Mentre la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza denuncia preoccupanti derive xenofobe e discriminatorie nelle forze dell’ordine del nostro Paese (https://volerelaluna.it/materiali/2024/10/24/rapporto-sul-razzismo-e-lintolleranza-in-italia/) e il presidente della Repubblica chiama il capo della Polizia per esprimere solidarietà e indignazione per l’affronto subito, arrivano di fronte ai giudici alcuni dei pestaggi di polizia intervenuti nei mesi scorsi nei confronti di liceali, universitari e (anche) docenti (https://volerelaluna.it/commenti/2024/03/13/il-colore-dei-manganelli/). Ciò avviene – almeno a Torino – con una richiesta di totale archiviazione, secondo un copione che, per la Procura torinese, è da anni una regola.
Cominciamo dai fatti. Tutto accade il 5 dicembre dell’anno scorso davanti al Campus Einaudi. L’occasione è un provocatorio tentativo di volantinaggio da parte di uno sparuto gruppo di attivisti del Fuan (pratica sempre più frequente nel Paese governato dalla destra), contestato da studenti e studentesse antifascisti, con la polizia che interviene in forze per evitare il contatto tra i due gruppi. La contrapposizione si protrae per poco più di un’ora, con grida, proteste e (saltuario) lancio di oggetti. Il tutto senza incidenti sino a quando gli esponenti neofascisti, non essendo riusciti nel loro intento, decidono i lasciare il campo. A questo punto, quando è ormai venuta meno – ammesso che fosse esistita in precedenza – ogni esigenza di tutela dell’ordine pubblico, si verificano, incomprensibilmente, tre cariche di polizia (non è chiaro se per scelta preordinata o per iniziativa autonoma degli agenti rimasti momentaneamente privi di comando:
https://torino.repubblica.it/cronaca/2023/12/05/news/lattine_di_coca_cola_e_tranci_di_pizza). Sta di fatto che, nelle
cariche, vengono colpite con manganellate una studentessa (con
conseguenti lesioni di una certa consistenza) e due docenti di Giurisprudenza (Alessandra
Algostino e Alice Cauduro) che, dopo essersi qualificate,
si erano interposte tra gli agenti e gli studenti per evitare
incidenti e che, a loro volta, riportano lesioni al capo e alle
braccia (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/12/07/antifascismo-e-repressione-il-barometro-non-segna-bel-tempo/).
A seguito
della querela proposta dalle interessate si apre un procedimento per lesioni a
carico di ignoti, nel quale l’audizione delle parti offese è delegato
alle stesse forze di polizia a cui appartengono gli agenti e i
funzionari il cui comportamento è oggetto di indagine (sic!).
La (temporanea) conclusione del procedimento è una richiesta di archiviazione,
sostenuta da 18 righe di reale motivazione (ché il resto –
secondo una prassi tanto costante quanto poco commendevole – è null’altro che
un lungo e acritico copia-incolla di due annotazioni di polizia). In esse –
premesso che le lesioni sono state prodotte nel corso di cariche di
alleggerimento spontanee intervenute dopo l’allontanamento del
gruppo dei neofascisti e mentre gli operatori di polizia si stavano
allontanando per salire sui mezzi – si sostiene che le cariche sono state
effettuate in risposta a condotte aggressive dei manifestanti (comprese le tre
querelanti) e che, conseguentemente, le azioni lesive degli agenti non sono
punibili perché integranti un’ipotesi di uso legittimo delle armi che potrebbe
essere degenerato, con riferimento alla sola studentessa, in un eccesso colposo
del quale non è, comunque, possibile identificare l’autore.
