dovuta andare al cristiano-democratico Manfred Weber, che però si dimise, aprendo così la strada al social-democratico Frans Timmermans, ex ministro degli Esteri olandese, il cui partito era arrivato secondo alle elezioni del parlamento europeo. Ma Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia si opposero perché Timmermans, in veste di Commissario per il miglioramento della legislazione, le relazioni interistituzionali, lo Stato di diritto e la Carta dei diritti fondamentali, aveva ripetutamente accusato questi Paesi di tendenze autoritarie. La cancelliera tedesca Angela Merkel propose la sua beniamina, nonché ministra della Difesa, Ursula von der Leyen. Il presidente francese Emmanuel Macron sostenne Merkel, a condizione che la franco-statunitense Christine Lagarde [2] fosse nominata presidente della Banca Centrale Europea.

Nel discorso d’investitura, von der Leyen annunciò il proprio orientamento dichiarando: «La mia Commissione sarà una Commissione geopolitica». Questa frase non si riferisce al ruolo dell’Europa nelle relazioni internazionali, ma alla teoria del Lebensraum (spazio vitale), elaborata da Karl Haushofer per motivare la strategia di espansione territoriale della Germania nazista. Ursula von der Leyen creò immediatamente il Gruppo di coordinamento esterno (EXCO), che si riuniva ogni martedì a livello di consiglieri dei direttori generali e ogni mercoledì a livello di consiglieri di gabinetto dei commissari.

A marzo 2020, appena insediatasi, Ursula von der Leyen deve affrontare la crisi del Covid-19. La neo presidente elabora un programma di rilancio economico del valore di 2.018 miliardi di euro (di cui 800 presi a prestito), poi organizza l’acquisto congiunto di 4,6 miliardi di dosi di “vaccino”, per una spesa di altri 71 miliardi di euro (cioè 15 volte il costo di produzione). Infine introduce un passaporto sanitario europeo, l’EU Digital COVID Certificate, noto come Codice QR. Queste iniziative non rientrano tra i poteri attribuiti alla Commissione dai Trattati, eppure vengono accolte con favore da tutti gli Stati membri. E pensare che fino a questo momento la Germania si era sempre opposta con forza al principio del prestito comune.

Gli scienziati oggi ritengono che 2,8 miliardi di queste dosi non fossero vaccini, ma semplicemente farmaci a RNA messaggero, tra l’altro sperimentali.

La Corte di giustizia dell’Unione europea deplorerà la mancanza di trasparenza della Commissione nella stipula dei contratti di acquisto delle fiale anti-Covid. Tuttavia, nessuno dei procedimenti avviati per conoscere le trattative tra i laboratori farmaceutici e la signora von der Leyen hanno avuto esito. Suo marito, Heiko vor der Leyen, è stato nominato direttore medico di Orgenesis (società legata a uno dei produttori delle fiale), dove, in cambio di pochissimo del suo tempo, riceve uno stipendio esorbitante. Inoltre, secondo la Corte dei conti di Cipro, la commissaria alla Sanità, Stélla Kyriakídou, avrebbe ricevuto quattro milioni di euro tramite il marito, Kyriakos Kyriakídou.

Il 23 febbraio 2022 la Russia inizia l’«operazione militare speciale» per porre fine ai massacri perpetrati dai “nazionalisti integralisti” a danno delle popolazioni russe nel Donbass. La Nato considera l’ingresso dell’esercito russo in territorio ucraino un’aggressione, nonostante sia motivato dall’applicazione della risoluzione 2202 [dell’Onu] e dalla responsabilità di protezione. E l’Alto rappresentante nonché vicepresidente della Commissione Josep Borrell dichiara: «In questo momento sta nascendo l’Europa geopolitica».

La Commissione propone immediatamente pacchetti di misure coercitive contro la Russia e il Consiglio le adotta senza dibatterne: è la trasposizione nel diritto europeo di misure già adottate dagli Stati Uniti [3] e coordinate dall’ex ambasciatore di Washington a Mosca, Michael McFaul.

La Commissione propone anche un vasto programma di aiuti finanziari e militari all’Ucraina, elaborato da Björn Seibert, capo di gabinetto di Ursula von der Leyen nonché ex analista dell’American Enterprise Institute, in contatto costante con Washington. A oggi la Commissione ha mobilitato 88 miliardi di euro di aiuto finanziario a Kiev e 50 miliardi di euro in armi («Strumento per l’Ucraina»).

 

Il ruolo di Michel Barnier in Francia

Prima delle elezioni europee di giugno 2024 il presidente Emmanuel Macron propone a Michel Barnier di diventare primo ministro. Ma, quando la lista presidenziale ottiene solo il 15% dei voti, Macron scioglie l’Assemblea nazionale nella fondata speranza di ricostituire la propria maggioranza parlamentare. Tuttavia, nel giro di due giorni Jean-Luc Mélenchon riesce a riunire tutti i partiti di sinistra nel Nuovo Fronte Popolare. Al primo turno la lista presidenziale ottiene solo il 20% dei voti. Macron evita il peggio organizzando il Fronte Repubblicano contro il Rassemblement National di Marine Le Pen. Solo dopo due mesi di indugi Macron riesce a nominare Michel Barnier primo ministro.

