Come il Bartleby di Melville, alla chiamata in piazza di Michele Serra rispondo “Preferirei di no”. Perché nella migliore delle ipotesi il suo “Manifesto” di convocazione è un fervorino vuoto, zeppo solo di velleitaria retorica (un po’ come quelli che il padre di Enrico, detestabile per servile conformismo, rivolgeva allo zelante figliolo nel celebre Cuore deamicisiano), con l’unico riferimento valoriale a una libertà evocata in termini tanto generici da poter essere fatta propria da chiunque, persino dal pistolero hillbilly JD Vance nella sua reprimenda di Monaco. Nella peggiore perché suona come un orrendo grido di guerra, a sostegno delle recenti dissennate iniziative di un establishment europeo che sembra solo preoccupato di proseguire questo inutile massacro di giovani ucraini e di liquidare quell’embrione – giusto un minuscolo spiraglio – di dialogo tra Washington e Mosca. Dialogo tra due criminali, certo, ma ognuno carico di testate nucleari capaci di distruggere più volte il pianeta, per cui è comunque preferibile che si parlino piuttosto che si combattano a colpi di bombe atomiche.
L’Europa,
quella per cui valeva la pena mobilitarsi – non dico “morire”, parola d’ordine
di tutti i nazionalismi, locali o continentali, ma per lo meno sperare -,
non c’è più. Continuare a illudersi sulla sua presenza ricorda, penosamente,
quel fenomeno che in campo psichiatrico si chiama phantom limbo
syndrome, ovvero la “sindrome dell’arto fantasma”, e colpisce chi dopo
un’amputazione continua a percepire sensazioni tattili, dal prurito al tocco
leggero fino al dolore, come se il piede o il braccio mancanti fossero ancora
al loro posto. “L’Unione europea è cerebralmente defunta”, ha scritto in
questi giorni Lucio Caracciolo, uno che sa di cosa parla
contrariamente a chi si limita a discettare disteso in un’amaca. La sua leadership –
la peggiore di sempre -, non è stata nemmeno capace di cogliere la sfida
esistenziale che questa orribile guerra rappresenta per la sua sopravvivenza
come entità terza nel confronto tra due potenze imperiali declinanti (e per
questo tanto più pericolose). Non ha mosso un dito per impedire che scoppiasse
(ed era possibile e doveroso tentare). E in tre anni di massacro crescente non
ha preso un’iniziativa, non una sola, per affermare l’intelligenza dell’azione
diplomatica contro l’inerzia ottusa dello strepito delle armi.
Nell’illusione – rivelatasi falsa – che la potenza dell’impero (declinante)
americano avrebbe garantito la vittoria sull’impero (declinato) russo, e magari
la possibilità di appropriarsi delle risorse di questo, si è appiattita sul
pensiero (si fa per dire) e sulle
parole dei
vari Stoltenberg e Sullivan fino a confondersene. Ora che l’ombrello americano
è scomparso e che l’Atlantico da mare interno è diventato di colpo un oceano
immenso, si agita nel vuoto infilando a raffica una serie impressionante di
sproloqui e di atti mancati, come i summit di Parigi e soprattutto di Londra,
dove iconicamente l’Europa appariva come una sorta di bizzarro patchwork in
cui accanto a meno della metà dei suoi membri sedevano stati tipo il Canada la
Turchia o il Regno Unito post-brexit e individui come Rutte o altri ospiti non
paganti. Come se avessero ancora dietro di sé la potenza militare del Pentagono
e le risorse finanziarie dell’America, continuano quasi per riflesso pavloviano
a ripetere il vecchio tormentone del sostegno a Kiev “whenever it tekes”,
della inevitabile “vittoria finale”, dell’incrollabile resistenza… Prove
reiterate di inconsistenza e disordine mentale che giustificano la sarcastica
affermazione di un altro che sa di cosa parla, il generale Fabio Mini, il quale
così descrive la condizione di questa Europa mutilata tragicamente
inconsapevole della propria condizione: “Quella in corso tra Russia, Usa e Cina
sul tavolo verde ucraino è una sorta di partita a tressette col morto o una a
poker col ‘pollo’ e all’Europa toccano questi due ruoli. A tressette il morto
non gioca e neanche si siede al tavolo, a poker ‘se nella prima mezzora non hai
capito chi è il pollo vuol dire che sei tu’”.
