giovedì 6 marzo 2025

15 marzo: “Preferirei di no” - Marco Revelli

 

Come il Bartleby di Melville, alla chiamata in piazza di Michele Serra rispondo “Preferirei di no”. Perché nella migliore delle ipotesi il suo “Manifesto” di convocazione è un fervorino vuoto, zeppo solo di velleitaria retorica (un po’ come quelli che il padre di Enrico, detestabile per servile conformismo, rivolgeva allo zelante figliolo nel celebre Cuore deamicisiano), con l’unico riferimento valoriale a una libertà evocata in termini tanto generici da poter essere fatta propria da chiunque, persino dal pistolero hillbilly JD Vance nella sua reprimenda di Monaco. Nella peggiore perché suona come un orrendo grido di guerra, a sostegno delle recenti dissennate iniziative di un establishment europeo che sembra solo preoccupato di proseguire questo inutile massacro di giovani ucraini e di liquidare quell’embrione – giusto un minuscolo spiraglio – di dialogo tra Washington e Mosca. Dialogo tra due criminali, certo, ma ognuno carico di testate nucleari capaci di distruggere più volte il pianeta, per cui è comunque preferibile che si parlino piuttosto che si combattano a colpi di bombe atomiche. 

L’Europa, quella per cui valeva la pena mobilitarsi – non dico “morire”, parola d’ordine di tutti i nazionalismi, locali o continentali, ma per lo meno sperare -,  non c’è più. Continuare a illudersi sulla sua presenza ricorda, penosamente, quel fenomeno che in campo psichiatrico si chiama phantom limbo syndrome, ovvero la “sindrome dell’arto fantasma”, e colpisce chi dopo un’amputazione continua a percepire sensazioni tattili, dal prurito al tocco leggero fino al dolore, come se il piede o il braccio mancanti fossero ancora al loro posto. “L’Unione europea è cerebralmente defunta”, ha scritto in questi giorni Lucio Caracciolo, uno che sa di cosa parla contrariamente a chi si limita a discettare disteso in un’amaca. La sua leadership – la peggiore di sempre -, non è stata nemmeno capace di cogliere la sfida esistenziale che questa orribile guerra rappresenta per la sua sopravvivenza come entità terza nel confronto tra due potenze imperiali declinanti (e per questo tanto più pericolose). Non ha mosso un dito per impedire che scoppiasse (ed era possibile e doveroso tentare). E in tre anni di massacro crescente non ha preso un’iniziativa, non una sola, per affermare l’intelligenza dell’azione diplomatica contro l’inerzia ottusa dello strepito delle armi.  Nell’illusione – rivelatasi falsa – che la potenza dell’impero (declinante) americano avrebbe garantito la vittoria sull’impero (declinato) russo, e magari la possibilità di appropriarsi delle risorse di questo, si è appiattita sul pensiero (si fa per dire) e sulle

parole dei vari Stoltenberg e Sullivan fino a confondersene. Ora che l’ombrello americano è scomparso e che l’Atlantico da mare interno è diventato di colpo un oceano immenso, si agita nel vuoto infilando a raffica una serie impressionante di sproloqui e di atti mancati, come i summit di Parigi e soprattutto di Londra, dove iconicamente l’Europa appariva come una sorta di bizzarro patchwork in cui accanto a meno della metà dei suoi membri sedevano stati tipo il Canada la Turchia o il Regno Unito post-brexit e individui come Rutte o altri ospiti non paganti. Come se avessero ancora dietro di sé la potenza militare del Pentagono e le risorse finanziarie dell’America, continuano quasi per riflesso pavloviano a ripetere il vecchio tormentone del sostegno a Kiev “whenever it tekes”, della inevitabile “vittoria finale”, dell’incrollabile resistenza… Prove reiterate di inconsistenza e disordine mentale che giustificano la sarcastica affermazione di un altro che sa di cosa parla, il generale Fabio Mini, il quale così descrive la condizione di questa Europa mutilata tragicamente inconsapevole della propria condizione: “Quella in corso tra Russia, Usa e Cina sul tavolo verde ucraino è una sorta di partita a tressette col morto o una a poker col ‘pollo’ e all’Europa toccano questi due ruoli. A tressette il morto non gioca e neanche si siede al tavolo, a poker ‘se nella prima mezzora non hai capito chi è il pollo vuol dire che sei tu’”.

