Dalla pandemia al riarmo europeo. Come il sistema neo-liberale riesce ad anestetizzare le masse?
Davanti al piano di riarmo da 800miliardi di euro c’è chi definendolo “solo un
primo passo”, rilancia e chiede “l’esercito europeo”. D’altronde “la pace è
forza” gli fa eco, pronta, la Von Der Leyen. Così attraverso un teatrino di
rilanci compulsivi si arriva nel giro di poche ore alla proposta del Ministero
dell’economia di un piano di mobilitazione il cui scopo è coinvolgere
l'industria privata, sfruttando le garanzie pubbliche (leggi: soldi dei
cittadini dal momento che non ci saranno sovvenzioni dell’ Europa). Già
Mussolini: “ Il nostro piano economico è dominato da una premessa: la
ineluttabilità della guerra”. Un brutto déjà vu? Proprio così. Tra gli anni ’20
e il ’33 Krupp imposta di sua iniziativa il riarmo della Germania, e insieme a
Thyssen (Thyssen & Krupp vi dice qualcosa?) e molti altri industriali
decidono di finanziare la prima “milizia totalitaria” e la campagna elettorale
dei nazisti. In Italia gli industriali e gli agrari della Valle Padana
finanziano i Fasci di combattimento e Mussolini dichiara che lo Stato è
incapace di gestire i publici servizi. Così industriali e banchieri
‘sponsorizzano’ la guerra: “20 milioni li dà l’Associazione Bancaria, 15 il
gruppo massone di Cesare Goldmann, altri la Confindustria e i signori della
carta, della gomma, dell’elettricità”, come racconta Giorgio Bocca in uno dei
suoi primi libri.
Il sospetto che l’Europa sia in mano a un manipolo di psicopatici, guerrafondai
senza scrupoli acquista sempre maggiore concretezza. Eppure nè a seguito di
questo sospetto né a seguito del dejavu, né di fronte alle ripetute violazioni
dello Stato di diritto e agli strappi alla Carta Costituzionale segue mai un’
autentica contestazione. Al massimo si levano singole voci, più o meno
autorevoli cui non fa mai seguito una forma di protesta strutturata e condivisa
che arriva a infiammare la comunità. Oggi “partono tutti incendiari e fieri ma
quando arrivano sono tutti pompieri”, per cui al massimo si condivide un post
sui social. Questo il gesto rivoluzionario più estremo: “L’ho postato su X”.
Viviamo un’atmosfera ovattata in cui ciò che accade pare non ci riguardi mai da
vicino. Neppure quando le restrizioni delle libertà sono state drammaticamente
limitanti, come è occorso durante la pandemia. Un’anestesia generalizzata ci
tiene in ostaggio. Non una narcosi vera e propria ma quel genere di anestesia
che in chirurgia viene denominata ‘sedo-analgesia’, per cui si versa in uno
stato soporoso in cui si è coscienti ma non del tutto, in cui non si connettono
più i fatti e le loro concause; determinando così la accettazione
incondizionata di tutto ciò che accade. Trionfo del torpore e glorificazione
dell’ottundimento. A riprova di ciò il forte incremento di analgesici oppioidi
e l’allarme degli esperti preoccupati dall’abuso e dal misuso che
determina una vera e propria dipendenza psicologica. Si riscontra infatti
una consistente percentuale di consumo anche in assenza di prescrizione medica
grazie alla loro semplice reperibilità.
Molto interessante è considerare l’inquietudine che sopravvive alla anestesia e
le modalità in cui questa viene lavorata dal sistema, anche presso il
cosiddetto “ mondo del dissenso” che la inscrive e la incornicia,
neutralizzandola, attraverso tutta una serie di concetti che di fatto altro non
fanno che depotenziarla.
Soggiogati dalla psicologia positiva, sembra si debba rispondere all’imperativo
categorico del benessere a tutti i costi. Si pensi ad esempio che gli
psichiatri americani che hanno curato il DSM (Manuale diagnostico e statistico
dei disturbi mentali) nella sua quinta edizione, hanno inserito il lutto in una
precisa categoria diagnostica, qualora persistano ancora “sintomi” dopo 12
mesi. Il ‘disturbo da lutto persistente e prolungato’ è descritto come
l’incapacità di superare il dolore per la morte della persona cara, sofferenza
accompagnata da pensieri fissi e ricordi della persona morta avuti quasi ogni
giorno dal momento della sua morte. Una condizione universale che riguarda
tutti gli esseri umani da che mondo è mondo, viene medicalizzata e patologizzata
come ostativa al funzionamento sociale del soggetto.