Per non
parlare degli ineffabili opinion leader dei media mainstream,
quelli che ancora alla metà di febbraio, a giochi ormai fatti, avevano il
coraggio di scrivere che “Zelensky scommette sul collasso russo. L’economia di
Mosca comincia a scricchiolare” (così Anna Zafesova il 16 febbraio”). O che,
come gli editorialisti del “Foglio”, proclamavano il dovere di “sostenere Kiev
anche senza Trump”, denunciando “il disonore che si vede a occhio nudo” sul
volto di quanti non ci stanno. O chi ancora, come Mario Giro su “Domani”, si
confortava proclamando con toni stentorei che “i tre imperi sbagliano a
sottovalutare l’Ue”, e assomiglia tanto a chi, persosi al buio in un bosco
grida forte per farsi coraggio. Tutti insieme, politici e gazzettieri,
ricordano tristemente quel personaggio ariostesco che “del colpo non accorto,
andava combattendo, ed era morto”…
Dunque,
dovremmo impegnarci a ”vincere o morire” per quest’Europa che sta
deliberatamente e accanitamente rovesciando, ad uno ad uno, tutti i propri
principii fondativi (quelli, per intenderci, del “Manifesto di Ventotene”) per
seguire le alcinesche seduzioni della baronessina Ursula von der Leyen appena
uscita dal salotto di nonna Speranza col ghigno feroce in faccia e le braccia
colme di ordigni bellici a proclamare il folle progetto di militarizzazione
integrale del continente col suo ReArm Europe (che solo a
sentirlo pronunciare evoca stridor di denti), piano da 800 miliardi di euro in
armamenti, la sua “Banca del riarmo”, le sue orrifiche immagini di istrici
d’acciaio e di debiti fuori bilancio purché finalizzati alla distruzione.
Quest’Europa che aveva rifiutato come la peste gli EuroBond necessari a
difendere quel che restava del suo welfare ma che accetta
senza batter ciglio gli EuroBomb necessari a finanziare il futuro warfare.
La stessa Europa che concepisce la folle idea di sequestrare i conti russi depositati
nella sue banche rischiando di sfasciare l’intero sistema bancario globale. E
che da tre anni ha continuato a imporre sanzioni boomerang che ne hanno
strangolato l’economia e disseccato le già esauste possibilità di sostenere la
spesa sociale, lasciandosi nel contempo tagliare la giugulare del Nord Steam 2
senza neppure un fiato… E’ vero che nelle ultime ore lo stesso
apprendista stregone che ha evocato la manifestazione del 15, sulle pagine
dello stesso giornale che ne ha fatto da grancassa, ha provato a prendere le
distanze dai deliri della von der Leyen, e che i sindacati che vi hanno aderito
hanno definito inaccettabile il suo piano di riarmo. Ma ci ha pensato un
ineffabile Paolo Mieli, dal megafono di “Otto e mezzo”, a smentirli, chiarendo
che c’è una sola Europa, quella “della von der Leyen, un’altra non c’è”. E
proclamando urbi et orbi che lui a quell’adunata di
volonterosi in Piazza del popolo ci andrà, perché “l’Europa sia armata e prenda
il posto lasciato libero da Trump”. Punto. E temo che la sua sia
l’interpretazione autentica del significato che – volenti o nolenti i suoi
animatori – quella manifestazione assumerà nella confusa agorà pubblica.