Per non parlare degli ineffabili opinion leader dei media mainstream, quelli che ancora alla metà di febbraio, a giochi ormai fatti, avevano il coraggio di scrivere che “Zelensky scommette sul collasso russo. L’economia di Mosca comincia a scricchiolare” (così Anna Zafesova il 16 febbraio”). O che, come gli editorialisti del “Foglio”, proclamavano il dovere di “sostenere Kiev anche senza Trump”, denunciando “il disonore che si vede a occhio nudo” sul volto di quanti non ci stanno. O chi ancora, come Mario Giro su “Domani”, si confortava proclamando con toni stentorei che “i tre imperi sbagliano a sottovalutare l’Ue”, e assomiglia tanto a chi, persosi al buio in un bosco grida forte per farsi coraggio. Tutti insieme, politici e gazzettieri, ricordano tristemente quel personaggio ariostesco che “del colpo non accorto, andava combattendo, ed era morto”…

Dunque, dovremmo impegnarci a ”vincere o morire” per quest’Europa che sta deliberatamente e accanitamente rovesciando, ad uno ad uno, tutti i propri principii fondativi (quelli, per intenderci, del “Manifesto di Ventotene”) per seguire le alcinesche seduzioni della baronessina Ursula von der Leyen appena uscita dal salotto di nonna Speranza col ghigno feroce in faccia e le braccia colme di ordigni bellici a proclamare il folle progetto di militarizzazione integrale del continente col suo ReArm Europe (che solo a sentirlo pronunciare evoca stridor di denti), piano da 800 miliardi di euro in armamenti, la sua “Banca del riarmo”, le sue orrifiche immagini di istrici d’acciaio e di debiti fuori bilancio purché finalizzati alla distruzione. Quest’Europa che aveva rifiutato come la peste gli EuroBond necessari a difendere quel che restava del suo welfare ma che accetta senza batter ciglio gli EuroBomb necessari a finanziare il futuro warfare. La stessa Europa che concepisce la folle idea di sequestrare i conti russi depositati nella sue banche rischiando di sfasciare l’intero sistema bancario globale. E che da tre anni ha continuato a imporre sanzioni boomerang che ne hanno strangolato l’economia e disseccato le già esauste possibilità di sostenere la spesa sociale, lasciandosi nel contempo tagliare la giugulare del Nord Steam 2 senza neppure un fiato…  E’ vero che nelle ultime ore lo stesso apprendista stregone che ha evocato la manifestazione del 15, sulle pagine dello stesso giornale che ne ha fatto da grancassa, ha provato a prendere le distanze dai deliri della von der Leyen, e che i sindacati che vi hanno aderito hanno definito inaccettabile il suo piano di riarmo. Ma ci ha pensato un ineffabile Paolo Mieli, dal megafono di “Otto e mezzo”, a smentirli, chiarendo che c’è una sola Europa, quella “della von der Leyen, un’altra non c’è”. E proclamando urbi et orbi che lui a quell’adunata di volonterosi in Piazza del popolo ci andrà, perché “l’Europa sia armata e prenda il posto lasciato libero da Trump”. Punto. E temo che la sua sia l’interpretazione autentica del significato che – volenti o nolenti i suoi animatori – quella manifestazione assumerà nella confusa agorà pubblica.