Michel Barnier è un opportunista. Sostenitore del gollista Jacques Chaban-Delmas, nel 1977 lo tradisce per l’atlantista Valery Giscard d’Estaing. Sostenitore del neogollista Jacques Chirac, nel 1993 lo tradisce per l’atlantista Édouard Balladur. Nel 2007, nell’affare Clearstream 2 testimonia davanti al giudice Renaud Van Ruymbeke contro il gollista Dominique de Villepin e a favore dell’atlantista Nicolas Sarkozy.
L’unica costante della sua carriera politica è la partecipazione alla costruzione dell’Unione europea all’ombra di Washington e Londra. Dopo il respingimento per referendum della Costituzione Europea, Barnier entra nel Gruppo Amato, incaricato di redigere il Trattato di Lisbona che sarà imposto per via parlamentare. Negozia pazientemente con Londra i termini della Brexit perché è l’unico commissario europeo che conosce la storia della Ue e capisce la logica della volontà britannica.
Tuttavia, durante la campagna presidenziale francese del 2022 si inimica molti alti funzionari europei denunciando il modo in cui i suoi colleghi della Corte di giustizia della Ue hanno gestito per decenni le norme sull’immigrazione. Una presa di posizione inedita da parte sua.

Il 21 settembre l’Eliseo annuncia la composizione del governo di cui Barnier è primo ministro. Il capo del governo neoeletto si premura di far credere di esserne l’unico artefice e di non essere stato influenzato dal presidente Macron.
Non è ovviamente vero. Per esempio, Marc Ferracci, ministro delegato all’Industria ed ex compagno di studi di Macron a SciencesPo, fu testimone delle nozze di quest’ultimo, e viceversa. Il padre, Pierre Ferracci, partecipò alla Commissione per la liberazione della crescita francese (2007-2010), presieduta da Jacques Attali, di cui Macron fu relatore speciale. Ora dirige una rete per il ricollocamento degli alti funzionari temporaneamente messi da parte. La moglie del nuovo ministro, Sophie Ferracci, è stata capo dello staff di Macron al ministero dell’Economia, nonché al suo partito politico, En Marche. È stata ricollocata alla Caisse des dépôts et consignations; attualmente è presidente del Gruppo SOS di Jean-Marc Borello, amico di lunga data di Brigitte Macron.

Il governo Barnier è sotto l’egida dei Democratici statunitensi e dei sionisti revisionisti israeliani.

Il suo ministro degli Esteri Jean-Noël Barrot è l’erede di una lunga stirpe di democratico-cristiani. Il nonno, Noël Barrot, fu membro della Resistenza e deputato. Il padre, Jacques Barrot, fondò con Michel Barnier il circolo Dialogo e Iniziativa; è stato deputato, ministro, vicepresidente della Commissione Europea e persino membro del Consiglio costituzionale. La sorella, Hélène Barrot, dirige la comunicazione di Uber-Europe. Specialista di finanza, Jean-Noël Barrot è stato professore associato al Massachusetts Insitute of Technology (MIT), poi docente alla HEC [École des hautes études commerciales] di Parigi. È stato uno dei premiati del programma Young Leaders della French-American Foundation (anno 2020).

 

il tempo di assassinare Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah.

Il membro più sorprendente del governo Barnier è il ministro per l’Europa, Benjamin Haddad. La stampa ha rivelato il suo ruolo nell’Atlantic Council, dunque al servizio di Washington. È stato anche alto funzionario del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), dove ha difeso le posizioni di Stati Uniti e Israele.
Ma la cosa più importante è altra: ha lavorato a lungo nel Tikvah Fund, che si presenta come un’associazione americana di educazione ebraica, ma in realtà è un’associazione di “sionisti revisionisti”, cioè di discepoli del fascista Vladimir Jabotinsky, il cui ritratto adorna le pareti di tutti i suoi edifici e le sue pubblicazioni. Il Tikvah Fund non è un’organizzazione filo-israeliana come le altre, ma promuove l’ideologia di Benjamin Netanyahu (il cui padre era segretario particolare di Jabotinsky) [4]. Ricordiamo che il primo ministro di Israele, David Ben-Gurion, vietò la sepoltura di Jabotinsky in Israele.
Secondo Haaretz, il Tikvah Fund, presieduto dal criminale statunitense Elliott Abrams [5], ha finanziato l’ascesa al potere di Benjamin Netanyahu e dei suoi alleati Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich [6].
Tre anni fa Benjamin Haddad spiegava che equiparare Hezbollah a un’organizzazione terrorista come Daesh, combattuta dall’organizzazione libanese e sostenuta invece da Israele, era un modo per ottenere l’appoggio degli europei [7].

 

Ecco i punti da ricordare:
• La Commissione Europea è l’erede dell’Alta Autorità della CEE, a sua volta erede dell’AMGOT, l’autorità militare di occupazione anglosassone.
• La Commissione europea quindi non è eletta, ma composta secondo i dettami degli anglosassoni. La sua unica funzione è far adottare agli Stati membri i precetti della Nato.
• Il governo Barnier è propaggine della Commissione. Ne fanno parte sia un ministro approvato dai Democratici statunitensi sia un ministro che rappresenta i sionisti revisionisti di Benjamin Netanyahu.

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mercoledì 2 ottobre 2024

Gaza: la distruzione di centinaia di chilometri quadrati di terreni agricoli... - Osservatorio Euro-Mediterraneo per i Diritti Umani

...da parte di Israele è espressione della sua insistenza nel commettere un Genocidio

Gli attuali attacchi militari israeliani hanno effetti dannosi sul suolo, l’aria, la qualità dell’acqua, i terreni agricoli, la salute pubblica e l’ambiente

 

Israele ha distrutto centinaia di chilometri quadrati di terra agricola, privando i palestinesi nella Striscia di Gaza settentrionale di terreni agricoli e risorse vitali per la sopravvivenza, il tutto a sostegno del suo blocco illegale della Striscia e delle rigide restrizioni all’ingresso di scorte alimentari per quasi un anno intero. Questa è un’espressione dell’insistenza di Israele nel commettere un Genocidio contro i palestinesi nell’enclave.

