Giorni fa la Grecia si è fermata per chiedere giustizia per il disastro di Tebi che, la notte tra il 28 febbraio e il primo marzo del 2023, provocò la morte di cinquantasette persone in uno scontro frontale tra un treno passeggeri partito da Atene e diretto a Salonicco e un treno merci che viaggiava sullo stesso binario in direzione opposta; il quotidiano raccontava che era in atto uno sciopero generale che stava coinvolgendo l’intero Paese perché, a due anni di distanza, non era ancora stato avviato un procedimento penale; non solo, il governo era accusato di non aver fatto abbastanza per far emergere la verità su cosa avvenne quella notte.
Le manifestazioni, che hanno registrato
pesanti scontri, sono state capaci di radunare centinaia di migliaia di
persone, forse un milione, se si sommano quelle svoltesi nelle altre principali
città greche a quella tenuta ad Atene.
Leggo esserci stati cortei in 361 località e
che le immagini trasmesse dalle tv elleniche hanno mostrato fiumi di persone
che protestavano; secondo il giornale di sinistra Efsyn, i raduni
di quel giorno sono stati “i più grandi nella storia del Paese”, mentre
l’emittente statale Ert ha riportato che raduni di sostegno
alla protesta sono stati organizzati dai greci della diaspora nelle città
di New York, Melbourne, Stoccolma e Copenaghen.
La giornata era iniziata con un Paese paralizzato:
trasporti via terra e via mare fermi, aerei rimasti a terra e stragrande
maggioranza di locali commerciali chiusi.
La mobilitazione di massa, alimentata dal risentimento
dell’opinione pubblica contro l’inazione del governo conservatore che nega
la propria responsabilità in una delle tragedie peggiori della storia della
Grecia, ha raccolto
studenti, lavoratori e famiglie con bambini al
seguito, riempito strade e piazze, mostrato striscioni con slogan tipo “Il loro
profitto, le nostre vite”, “Mai più Tebi” e, forse quello più usato, “Mi
manca l’ossigeno”.
“Mi manca l’ossigeno” è la frase pronunciata da una
ragazza poco prima di morire in uno dei vagoni del treno passeggeri, resa
pubblica dai media locali a gennaio suggerendo, tra le altre cose, che decine
di vittime potrebbero esser morte come la ragazza, a causa dell’incendio
divampato subito dopo lo scontro frontale fra i due treni.
Detto che le cose da chiarire sono veramente tante, a
iniziare da quanto riportato da swissinfo.ch , ossia che nel gennaio scorso una perizia
indipendente commissionata dall’Associazione dei familiari delle vittime ha
sostenuto che sul luogo dell’incidente è stata rinvenuta la presenza di alcuni
solventi chimici, come lo xilene, e che la stessa perizia ha sollevato
interrogativi sul treno merci e ha alimentato sui social media l’ipotesi
secondo la quale il mezzo avrebbe trasportato un carico non dichiarato di
materiale infiammabile di contrabbando che avrebbe causato il vasto incendio
dopo lo scontro dei treni… dicevo… detto questo, ho sentito il bisogno di
soffermarmi sulla frase pronunciata dalla povera ragazza, “Mi manca
l’ossigeno”.
È una frase che mi ha riportato alla mente un bel po’
di cose.
Nel 1829 Victor Hugo scrisse L’ultimo giorno
di un condannato a morte, libro che voleva spezzare una lancia a favore
dell’abolizione della pena di morte, anticipando quei temi sociali che
costituiranno gli elementi centrali delle opere dello scrittore francese.
Racconta di un uomo di cui non conosciamo né il nome né la colpa, che sta
aspettando il momento dell’esecuzione in una cella tetra e scura e, nell’inutile
attesa di una grazia che non verrà, nel suo ultimo giorno di vita decide di
ripercorrere la sua esistenza, raccontare il suo terrore, i suoi dolorosi
ricordi: “Fino alla condanna a morte, m’ero sentito respirare, palpitare,
vivere nello stesso spazio degli altri uomini; adesso distinguevo chiaramente
una barriera tra me e il mondo. Niente m’appariva più sotto lo stesso aspetto
di prima. Le ampie finestre luminose, il bel sole, il cielo puro, il
fiorellino, tutto era bianco, pallido, del colore d’un lenzuolo. Mi pareva che
gli uomini, le donne, i ragazzini che s’affollavano al mio passaggio, avessero
l’aria di tanti fantasmi”.
E così ho conferma di qualcosa di facilmente
immaginabile, che una volta condannati a morte viene a mancare il respiro.
Se qualche “spiritoso” suggerisse di attaccare a dei
respiratori questi condannati a morte per aiutarli, sappia che è già stato
pensato e realizzato, anche se non esattamente pensando a loro: “Vivo in un
mondo in cui quattordici persone condannate a morte a Taiwan […] sono state
uccise con un colpo di pistola mentre erano attaccate a dei respiratori così
che i loro organi potessero essere raccolti integri e trapiantati in Giappone”.