Mi spiace dirlo in termini così espliciti, ma riempire Piazza del Popolo in giorni come questi significa inevitabilmente esprimere il proprio sostegno a questo gruppo di eurocrati falliti, desiderosi di guerra e indifferenti alle sofferenze a alla morte di massa di chi è costretto a combatterla, colpevolmente impegnati nella metamorfosi regressiva dall’Europa sociale degli ideali di ieri all’Europa armata della realtà di oggi. Sono loro, purtroppo, che rappresentano l’Europa reale in contrapposizione frontale all’Europa ideale che ci aveva coinvolti in un tempo ormai lontano. Mi rendo conto di quanto sia difficile ri-orientarsi nel pieno di un mutamento così radicale e veloce. Il mondo si è effettivamente capovolto nel giro di poche settimane, per certi versi di pochi giorni. I tedeschi usano il termine “achsen-zeit” – “epoche assiali” – per definire i tempi in cui il mondo ruota di 180 gradi sul proprio asse, e tutti i riferimenti mutano di posto e di segno. Bene e male, giusto e ingiusto, amico e nemico, virtù e vizio, i termini polari di tutte le antitesi si scambiano di posizione. Ne è un sintomo la moltiplicazione dei paradossi. Come quello, ad esempio, per cui gli argomenti dei critici della guerra definiti fino a ieri spregiativamente come “anti-americani” si ripresentano oggi come “Voce dell’America” senza che nessuno faccia un plissé. O il vecchio insulto di “putiniano” rivolto ai fautori della pace viene sostituito del nuovo termine invalidante “trumpiano” senza che nella transizione semantica da un Capo all’altro delle due Super-potenze simbolo dell’antitesi, si sia perso neppure un grammo della carica deprecatoria dell’evocazione. Un esempio per certi versi insuperato di una simile meccanica del disorientamento è costituito dal celebre episodio di Tutti a casa, il film di Luigi Comencini sull’8 settembre, in cui il sottotenente di complemento interpretato da Alberto Sordi, di fronte alla pattuglia tedesca che apre il fuoco contro il suo reparto divenuto appunto nemico per effetto dell’armistizio, si attacca al telefono pronunciando la fatidica frase “Signor colonnello, è successo un fatto incredibile. I tedeschi si sono alleati agli americani”.

E’ dunque ben comprensibile lo sconcerto, il vero e proprio disorientamento, con cui molti di noi si muovono nella nuova realtà. Per usare ancora una metafora clinica, ricorda per molti versi quello che i medici militari nella prima guerra mondiale chiamarono Shell schock – “schock da granata” – intendendo con ciò il disturbo che colpiva i soldati vittime di esplosioni ravvicinate con forme di amnesia, perdita di senso della realtà, torpore emotivo, rimozione degli orrori della guerra. In molti casi furono sospettati di simulazione per evitare il ritorno al fronte. In altri vennero derisoriamente chiamati “scemi di guerra”. Ma il loro, mutatis mutandis ovviamente, e in contesto ben meno drammatico, è un comportamento simile a quello di chi, soprattutto nelle file della residua sinistra, di fronte all’esplosione che ha diviso il tempo nel famigerato febbraio 2022 e poi, in scia, il 4 novembre del ‘24, non sa più bene come collocarsi, perde il riferimento ai valori fondanti – la Pace in primis – e alla stessa realtà che lo circonda, è tentato, come si è detto, di aggrapparsi a leader bolsi o cinici, s’illude che il trauma dell’assenza (dell’Europa in primo luogo) possa essere facilmente superato o rimosso, che il mondo ben ordinato dell’altro-ieri – quello in cui le democrazie erano democrazie e le dittature dittature – possa essere restaurato dagli stessi che hanno contribuito a distruggerlo. Quanto prima si supererà quel trauma, tanto meglio sarà.