Questa distruzione fa parte di un piano israeliano più ampio che risale allo scorso ottobre. In base a questo piano, le forze israeliane hanno lavorato per rendere inutilizzabile quasi l’80% dei terreni agricoli nella Striscia di Gaza dall’uso da parte dei palestinesi, in preparazione della loro annessione forzata alla cosiddetta “zona cuscinetto” o spianandoli o distruggendoli con altri mezzi, come i bombardamenti, tutti in violazione del Diritto Internazionale.

Le forze israeliane hanno preso d’assalto l’area di Al-Shimaa a Beit Lahia, nel Nord di Gaza, martedì mattina presto (25 settembre 2024). Accompagnate da bulldozer militari, le forze hanno iniziato le loro operazioni di spianamento, distruggendo più di 500 chilometri quadrati di terreni agricoli appena ripiantati, che avrebbero dovuto soddisfare i bisogni delle persone che vivono nel Nord di Gaza, soggette a un assedio arbitrario e a una sistematica carestia da parte di Israele.

La distruzione israeliana di questi terreni agricoli, la maggior parte dei quali erano pieni di ortaggi, riflette l’insistenza di Israele nell’impedire al popolo palestinese di dipendere dal paniere alimentare agricolo della regione durante un periodo in cui sufficienti scorte di verdure e altri alimenti vengono tenute fuori dalla Striscia di Gaza settentrionale. Ciò ha portato a una grave carestia, al punto che una parte significativa della popolazione del Nord è stata costretta a mangiare foglie di alberi e a cuocere usando mangime per animali macinato al posto della farina.

Il contadino ventiquattrenne Yousef Saqr Abu Rabie di Beit Lahia ha raccontato delle ingenti perdite subite lunedì e martedì, 23-24 settembre, a seguito della distruzione di decine di chilometri quadrati di terreni a Nord della città. Abu Rabie ha dichiarato che, sebbene la sua terra sia al di fuori della “zona di sicurezza” istituita da Israele all’inizio della guerra, le operazioni di livellazione sono comunque avvenute e che i raccolti ora distrutti avevano prodotto frutta e verdura da cui la popolazione della Gaza settentrionale dipendeva, date le restrizioni di Israele all’ingresso di frutta e verdura nei mercati della Gaza settentrionale.

Come parte del suo Crimine di Genocidio, in corso dal 7 ottobre 2023, Israele ha lavorato nell’ultimo anno per distruggere sistematicamente ed ampiamente il paniere alimentare della Striscia di Gaza di frutta, verdura e carne, insieme a tutti gli altri componenti della produzione alimentare locale, oltre a bloccare l’ingresso di cibo e aiuti umanitari. Ciò ha provocato la carestia nella Striscia di Gaza.

Le forze israeliane hanno spianato o altrimenti distrutto tutti i terreni agricoli lungo la “barriera di sicurezza” che separa la Striscia di Gaza orientale e settentrionale a una profondità di quasi due chilometri, rimuovendo circa 96 chilometri quadrati in un chiaro tentativo di annetterli alla sua “zona cuscinetto”, in violazione del Diritto Internazionale. Una strada e una zona “cuscinetto” israeliane che dividono Gaza attraverso il suo centro, nel frattempo, e la creazione dell’Asse Netzarim di Israele per mantenere separate sezioni della Striscia, hanno provocato la distruzione di circa tre chilometri quadrati di terreni agricoli. Pertanto, i terreni agricoli distrutti da Israele per consentire la creazione delle sue aree “cuscinetto”, in particolare, rappresentano circa il 27,5% del territorio della Striscia di Gaza.

L’Esercito di Occupazione Israeliano ha lavorato per distruggere quasi tutti gli edifici e le strutture sulla stragrande maggioranza di queste terre, che ora si trovano all’interno della “zona cuscinetto” e sono interdette per residenti e agricoltori. Queste terre rappresentavano la maggior parte dei terreni agricoli nella Striscia di Gaza e includevano centinaia di fattorie costruite su centinaia di chilometri quadrati di terra che erano coltivati con verdura e frutta, così come centinaia di fattorie che allevavano pollame e bestiame.

Al di fuori di questa “zona cuscinetto”, ulteriore terreno è stato distrutto da incursioni israeliane o bombardamenti aerei e di artiglieria, con conseguente distruzione di almeno 34 chilometri quadrati di terreno agricolo e delle strade che lo servono. Ciò porta la percentuale totale di terreno distrutto nella Striscia di Gaza al 36,9%, ovvero oltre il 75% dell’area della Striscia designata per l’agricoltura.

Delle pochissime aree rimanenti destinate all’agricoltura, la maggior parte si trova nella regione di Al-Mawasi nella Striscia di Gaza meridionale, a Ovest di Khan Yunis, che ora ospita centinaia di migliaia di persone che sono state sfollate con la forza.

Oltre alla distruzione da parte di Israele di migliaia di fattorie, serre, pozzi d’acqua, cisterne e magazzini contenenti attrezzature agricole, il personale sul campo dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo ha registrato l’uccisione intenzionale di numerosi agricoltori mentre questi lavoravano o tentavano di accedere alle loro terre. Dall’inizio del Genocidio, l’esercito israeliano ha anche ucciso diversi pescatori e distrutto la maggior parte delle barche da pesca e dei porti di pesca nella Striscia di Gaza. Queste azioni hanno avuto un impatto negativo sulla disponibilità di cibo sano per oltre 2,2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia e si prevede che le ripercussioni di ciò dureranno per anni dopo il ritiro dell’esercito israeliano.