Mi spiace
dirlo in termini così espliciti, ma riempire Piazza del Popolo in giorni come
questi significa inevitabilmente esprimere il proprio sostegno a questo gruppo
di eurocrati falliti, desiderosi di guerra e indifferenti alle sofferenze a
alla morte di massa di chi è costretto a combatterla, colpevolmente impegnati
nella metamorfosi regressiva dall’Europa sociale degli ideali di ieri
all’Europa armata della realtà di oggi. Sono loro, purtroppo, che rappresentano
l’Europa reale in contrapposizione frontale all’Europa ideale che ci aveva
coinvolti in un tempo ormai lontano. Mi rendo conto di quanto sia difficile
ri-orientarsi nel pieno di un mutamento così radicale e veloce. Il mondo si è
effettivamente capovolto nel giro di poche settimane, per certi versi di pochi
giorni. I tedeschi usano il termine “achsen-zeit” – “epoche assiali” –
per definire i tempi in cui il mondo ruota di 180 gradi sul proprio asse, e
tutti i riferimenti mutano di posto e di segno. Bene e male, giusto e ingiusto,
amico e nemico, virtù e vizio, i termini polari di tutte le antitesi si
scambiano di posizione. Ne è un sintomo la moltiplicazione dei paradossi. Come
quello, ad esempio, per cui gli argomenti dei critici della guerra definiti
fino a ieri spregiativamente come “anti-americani” si ripresentano oggi come
“Voce dell’America” senza che nessuno faccia un plissé. O il
vecchio insulto di “putiniano” rivolto ai fautori della pace viene sostituito
del nuovo termine invalidante “trumpiano” senza che nella transizione semantica
da un Capo all’altro delle due Super-potenze simbolo dell’antitesi, si sia
perso neppure un grammo della carica deprecatoria dell’evocazione. Un esempio per
certi versi insuperato di una simile meccanica del disorientamento è costituito
dal celebre episodio di Tutti a casa, il film di Luigi Comencini
sull’8 settembre, in cui il sottotenente di complemento interpretato da Alberto
Sordi, di fronte alla pattuglia tedesca che apre il fuoco contro il suo reparto
divenuto appunto nemico per effetto dell’armistizio, si attacca al telefono
pronunciando la fatidica frase “Signor colonnello, è successo un fatto
incredibile. I tedeschi si sono alleati agli americani”.
E’ dunque
ben comprensibile lo sconcerto, il vero e proprio disorientamento, con cui
molti di noi si muovono nella nuova realtà. Per usare ancora una metafora
clinica, ricorda per molti versi quello che i medici militari nella prima
guerra mondiale chiamarono Shell schock – “schock da granata”
– intendendo con ciò il disturbo che colpiva i soldati vittime di esplosioni
ravvicinate con forme di amnesia, perdita di senso della realtà, torpore
emotivo, rimozione degli orrori della guerra. In molti casi furono sospettati
di simulazione per evitare il ritorno al fronte. In altri vennero
derisoriamente chiamati “scemi di guerra”. Ma il loro, mutatis mutandis ovviamente,
e in contesto ben meno drammatico, è un comportamento simile a quello di chi,
soprattutto nelle file della residua sinistra, di fronte all’esplosione che ha
diviso il tempo nel famigerato febbraio 2022 e poi, in scia, il 4 novembre del
‘24, non sa più bene come collocarsi, perde il riferimento ai valori fondanti –
la Pace in primis – e alla stessa realtà che lo circonda, è tentato, come si è
detto, di aggrapparsi a leader bolsi o cinici, s’illude che il trauma
dell’assenza (dell’Europa in primo luogo) possa essere facilmente superato o
rimosso, che il mondo ben ordinato dell’altro-ieri – quello in cui le
democrazie erano democrazie e le dittature dittature – possa essere restaurato
dagli stessi che hanno contribuito a distruggerlo. Quanto prima si supererà
quel trauma, tanto meglio sarà.
Naturalmente
in tutto ciò la presenza di Donald Trump svolge un ruolo di primo piano. In
quanto indiscutibile “figura del Male” contribuisce in modo fondante alla
costruzione della scena in cui si svolge l’azione corale. E’ la sua negatività
ontologica – ovvero radicata nel suo stesso essere – a spingere istintivamente
chi ha sempre militato nel nostro campo sul fronte a lui integralmente opposto.
A farci dire che nello spazio in cui sta lui – “per la contraddizion che nol
consente” – non possiamo stare noi, fosse pure quello lo spazio della tanto
invocata trattativa. Nello stesso tempo, in quanto forma del negativo, mette il
scena l’ontologica negatività del reale, del reale nudo, senza i veli pietosi
delle rappresentazioni edificanti e manipolatorie. Disvela “verità”
innominabili. Come quando dice a Zelensky che l’Ucraina ha perso, e
all’Occidente che la Nato ha perso, che la Russia può essere sconfitta solo a
colpi di bombe atomiche, e che accanirsi a combattere significa “giocare con
la Third World War”, e a noi turba il modo brutale e vessatorio che
usa ma non possiamo negare che tutto ciò sia vero (lo ha detto bene Cacciari
“Trump dice brutalmente e senza ipocrisia alcune cose che tutti sanno: per caso
qualcuno aveva creduto che l’Ucraina potesse da sola sconfiggere la Russia sul
terreno? O che gli Stati Uniti potessero fare una guerra mondiale per
l’Ucraina? Perché se vuoi vincere la Russia devi fare la guerra mondiale”).