La vicenda,
seppur minore rispetto ad altre verificatesi negli ultimi tempi, è
paradigmatica ed espressiva di una cultura tuttora presente in ampi settori
della magistratura. Bastano, per descriverla, alcune domande. È normale che tutte le
indagini siano state demandate alla stessa forza di polizia a cui appartengono
gli agenti e i funzionari potenzialmente inquisiti e che
l’analisi delle sequenze video dei fatti (fondamentale per la ricostruzione
degli stessi e per la verifica della possibilità di identificare le persone in
essi coinvolti) non sia stata affidata a consulenti terzi? È
normale che, data la delicatezza della vicenda (riguardante i rapporti tra
autorità e cittadini), il pubblico
ministero non abbia proceduto personalmente neppure all’audizione
delle parti offese e ad eventuali confronti (indispensabili prima di
giungere alla apodittica conclusione che anche le querelanti erano incorse in
comportamenti legittimanti la reazione degli agenti)? È corretto che, nella
richiesta di archiviazione, si sia data per scontata la
legittimità delle cariche “di alleggerimento” senza un rigo
di motivazione sull’esistenza o meno
di possibili alternative (essendo pacifico in giurisprudenza
che, nella gestione dell’ordine pubblico, l’uso delle armi è l’extrema ratio e
deve, comunque, rispondere al principio di proporzione)? E,
ancora, è corretto
affermare, nella stessa richiesta, che
è impossibile identificare l’autore delle
manganellate senza aver fatto alcun tentativo di individuarlo (per
esempio con l’esame diretto dei funzionari e degli agenti coinvolti)?
Sono domande
che portano lontano.
L’articolo 16
del codice di procedura penale del 1930 disponeva che «non si procede
senza autorizzazione del Ministro della giustizia contro gli ufficiali od
agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o contro i militari in
servizio di pubblica sicurezza, per fatti compiuti in servizio e relativi
all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica». Per abolire
tale privilegio (rectius, garanzia di impunità) della polizia dovette
intervenire la Corte costituzionale che, con sentenza 18 giugno 1963, n.
94 ne dichiarò l’illegittimità. Ma i sostenitori
dell’impunità a prescindere non si persero d’animo. Si arrivò
così alla legge 22 maggio 1975 n. 152 (nota come “legge
Reale”) i cui articoli 27 e 28 stabilirono
che «qualora il procuratore della Repubblica abbia comunque notizia di
reati commessi da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia
giudiziaria o da militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti
in servizio e relativi all’uso delle armi o d’altro mezzo di coazione
fisica, informa nello stesso giorno il procuratore generale presso la corte
d’appello e compie nel frattempo esclusivamente gli atti urgenti, relativi alla
prova di reato, dei quali non è possibile il rinvio», con
connessa possibilità del procuratore generale di procedere ad avocazione
delle indagini. La norma non venne riprodotta nel codice di
procedura penale del 1989 ma oggi una previsione del tutto simile è
stata oggetto di due emendamenti all’articolo 15 del disegno di
legge n. 1660, allora in discussione alla
Camera, presentati dalla Lega (primi firmatari Iezzi e
Ravetto), nei quali si prevedeva che «qualora il pubblico
ministero riceva notizia» di reati commessi da forze dell’ordine in servizio di
pubblica sicurezza e relative all’uso improprio «delle armi o di altro mezzo di
coazione fisica», deve subito informare il procuratore generale presso la Corte
d’appello che, a sua volta, «informa il comando del corpo o il capo dell’ufficio
da cui dipendono i soggetti» affinché ne diano notizia agli indagati e
all’Avvocatura dello Stato, unica autorizzata alle indagini (sic!).
L’opzione
per l’impunità a prescindere degli operatori di polizia per
gli atti compiuti in servizio con armi o altri mezzi di coazione fisica è,
dunque, ricorrente nel nostro sistema, nonostante la chiara indicazione
di contenuta nella sentenza n. 341/1994 della Corte
costituzionale (dichiarativa dell’illegittimità del delitto di
oltraggio per contrasto con il principio di proporzionalità della
sanzione, nella parte in cui prevedeva la pena minima di sei mesi di
reclusione) in cui si legge: «Questo unicum, generato dal
codice penale del 1930, appare piuttosto come il prodotto della concezione
autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica
di quell’epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante,
concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla
Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e
società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura
degli interessi di quest’ultima». Un’opzione ricorrente, si è detto:
del legislatore, ma, come dimostra la richiesta di archiviazione in commento,
anche di molti pubblici ministeri.
Resta
l’auspicio che i giudici siano più rispettosi dei principi costituzionali di
uguaglianza e di obbligatorietà dell’azione penale e delle chiare indicazioni
della Corte costituzionale (almeno di quella di 30 anni fa…).
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