Lo racconta Ivan Illich a David Cayley nel libro Conversazioni
con Ivan Illich, edito per la prima volta nel 1922. Sono conversazioni,
appunto, in cui Illich si fa interrogare e s’interroga sui passaggi cruciali
della sua vita intellettuale, spaziando su tutti i temi di cui si è occupato
con eretica lucidità, dall’educazione alla storia, dal linguaggio all’ambiente,
alla medicina.
Altri condannati a morte ebbero a che fare con
particolari respiratori, e furono i soldati tedeschi che nella Prima guerra
mondiale fecero uso di maschere antigas: “[…] arrivò il gas a invadere le
trincee. Facemmo in tempo a indossare le maschere, ma quella di Middendorf era
guasta. Quando se ne accorse era troppo tardi, e prima che se la potesse
strappare e ne trovasse un’altra aveva già inspirato troppo gas e vomitava
sangue. Morì la mattina seguente, tutto nero e verde in viso. Aveva il collo
dilaniato dai graffi nel tentativo di liberarsi per respirare”.
Ce lo racconta Erich Maria Remarque nei Tre
camerati, un romanzo pubblicato per la prima volta in Germania nel 1936,
capace d’immergerci nella tragedia dei sopravvissuti “perseguitati” nel
quotidiano postbellico dall’immagine dei cadaveri dei loro compagni morti.
Si sa, respirare è vitale, ma da diverso tempo pare
non essere un esercizio da persona seria, e persino respirare un fiore potrebbe
risultare qualcosa di cui non essere particolarmente orgogliosi: “Io conosco un
pianeta su cui c’è un signor Chermisi. Non ha mai respirato un fiore. Non ha
mai guardato una stella. Non ha mai voluto bene a nessuno. Non fa altro che
addizioni. E tutto il giorno ripete […]: Io sono un uomo serio! Io sono un uomo
serio! E si gonfia di orgoglio”.
Sono parole tratte da Il piccolo principe,
un racconto pubblicato nel 1943, un’allegoria della società moderna e
contemporanea – l’autore è Antoine de Saint-Exupéry, nato in una famiglia
cattolica di nobili origini il quale, durante la Seconda guerra mondiale,
s’arruolerà nell’aeronautica militare francese.
Vi chiederete cosa c’entra tutto questo con la
tragedia greca.
Forse sbaglio, ma ripensando a chi, due secoli fa, ci
faceva mancare il respiro perché ci aveva condannato a morte; a chi, un secolo
fa, ci concedeva un po’ d’ossigeno unicamente per mantenere i nostri organi
integri così da poter trapiantarli; a chi, poco meno di un secolo fa, ci ha
fatto respirare gas velenosi in una guerra che non ci avrebbe portato in tasca
nulla e che chi aveva deciso di combattere s’era guardato bene dal praticarla
sui campi di battaglia; a chi, oltre ottant’anni fa, già provava a farci
sentire persone poco serie se ci fermavamo a respirare un fiore e non a far
addizioni magari per calcolare il capitale accumulato… bene, ripensando a tutto
questo, ho come l’impressione che la morte della povera ragazza che dice “Mi
manca l’ossigeno” e delle decine di altre persone coinvolte nel disastro di
Tebi, siano tutte collegate a questi stralci di storia, di letteratura: la
fretta di guadagnare quanto più possibile nel minor tempo possibile, il farlo
sempre e comunque sulla pelle di chi non riceverà un centesimo di questi
guadagni, la possibilità di decidere sui destini altrui senza che quest’ultimi
possano muovere un dito anche fosse solo per deviare leggermente il proprio
destino, mi sembrano un unico gigantesco comune denominatore delle tragedie che
subiamo da secoli in nome del Capitale perché, ricordiamocelo, anche i
criminali o presunti tali ai quali si somministra la pena capitale, sono frutto
di come s’è deciso di strutturare, organizzare e mantenere la società: “[…]
ogni società ha i criminali che si merita” – Riflessioni sulla pena di
morte di Albert Camus.
Aggiungo un’ultima cosa: forse sbaglio anche stavolta,
ma quando penso che, fra le tante cose che già ci hanno tolto o che pensano di
toglierci, non mi sembra si sia mai ipotizzato di eliminare le ferie d’agosto,
il Natale o la festività della domenica, non è perché si tema la discesa in
piazza di centinaia di migliaia di persone, è solo per via del bisogno che ha
il sistema di riprendersi i soldi dello stipendio che ci ha versato dopo averci
sfruttato per un mese, facendoceli spendere in un modo o nell’altro; insomma,
ci stanno tenendo in vita grazie al respiratore del consumismo, ma temo siano
pochi a essersene resi conto.
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