Gli agricoltori trovano difficile o impossibile accedere alle aree che sono state risparmiate dai bombardamenti israeliani, a causa dei continui bombardamenti e delle incursioni via terra in numerose aree. Inoltre, la mancanza di elettricità, la distruzione dei pozzi d’acqua e la scarsità di carburante rendono difficile coltivare nuove aree e irrigarle. Ciò accade mentre le forze dell’esercito israeliano impediscono alle forniture di aiuti di raggiungere i residenti e gli sfollati nella Striscia.

Gli attuali attacchi militari israeliani hanno effetti dannosi sul suolo, l’aria, la qualità dell’acqua, i terreni agricoli, la salute pubblica e l’ambiente. Questi effetti si aggravano nel tempo e, a un certo punto, potrebbero causare un aumento sorprendente del tasso di mortalità.

Il diritto umano riconosciuto a livello internazionale al cibo, all’acqua e ai servizi igienici è un diritto fondamentale che protegge la salute e la dignità della popolazione. Può essere realizzato solo se la comunità internazionale pone fine al Crimine di Genocidio di Israele; rimuove l’illegale blocco sulla Striscia di Gaza; e salva ciò che resta dell’enclave assediata, che è attualmente inabitabile su tutti i fronti. I ritardi causeranno un ulteriore deterioramento della Striscia, costeranno più vite civili e influenzeranno pesantemente le condizioni di salute delle persone.

La comunità internazionale deve agire rapidamente e con forza per porre fine al Crimine di Genocidio di Israele nella Striscia di Gaza, che comporta sia l’uccisione diretta, sia l’imposizione di condizioni di vita insopportabili al popolo palestinese lì presente. Israele sta tentando di privare i palestinesi di ogni speranza di sopravvivenza trasformando la Striscia in un luogo totalmente invivibile.

La comunità internazionale dovrebbe assicurarsi che gli aiuti umanitari, in particolare i generi alimentari e non alimentari di base necessari per rispondere alla crisi umanitaria in modo sicuro ed efficace, raggiungano rapidamente la Striscia di Gaza, in particolare la parte settentrionale della Striscia.

Per salvare la popolazione civile nella Striscia di Gaza dalla minaccia di ulteriori disastri sanitari, è necessario esercitare pressioni anche su Israele affinché consenta l’ingresso dei materiali necessari per la riparazione e il ripristino delle infrastrutture. Ciò include garantire che ci sia abbastanza carburante in entrata nel Territorio Palestinese Occupato per far funzionare gli impianti di desalinizzazione e i pozzi, tra le altre strutture idriche e igienico-sanitarie.


Traduzione di Benimino Rocchetto – Invictapalestina.org


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Il carceriere Sisi tiene Alaa in prigione - Enrico Campofreda

  


Doveva tornare in libertà Alaa Abdel Fattah, l’attivista e scrittore egiziano con nazionalità anche britannica, arrestato il 29 settembre 2019 con l’accusa di diffondere false notizie per mezzo di piattaforme social come Facebook. Ma i familiari - la madre Laila, la sorella Mona - hanno avuto l’amara sorpresa di un’ulteriore dilazione della carcerazione. Addirittura per due anni, visto che il Tribunale del Cairo non vuole includere il biennio di detenzione preventiva come parte della pena scontata. Si prospetta, dunque, uno scivolamento dell’arresto sino al gennaio 2027: due anni e tre mesi in più. Per il quarantaduenne è una beffa insostenibile che s’unisce al danno di veder trascorrere il tempo nelle tetre galere del regime di Al Sisi. Alaa aveva condiviso sul profilo Fb notizie sulle gravi violazioni dei diritti umani da parte del sistema poliziesco ripristinato e ampliato dal generale-golpista sin dall’estate 2013. A poco sono serviti gli inviti dello stesso ministro degli Esteri britannico David Lammy di rivedere la sentenza. Totalmente inascoltata risulta la campagna di sostegno ad Alaa - e a tutti i detenuti egiziani per presunti reati d’opinione che ammontano a decine di migliaia - lanciata da Ong dei diritti umani. La madre, una docente avanti con gli anni, ha promesso l’ennesimo sciopero della fame, ribadendo il sopruso del governo del Cairo e la complice protesta solo formale del governo di Londra che, a suo dire, non tutela un proprio cittadino. Del resto Sisi è da tempo ampiamente sostenuto dalla politica occidentale, che trova nel suo pugno di ferro contro gli oppositori interni (islamici e laici) un fattore di sicurezza come accadeva sotto i regimi di Sadat e Mubarak. In più il militare, che ha ordinato e coperto operazioni di eliminazione e sparizione di "elementi di disturbo" attuate dalla propria Intelligence come nel caso dell’omicidio Regeni, costituisce un pilastro per il riordino d’un Medioriente autoritario. Una regione modellata sull’asse di altri Paesi arabi interessati a simili sviluppi (le petromonarchie del Golfo votate ad affarismo e incremento bellico) e il riassetto coloniale imposto da Israele che sotterra l’irrisolta questione palestinese, assieme alle migliaia di cadaveri accumulati nei mesi di guerra nella Striscia di Gaza e ora in Libano.

https://enricocampofreda.blogspot.com/2024/10/il-carceriere-sisi-tiene-alaa-in.html

Crimini di guerra in Mozambico. Total sapeva? Qual è il ruolo di SACE? - ReCommon

  