Allo stesso modo con l’osceno filmato sulla striscia di Gaza ridotta a Resort
di lusso, la sua statua d’oro, i miliardari sdraiati sulla terra che nasconde
migliaia di cadaveri a prendere il sole, Elon Musk che lancia in aria mazzette
di dollari, il Tycoon ci sbatte in faccia la proiezione del suo (loro)
immaginario malato e nello stesso tempo, tuttavia, l’immagine in filigrana
dello spirito del mondo per un attimo rivelato per quello che nella sostanza è
diventato. In questo senso Donald Trump è l’esatto equivalente del ritratto di
Dorian Grey nel dramma di Oscar Wilde: registra nel proprio volto ributtante
l’orrore di ciò che nessuno vede ma che ha lavorato sotto la superficie del
viso patinato del suo vizioso e perverso soggetto vivente.
Per questa
ragione è inaccettabile la posizione – di tutte le destre radicali del mondo –
che considera Trump “uomo di pace” per il fatto che lì e ora, sull’asse tra
Washington e Mosca, nel momento in cui si è giunti sull’orlo dell’abisso, ha
deciso di parlarsi anziché spararsi. Ma specularmente mi sembra concettualmente
sbagliata l’idea – di buona parte delle sinistre – secondo cui, essendo Trump
un fascista – direi, meglio, un anarco-fascista -, sia dovere di ogni sincero
democratico e antifascista combattere qualsiasi sua iniziativa “a prescindere”,
fosse anche un tentativo di dialogo per metter fine a un massacro (dialogo,
intendiamoci, guidato dalla logica degli interessi imperiali non certo da
sentimenti umanitari, ma pur sempre parole anziché morte). Entrambe queste
risposte mi sembrano frutto di una sostanziale incapacità di comprendere la
natura dialettica del reale.
Per quanto
mi riguarda, tendo a considerare Trump una sorta di Panurge del nostro tempo.
Panurge, lo ricordo brevemente, è un personaggio di un certo rilievo del ciclo
rabelaisiano su Gargantua e Pantagruel, il cattivo per antonomasia (il suo
nome, tratto dal greco πανοῦργος, significa “capace di tutto”), semina il male
per semplice piacere di farlo, mente, insulta, deride, appiccica corna di
cartone sulle schiene dei gentiluomini, infila oggetti a forma di membro virile
nei cappucci delle dame, ha provocato una strage di pecore e pastori gettando
dalla nave su cui viaggiava un montone in mare e ha preso a colpi di remo i
naufraghi che tentavano di salvarsi, rappresenta la contraddizione assoluta
nella società delle buone maniere del suo tempo. Umberto Eco, nel suo
celebre Elogio di
Franti, lo evoca come esempio di “qualcosa che si installa
dentro a un ordine e lo mina dall’interno deformandone la fisionomia con atti
di gratuita iconoclastia” (un po’, appunto, come il Franti deamicisiano col suo
iconico “lo sciagurato sorrise”). Se Gargantua et Pantagruel “è
il libro che chiude un’epoca e ne apre una nuova – spiega Eco – esso lo è
proprio per la centralità che vi ha Panurge” in quanto espressione “della
cultura tardo medievale che si disfa” e acceleratore granguignolesco di quel
disfacimento. Allo stesso modo Donald Trump. Interpreta senza infingimenti, e
accelera, la fine di un’epoca. Non potrà inaugurarne una nuova, che sarebbe
socialmente e civilmente invivibile. Ma dobbiamo guardarlo come il tracciatore
di una patologia in corso più che come un barbaro venuto dal nulla, e tentare
di trarre insegnamento – non solo deprecare – da ciò che la sua marcia di
Radezky rivela per poter andar oltre, non certo restaurare, il mondo pericoloso
e finito che abbiamo alle spalle.
Grazie della condivisione.
RispondiEliminapiacere mio :)
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