Naturalmente in tutto ciò la presenza di Donald Trump svolge un ruolo di primo piano. In quanto indiscutibile “figura del Male” contribuisce in modo fondante alla costruzione della scena in cui si svolge l’azione corale. E’ la sua negatività ontologica – ovvero radicata nel suo stesso essere – a spingere istintivamente chi ha sempre militato nel nostro campo sul fronte a lui integralmente opposto. A farci dire che nello spazio in cui sta lui – “per la contraddizion che nol consente” – non possiamo stare noi, fosse pure quello lo spazio della tanto invocata trattativa. Nello stesso tempo, in quanto forma del negativo, mette il scena l’ontologica negatività del reale, del reale nudo, senza i veli pietosi delle rappresentazioni edificanti e manipolatorie. Disvela “verità” innominabili. Come quando dice a Zelensky che l’Ucraina ha perso, e all’Occidente che la Nato ha perso, che la Russia può essere sconfitta solo a colpi di bombe atomiche, e che accanirsi a combattere significa “giocare con la Third World War”, e a noi turba il modo brutale e vessatorio che usa ma non possiamo negare che tutto ciò sia vero (lo ha detto bene Cacciari “Trump dice brutalmente e senza ipocrisia alcune cose che tutti sanno: per caso qualcuno aveva creduto che l’Ucraina potesse da sola sconfiggere la Russia sul terreno? O che gli Stati Uniti potessero fare  una guerra mondiale per l’Ucraina? Perché se vuoi vincere la Russia devi fare la guerra mondiale”). Allo stesso modo con l’osceno filmato sulla striscia di Gaza ridotta a Resort di lusso, la sua statua d’oro, i miliardari sdraiati sulla terra che nasconde migliaia di cadaveri a prendere il sole, Elon Musk che lancia in aria mazzette di dollari, il Tycoon ci sbatte in faccia la proiezione del suo (loro) immaginario malato e nello stesso tempo, tuttavia, l’immagine in filigrana dello spirito del mondo per un attimo rivelato per quello che nella sostanza è diventato. In questo senso Donald Trump è l’esatto equivalente del ritratto di Dorian Grey nel dramma di Oscar Wilde: registra nel proprio volto ributtante l’orrore di ciò che nessuno vede ma che ha lavorato sotto la superficie del viso patinato del suo vizioso e perverso soggetto vivente.

Per questa ragione è inaccettabile la posizione – di tutte le destre radicali del mondo – che considera Trump “uomo di pace” per il fatto che lì e ora, sull’asse tra Washington e Mosca, nel momento in cui si è giunti sull’orlo dell’abisso, ha deciso di parlarsi anziché spararsi. Ma specularmente mi sembra concettualmente sbagliata l’idea – di buona parte delle sinistre – secondo cui, essendo Trump un fascista – direi, meglio, un anarco-fascista -, sia dovere di ogni sincero democratico e antifascista combattere qualsiasi sua iniziativa “a prescindere”, fosse anche un tentativo di dialogo per metter fine a un massacro (dialogo, intendiamoci, guidato dalla logica degli interessi imperiali non certo da sentimenti umanitari, ma pur sempre parole anziché morte). Entrambe queste risposte mi sembrano frutto di una sostanziale incapacità di comprendere la natura dialettica del reale.

Per quanto mi riguarda, tendo a considerare Trump una sorta di Panurge del nostro tempo. Panurge, lo ricordo brevemente, è un personaggio di un certo rilievo del ciclo rabelaisiano su Gargantua e Pantagruel, il cattivo per antonomasia (il suo nome, tratto dal greco πανοῦργος, significa “capace di tutto”), semina il male per semplice piacere di farlo, mente, insulta, deride, appiccica corna di cartone sulle schiene dei gentiluomini, infila oggetti a forma di membro virile nei cappucci delle dame, ha provocato una strage di pecore e pastori gettando dalla nave su cui viaggiava un montone in mare e ha preso a colpi di remo i naufraghi che tentavano di salvarsi, rappresenta la contraddizione assoluta nella società delle buone maniere del suo tempo. Umberto Eco, nel suo celebre Elogio di Franti, lo evoca come esempio di “qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina dall’interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia” (un po’, appunto, come il Franti deamicisiano col suo iconico “lo sciagurato sorrise”). Se Gargantua et Pantagruel “è il libro che chiude un’epoca e ne apre una nuova – spiega Eco – esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge” in quanto espressione “della cultura tardo medievale che si disfa” e acceleratore granguignolesco di quel disfacimento. Allo stesso modo Donald Trump. Interpreta senza infingimenti, e accelera, la fine di un’epoca. Non potrà inaugurarne una nuova, che sarebbe socialmente e civilmente invivibile. Ma dobbiamo guardarlo come il tracciatore di una patologia in corso più che come un barbaro venuto dal nulla, e tentare di trarre insegnamento – non solo deprecare – da ciò che la sua marcia di Radezky rivela per poter andar oltre, non certo restaurare, il mondo pericoloso e finito che abbiamo alle spalle.

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