Quello in Mozambico è uno dei tanti conflitti dimenticati. Fa nulla se negli ultimi quattro anni si sono contati oltre 4mila morti e circa un milione di sfollati. Ci troviamo nel nord del paese, a Cabo Delgado, dove gli attacchi degli insorgenti di matrice islamista hanno contribuito a devastare il tessuto sociale di una delle regioni più povere del Paese. Tante atrocità sono state commesse anche da chi li doveva contrastare, l’esercito mozambicano. Ma, secondo un’inchiesta del giornalista Alex Perry pubblicata di recente su Politico, anche il gigante fossile TotalEnergies avrebbe avuto un ruolo tutt’altro che secondario almeno in uno dei tragici eventi che hanno segnato gli ultimi anni. La multinazionale francese è molto attiva nella provincia di Cabo Delgado, perché lì e nei tratti di mare antistante c’è un mucchio di gas che fa gola agli europei e agli asiatici – anche la “nostra” Eni è ben presente con impianti offshore. 

 

In base alla ricostruzione di Perry, emergerebbe che TotalEnergies potesse essere a conoscenza di una strage compiuta dall’esercito mozambicano nell’estate del 2021. I fatti si sono svolti nei pressi del gigantesco impianto di gas Mozambique LNG di TotalEnergies, allora in fase di costruzione. Un’opera in cui non mancano gli interessi italiani, segnatamente dell’assicuratore pubblico SACE e della Cassa Depositi e Prestiti, nonché quelli di Saipem

I militari mozambicani hanno ammassato in alcuni container tra le 180 e le 250 persone, incluse donne e bambini. E le hanno torturate e trucidate, tanto che dopo circa tre mesi i sopravvissuti erano solo 26. Un atto di barbarie il cui legame con il progetto Mozambique LNG non pare casuale, tanto che per incastrare tutti i pezzi del puzzle Perry si è avvalso anche di informazioni recepite tramite una richiesta di accesso agli atti inoltrata da noi di ReCommon a Cassa Depositi e Prestiti (CDP).

 


 

La valutazione di impatto ambientale e sociale di CDP per finanziare il progetto Mozambique LNG si basava su quella di SACE, che copriva con una garanzia pubblica quei prestiti. Documento che non ci è stato ancora consegnato, nonostante una sentenza del TAR e una del Consiglio di Stato sanciscano, da oltre un anno, il nostro diritto ad accedervi.    

Scopri i dettagli dell'intera vicenda e la posizione di ReCommon sul nostro sito.  

In attesa di sviluppi sul fronte della giustizia amministrativa italiana, anche noi di ReCommon ci uniamo alle tante voci della società civile mozambicana e internazionale per chiedere che sia fatta piena luce sui fatti dell’estate 2021. Su quella che è stata tristemente ribattezzata la “strage dei container”.

 

Con determinazione,
il Collettivo di ReCommon

 

p.s. Per informarti e approfondire scopri la campagna NO AL GAS IN MOZAMBICO sul nostro sito.

martedì 1 ottobre 2024

Una facile profezia. La storica analisi di Hirsch jr. sulla scuola - Giovanni Carosotti

 

Nel 1997 e 1998, ormai quasi trent’anni fa, furono pubblicati i primi studi in cui si esprimeva grave preoccupazione nei confronti di un’azione politica che intendeva radicalmente trasformare, in senso anti culturale, la scuola pubblica italiana. Tra gli autori pochi insegnanti, a parte qualche lodevole eccezione (Fabrizio Polacco, La cultura a picco), che dovevano forse ancora rendersi conto di quanta determinazione si stava investendo per stravolgere il senso della loro professione. A farsi carico di questa denuncia furono importanti figure intellettuali, che avevano colto i pericoli di una strategia falsamente riformatrice i cui obiettivi rispondevano a criteri di dominio economico, e il cui interesse conseguente era dunque quello di indebolire il senso critico degli studenti, per renderli soggettività integrate in un sistema di valorizzazione, incapaci di una reale critica sistemica. Oltre al giustamente famoso Segmenti e bastoncini di Lucio Russo, l’altro testo decisivo fu La scuola sospesa di Giulio Ferroni. Ciò che colpisce in questi lavori è la capacità di intuire gli effetti deleteri di lungo e lunghissimo periodo di quelle scelte, che avrebbero investito non solo l’istituzione scolastica, ma l’intera società nel suo complesso, e reso sempre meno capace l’opinione pubblica di interfacciarsi in modo consapevole con le trasformazioni politico-economiche in atto, senza rendersi conto di quanto queste, in alcuni casi, andavano a contraddire lo stesso spirito fondativo della Costituzione repubblicana. Una serie di riflessioni che, rilette oggi (e giustamente nel 2016 Feltrinelli ha riedito il testo di Russo), sembrano profetiche; espresso in un periodo – è bene notarlo – in cui si dubitava che le intenzioni radicali della classe politica potessero avere ragione nei confronti di lavoratori intellettuali, i docenti, ancora pienamente consapevoli del valore culturale del proprio lavoro (e l’ultima dimostrazione di tale consapevolezza fu l’opposizione al cosiddetto “concorsone” voluto dal ministro Berlinguer).

Nello studio di Ferroni compariva anche il riferimento a una pubblicazione apparsa negli Stati Uniti appena l’anno precedente (E.D. Hirsch jr., The Schools We Need, and Why We Don’t Have Them, 1996) in cui l’Autore formulava un giudizio impietoso sulla scuola del suo paese, mostrando i danni che le riforme condizionate dal pensiero pedagogistico, del quale offriva un’importante ricostruzione storica, avevano prodotto sia sul piano cognitivo (un’ignoranza diffusa), sia su quello della giustizia sociale, inasprendo le disuguaglianze di partenza tra gli alunni.