Oggi assistiamo infatti alla psicologizzazione di ogni forma di analisi: tutto
viene interpretato come caratteristica del sentire individuale, come ‘crescita
personale’. Se il lavoro è fonte di sofferenza non si fa un’analisi politica,
al massimo si fa un pò di Mindfulness, si lavora su sé stessi. Mettendo così a
punto e affinando di continuo nuove tecniche di adattamento. Ed ecco che qui
entra in gioco un concetto cardine: quello di ‘resilienza’. Mutuato dalla
fisica dei materiali, il concetto di resilienza implica una reificazione
dell’esistenza. Già di per sé questa analogia con materiali inorganici è
rivelatrice della reificazione che ‘gli eroici animi dei resilienti’ subiscono.
C’è un’ambiguità di fondo nel concetto di resilienza: assorbire lo shock,
adattarsi e infine accettare. Accettare le determinazioni politiche.
L’adattamento è un valore neoliberale. Le vite individuali devono adattarsi e
così essere normate, normalizzate. Secondo la definizione di un teorico
ordo-liberale governare oggi è una “tecnica di influenzamento, di conduzione
come sistema dolce di ricompense e punizioni”. Si governa attraverso la
libertà: il governato è condotto a far qualcosa, non è costretto. Nella
Governamentalità neoliberale manca la dimensione coercitiva del potere; anzi
fare in modo che ci sia la libertà è lo strumento per mezzo del quale si
impegnano i comportamenti, il mezzo attraverso il quale vengono disciplinati
gli individui. Il potere per funzionare nel neoliberismo ha bisogno di creare
alcune libertà presso coloro sui quali si esercita, diversamente sarebbe solo
violenza. Ecco a quale idea di potere è funzionale il concetto di ‘Resilienza’,
che si rivela il grande anestetico prescritto dal sistema neoliberista, che di
dispositivo in dispositivo piega la protesta e dalla piazza la porta in
consulenza dal coach.
Stabilito che il potere non è una cosa ma si trasferisce come un meccanismo,
Foucault parla di ‘diffusività del potere’ che si snoda in una catena
infinita di rapporti, suscitando una serie di dispositivi molto diversi tra
loro che rendono maggiormente invasivo il suo esercizio. Per intenderci il
Green pass era un dispositivo.
In quest’ottica sia la psicologia positiva, sia il coaching, ma anche i vari
guru e facilitatori che colorano la caleidoscopica galassia della new age,
abbracciando gli alberi mentre fanno ‘lievitare le coscienze’, possono essere
equiparati a dispositivi neoliberali che disinnescano e spengono ogni fermento
di protesta sociale, riconducendo tutto alla dimensione individuale. Si sottrae
così la protesta alla socialità, la si porta lontano dalle piazze. Si
ortopedizzano protesta e malcontento che vengono declinati unicamente nella
dimensione angusta dell’ego. Grazie anche alle “buone pratiche ” che ormai
debordano la dimensione psicologico-esistenziale per diventare diktat anche a
livello sociale e politico, vedi gli inviti a stili di vita sostenibili
generati dal capitalismo woke.
Si colga l’importante cambio di paradigma per cui “il potere non è più
trionfante ma sospettoso e modesto se confrontato ai rituali maestosi della
Sovranità”, scriveva Foucault. I dominati non sanno più di esserlo perché “il
potere non incatena più le forze ma cerca di piegarle”. Finchè può cerca di
piegarle. Sinora il neoliberismo infatti ha agito in una dimensione seduttiva e
ha articolato il potere tramite una serie di dispositivi ben congegnati. Però
se in una Europa ormai al collasso, le masse portate al culmine dall'
esasperazione e dall’ inflazione, da povertà e guerre, torneranno a protestare
e a riempire le piazze, allora cosa farà? A giudicare dai fatti in Romania e
dalle manifestazioni pro-Palestina represse con estrema violenza dalla polizia
in Germania, aspettiamoci l’annientamento brutale e violento tipico di ogni
regime totalitario. E’ proprio lì infatti che il neoliberismo mostra il suo
volto più autentico, per cui è lecito chiedersi se non sia forse proprio in
vista di un duro scopo repressivo che oggi si pensa alla creazione di un esercito
europeo.
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