E.D. Hirsch jr. non ha certo bisogno di presentazioni in Italia, conosciuto in particolare per il suo Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, uscito per i tipi de Il Mulino. Il riferimento di Ferroni a questo testo nel 1997 era importante, in quanto si poneva come monito per ciò che poteva verificarsi in Italia, se quelle politiche appena inaugurate fossero state proseguite. Chi lesse allora lo studio di Ferroni rimase profondamente colpito da questo riferimento, e il non poter disporre di una traduzione era avvertito come una profonda lacuna sul piano dell’informazione per chi intendeva opporsi alla deriva delle politiche scolastiche.

Oggi, nel 2024, lo studio di Hirsch jr. è finalmente disponibile in traduzione italiana (Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, Pistoia, editrice petite plaisance, 2024, euro 10 ), grazie al lodevole impegno dei docenti Paolo Di Remigio e Fausto Di Biase, dell’Università Gabriele D’Annunzio di Pescara. Sforzo notevole, perché il testo è complesso, di discreta mole e richiede un certo sforzo da parte del lettore. In particolare di quello italiano, in quanto al centro della trattazione sono le scuole primarie degli Stati Uniti agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, vittime di una didattica imposta dalla pseudo-scienza pedagogica, di cui si ricostruisce il percorso storico e le fondamenta teoriche.

Si potrebbe dubitare sull’utilità di una traduzione italiana che sembra ormai fuori tempo massimo. Nulla di più sbagliato. Il testo possiede a nostro parere una rilevante attualità, aumentata paradossalmente proprio in virtù degli anni trascorsi, e rappresenta anche un banco di prova per i docenti italiani, ormai rassegnati e, proprio per questo, poco inclini a ricostruire sul piano storico e sistemico le ragioni che hanno condotto al degrado della loro professione. Spesso critici verso i singoli provvedimenti (che a raffica ogni anno introducono riforme sempre più lesive per la loro libertà d’insegnamento e svilenti nei confronti della disciplina da loro insegnata), ma ormai poco capaci di comprenderli alla luce di un quadro storico e politico complessivo.

Lo studio di Hirsch richiede certo uno sforzo di concettualizzazione. Come detto, si concentra sulla scuola primaria; e, nelle pagine conclusive, spiega le ragioni di questa scelta, senza che ciò implichi l’irrilevanza di quanto sostenuto per i cicli scolastici successivi, che a cascata subiscono gli effetti del regresso cognitivo provocato all’inizio del percorso di studi. Proviamo ad argomentare come sia possibile trasporre quella situazione così peculiare alla nostra, e perché la distanza temporale in questo aiuti.

La grande strategia dei riformatori, e dei tecno-pedagogisti da cui i primi traggono i propri assunti teorici, è stata quella di non confrontarsi con le argomentazioni di tenore opposto, che mettevano in crisi la presunta scientificità di questo campo deteriore della pedagogia. Tale strategia in questi anni è stata così pervasiva, da indebolire in buona parte la consapevolezza, e la conseguente resistenza, da parte dei docenti; spesso rassegnati a lasciarsi imporre una metodologia didattica demagogica da Dirigenti Scolastici interessati a mostrarsi accondiscendenti alle prescrizioni ministeriali. Tanto che ormai, con un’impudenza intellettuale clamorosa, si smentiscono dati di fatto ed evidenze empiriche lampanti, come la perdita di conoscenze di base da parte delle nuove generazioni di studenti, o le fallace epistemologiche di questo falso “cognitivismo pedagogico”.

Hirsch jr. denuncia la «refrattarietà dei pedagogisti a sottoporre le loro teorie a una libera discussione pubblica», consapevoli che quanto sostengono non reggerebbe a un adeguato confronto intellettuale. La situazione che Hirsch jr. delinea non ci sembra molto distante da quella che attualmente vige anche da noi: «I professori di pedagogia godono di poca stima da parte dei loro colleghi dell’università. […] Ma questa disistima nei loro confronti è compensata dalla loro enorme influenza per quanto riguarda la formazione degli insegnanti e su quella ideologica nei confronti della politica scolastica». Con molta durezza – ed è bene sottolineare questo tono di giusto sdegno – viene descritta in fondo l’attuale situazione dei nuovi docenti, poiché «gli insegnanti che vogliono entrare nella scuola sono prigionieri costretti all’indottrinamento». Ciò che viene loro comunicato è difatti una pseudoscienza, che agisce elevando «le scoperte scientifiche problematiche ed ideologicamente gradite senza consenso al di sopra delle scoperte ideologicamente problematiche che hanno ottenuto consenso scientifico.» L’Autore tiene a ribadire il carattere intrinsecamente pluralistico del pensiero pedagogico, all’interno del quale non possono che convivere teorie concorrenti, nessuna delle quali può immaginare, in virtù di un’inesistente validazione scientifica, di esautorare quelle che propongono visioni alternative. Purché ovviamente tali teorie siano corrette in merito alla propria impostazione metodologica, caratteristica che, come vedremo, Hirsch jr. non può attribuire alla pedagogia tecnocratica. In fondo – e anche questo riflette una identica situazione che stiamo vivendo in Italia – tale corrente di pensiero non può fare altrimenti, in quanto contestare le loro teorie «sarebbe come mettere in dubbio l’identità della la stessa professione pedagogica». Con tutto ciò che ne conseguirebbe sul potere dei dipartimenti di Scienza della Formazione nel gestire e controllare la formazione degli insegnanti.

Ma in che cosa consiste questo inganno teoretico, e come può trovare consenso nonostante gli evidenti fallimenti sul piano dei risultati scolastici di cui è responsabile? Il pedagogismo adotta diverse strategie per ottenere risultati, in particolare – oltre a sottrarsi al confronto pubblico – quella di negare i propri insuccessi. Tanto che la colpa – precisa Hirsch jr. – viene sempre attribuita agli insegnanti, che eseguirebbero «impropriamente» i nuovi metodi; oppure a «condizioni esterne insuperabili». Per cui, nonostante i fallimenti, si prosegue a imporre sempre alla scuola la stessa «cura omeopatica». «Bisogna spezzare questo circolo di tossicodipendenza dottrinale», afferma Hirsch jr.

Il pensiero pedagogico dominante – che l’Autore fa risalire all’influenza del romanticismo europeo, che negli USA è stato radicalizzato da personalità come Emerson, Thoureau, Whitman, in opposizione alla tradizione illuministica di Jefferson, Madison, Milton – pretende di controllare le strategie dell’apprendimento, ma in realtà è profondamente anticognitivo. L’Autore sfida direttamente i pedagogisti sul loro terreno, affermando che in fondo loro sono estranei alla vera pedagogia, così come ad un’autentica psicologia, discipline che per essenza rifuggono da schematismi formali e dogmatici. Il concetto più infondato ­– manco a dirlo – è quello di competenza o, meglio, di «competenze di ordine superiore», che si realizzerebbero attraverso «l’apprendimento per scoperta» o «l’imparare a imparare». In realtà tali espressioni non hanno alcuna certezza scientifica: «L’aspetto interessante del pedagogismo è che prima i suoi teorici formulano gli scopi e i metodi, e successivamente reclutano e adattano le teorie correnti più a portata di mano per sostenerli.»

L’importanza delle competenze, che comprendono al loro interno il pensiero critico, il problem solving, le strategie metacognitive e l’apprendimento attivo, è che pretendono di assumere un’importanza superiore all’insegnamento dei contenuti particolari. Il fatto è – sottolinea Hirsch jr. – che è impossibile rendere quelle espressioni oggetti peculiari d’insegnamento se non attraverso lo studio dei contenuti disciplinari particolari. Ma non si tratta in questo caso del giochetto retorico dei pedagogisti che sottolineano il binomio inscindibile conoscenze-competenze, per ridurre le prime a pochi contenuti casuali scelti unicamente in vista dell’acquisizione delle seconde. Per insegnamento disciplinare Hirsch jr. intende uno studio compatto delle discipline, progressivo, fondato sull’esercizio e la ripetizione, senza le quali i contenuti non possono essere appresi («uno studio diacronico accuratamente controllato»). Ed è a partire da questa conoscenza di base che è poi possibile sviluppare capacità di ordine superiore. E tutto ciò è provato proprio dall’autentica ricerca psicologica e cognitiva; per esempio, un’abilità metacognitiva come conoscere una strategia e sapere quando è utile applicarla «si acquisisce dopo molta pratica ed esperienza e si è dimostrato che non è correttamente insegnabile con un’istruzione isolata.» Infatti sono più utili agli alunni «strategie particolari insegnate all’interno di un settore disciplinare, non strategie generiche per imparare a pensare.» Non a caso le scienze cognitive (oltre che all’esperienza concreta del lavoro docente) mostrano come «il semplice apprendimento di procedure formali non può portare alle competenze intellettuali». Infatti «gli alunni che hanno appena finito un corso semestrale di logica sono solo marginalmente più logici delle persone che non hanno studiato mai questa materia». Qui Hirsch jr. colpisce al cuore il presupposto metodologico della teoria delle competenze , quello della loro trasferibilità indipendentemente dal contesto disciplinare: «L’idea che la scuola possa inculcare abilità astratte, generali, per pensare, «accedere» e risolvere problemi, e che queste abilità possano essere di pronta applicazione al mondo reale è, francamente, un miraggio. È anche un miraggio la speranza che un’abilità di pensiero in un ambito possa essere trasferita ad altri ambiti con prontezza e attendibilità.» E ancora, in un’obiezione che diventa definitiva: «Nella psicologia cognitiva c’è molta evidenza, invero un consenso, sul fatto che le persone che sono capaci di pensiero indipendente sui problemi insoliti e che risolvono problemi estesi, pensano criticamente e apprendono per tutta la vita, sono, senza eccezione, persone bene informate. C’è anche forte evidenza che molti studenti diplomati di recente nelle nostre scuole non sono bene informati, che sono deboli nelle abilità generali di ordine superiore e che la loro istruzione è stata dominata a lungo da teorie antifattuali raccomandate come “riforme” per l’età dell’informazione.»

Di fronte a tanta chiarezza, perdono di senso le contrapposizioni retoriche di cui si fa scudo il pedagogismo (tradizionale-moderno, verbale-manipolativo, affrettato-evolutivamente appropriato, frammentario-integrato, noioso-interessante, irregimentato-personalizzato), così come espressioni vuote di contenuto come pagelle descrittive o narrative, o portfolio o imparare a imparare. In quest’ultimo caso Hirsch jr. denuncia il ragionamento analogico che pretende si possano acquisire in modo autonomo le abilità complesse, come avviene nel bambino per l’uso della lingua. Ma la scrittura alfabetica, così come gli elementi di base del sapere matematico, sono cognizioni di carattere culturale e non naturale e mai un individuo li imparerà autonomamente, incontrandole nel corso dell’esistenza per necessità pratica, Possono essere apprese esclusivamente attraverso l’insegnamento da parte di un docente, tramite un esercizio ripetuto di carattere cumulativo, che si sviluppa tantissimo nei primi anni di età, per poi rallentare. Se lo si tralascia a favore di un approccio spontaneo alla conoscenza, diventerà quasi impossibile colmare le lacune successivamente. Si tratta, in fondo, di pratiche (quelle spontaneistiche) che danneggiano l’allievo e non tengono conto – nonostante la presunzione psicologistica – delle diverse età evolutive. Sebbene siamo nel 1996, Hirsch jr. ne ha da dire anche ai teorici del non voto; in questo la giustificazione “scientifica” sarebbe che i «voti bassi avrebbero un’influenza negativa sul’autostima». «Tuttavia, come ha ricordato l’eminente psicologo Robin Dawes, quest’importanza attribuita all’autostima ha scarsa giustificazione empirica. Dawes ha mostrato l’assenza di correlazione […] tra l’autostima scolastica e il successo scolastico». Insomma, per comprendere l’inutilità e l’infondatezza dilettantistica di tante polemiche che stanno coinvolgendo la scuola italiana in quest’ultimo anno bastava avere a disposizione questo testo del 1996!

Non possiamo proseguire a illustrare la ricchezza di questo studio. Altre formule retoriche vengono smentite con pertinenza da Hirsch jr., come l’idea che l’insegnamento per argomenti sia inutile vista la veloce obsolescenza delle conoscenze acquisite ancora nella nuova realtà dell’informazione (nel 1996 non si parlava ancora di realtà informazionale). Concludiamo però quest’analisi con un riferimento rilevante. Apparentemente Hirsch non propone un’analisi politica a giustificare questa deriva; non si fa mai cenno al contesto neoliberista e alle ragioni economicistiche che sono alla base di questa tendenza riformatrice finalizzata a promuovere l’ignoranza tra le giovani generazioni. Vi è però coscienza di quanto l’approccio per competenze sia nella sua essenza manipolatoria: «L’ampiezza della conoscenza è un elemento essenziale del pensiero di ordine superiore […] Altrimenti, produrremo pensatori non critici, ma angusti, ignoranti, soggetti all’illusione e alla retorica.» Costante è in lui allora la preoccupazione per l’eguaglianza, che la scuola deve garantire e che diventa una sorta di cartina di tornasole per valutare il carattere realmente democratico della società di cui è parte. Il riferimento costante di Hirsch jr. è a Gramsci, più volte citato. È correttamente interpretato come una figura intellettuale che ha compreso con estrema lucidità quali siano i contenuti emancipativi, dal punto di vista delle relazioni di classe, che la scuola può offrire ai soggetti meno favoriti. E che ha compreso il carattere decisamente antiprogressista della pedagogia spontaneistica, tesa a evitare l’esercizio e lo sforzo, e che in questo modo contribuisce a inchiodare alle rispettive posizioni di partenza gli studenti. Da questo punto di vista risulta profondamente reazionaria la scelta dell’individualizzazione del rapporto pedagogico rispetto al lavoro con il gruppo classe, non a caso privilegiata dall’attuale esecutivo in Italia, peraltro in continuità con i precedenti: «Se la conoscenza condivisa è necessaria tra cittadini per capire i giornali e per capirsi l’un l’altro, allora, per lo stesso ragionamento, la conoscenza condivisa è necessaria anche tra i membri di una classe scolastica per capire l’insegnante e capirsi l’un l’altro. Ogni classe scolastica è una piccola società a sé, e la sua efficacia e imparzialità dipendono dalla piena partecipazione di tutti i suoi membriproprio come nella società più ampia.» L’individualizzazione del rapporto educativo, tesa a sviluppare unicamente le doti di partenza dell’allievo, di modo che la relazione educativa possa essere realizzata senza sforzo e quindi con piena partecipazione, è in realtà un pretesto per non risolvere le diverse opportunità dovute alle condizioni di partenza. Di modo che ciascuno è portato a sviluppare ciò per cui lo predispone il contesto familiare; una tale disparità può essere combattuta solo attraverso una rigorosa modalità di organizzazione scolastica, che garantisca a tutti l’accesso alla stessa conoscenza di base e ai principali contenuti culturali. È evidente, in questo caso, l’importanza della figura docente, la cui professionalità non consiste nel realizzare la propria azione didattica attraverso schemi invarianti, bensì nel coinvolgere gli alunni rispetto ai contenuti studiati. «Le materie disciplinari non sono attraenti e repulsive in se stesse, e […] un insegnante capace può rendere interessante quasi qualsiasi argomento e uno incapace può rendere noioso quasi qualsiasi argomento. […] In realtà, la polarizzazione fallace tra “noioso” e “interessante”, o quella tra “pertinente” e “non-pertinente” nasconde un pregiudizio antiintellettuale e antiteorico.» L’interesse, quindi, deve essere suscitato dall’esterno nei confronti del non conosciuto, come ha precisato in questi anni Biesta, e non confuso con il compiacimento per cui quanto studiato coincide già con il proprio limitato immaginario di partenza.

Risulta credo di assoluta evidenza la totale attualità del testo preso in esame; la coincidenza tra l’impostura pseudo scientifica che a più riprese Hirsch rivela e le teorie prevalenti nella presunta pedagogia oggi dominante nel nostro paese risulta tanto più drammatica quanto più si pensi ai tempi (1996) in cui queste critiche sono state formulate; circostanza che tanto rivela della mancanza di onesta intellettuale, di aperto confronto intellettuale, di neutralità del dibattito scientifico che caratterizza i drammatici tempi che stiamo vivendo.

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