Lo Stato delega sempre più ai privati l'erogazione di
servizi, costruendo un sistema fiscale conseguente. A brindare sono anche le
banche
Spesso i
temi finanziari sono considerati questioni per esperti, ma in realtà è proprio
attraverso quei temi che passano profonde trasformazioni. Esiste
infatti un legame ormai molto stretto tra finanziarizzazione e smantellamento
dello stato sociale. La privatizzazione significa infatti il
progressivo trasferimento di una serie di servizi dal pubblico al privato,
compresi servizi essenziali come la sanità e l’istruzione. Come avviene questo
passaggio?
La “guerra
alle tasse” sposta i servizi dal pubblico al privato
Il percorso
da un trentennio in atto prevede la riduzione del gettito fiscale, in nome
della “guerra alle tasse”, attraverso una accurata, e ricorrente,
narrazione che le considera ingiuste e odiose. Ne consegue dunque
l’inevitabile contrazione dei servizi finanziati con la spesa pubblica.
Con l’aumento dei tassi d’interesse anche il debito pubblico è
diventato troppo costoso e quindi non utilizzabile per finanziare quella stessa
spesa pubblica.
Appare
allora indispensabile “spostare” i servizi prima coperti dallo Stato attraverso
la spesa pubblica verso il settore privato: in parole semplici, i
cittadini e le cittadine dovranno dotarsi di assicurazioni private appunto
che coprano i servizi non più garantiti dallo Stato stesso. Simili polizze sono
“vendute” da fondi di investimento che in Italia sono in larghissima parte
gestiti dalle banche. Qui emerge in tutta evidenza il legame tra
privatizzazione e finanziarizzazione.
La
detassazione dei fondi di gestione
Per
incentivare gli italiani a fare ricorso a questi fondi che devono sostituire lo
Stato sociale si è creato nel tempo un regime fiscale destinato
a favorire in maniera evidente simili forme di risparmio. O meglio, si sono
creati meccanismi di adesione più o meno volontaria a simili
fondi, come nel caso della destinazione del Tfr o in quello della firma dei
contratti sindacali con esplicito riferimento ai fondi stessi. E, al
contempo, proprio per questa natura “sociale” assunta dai
fondi stessi, si è proceduto ad una serie di agevolazioni fiscali.
Così a partire
dal 2011 si è sancita, di fatto, la detassazione pressoché completa dei fondi
di gestione italiani, definibili anche Organismi di investimento
collettivo del risparmio. Che, per effetto delle modifiche introdotte dal
D.L. n. 255/2010, pur essendo ricompresi in linea di principio tra i
soggetti passivi dell’IRES di cui all’art. 73 del T.U.I.R., non scontano di
fatto alcuna imposizione sui propri redditi (ivi inclusi i dividendi e i
capital gain) in quanto espressamente esonerati dalle imposte sui redditi, ai
sensi del comma 5-quinquies del medesimo art. 73, a condizione che
l’organismo collettivo, ovvero il soggetto incaricato della sua gestione, sia
sottoposto a forme di vigilanza prudenziale.
Inoltre, i
fondi, qualificandosi come soggetti lordisti, salvo alcune
eccezioni, non subiscono alcuna ritenuta sui redditi da capitale
percepiti. Pertanto, ai dividendi distribuiti da società italiane a favore
di fondi regolamentati istituiti in Italia non si applica la ritenuta di cui
all’art. 27 del D.P.R. n. 600/1973. Questa norma, di chiaro vantaggio, ha però
creato una condizione di disparità di trattamento rispetto ai fondi stranieri e
così, si potrebbe dire in forma un po’ paradossale, a seguito di
notevoli ricorsi in sede europea, si è giunti alla decisione, contenuta nella
legge di bilancio del 2021 di introdurre la sostanziale equiparazione del
trattamento dei fondi esteri a quelli italiani. In pratica neppure loro
pagano più le imposte in Italia.
I benefici
della finanziarizzazione per le banche
In nome della
necessità di agevolare la previdenza e la sanità private, come condizione per
supplire al superamento dello Stato sociale, divenuto troppo costoso per la
riduzione fiscale si è proceduto quindi alla detassazione pressoché
completa della finanza “gestita” che non contribuisce all’imponibile sul
reddito e paga solo sulla plusvalenza, quando si realizza, il 26%.
Nel caso di minusvalenze, sia ben chiaro, la tassazione non c’è, eliminando
così ogni fattispecie di rischio. La riduzione del gettito fiscale favorisce la
privatizzazione che, per essere realizzata, ha bisogno di un’ulteriore
riduzione fiscale, destinata a renderla ancora maggiormente indispensabile.
C’è però di
più. Le banche italiane hanno realizzato utili miliardari dopo
il rialzo dei tassi di interesse della Bce, ma continuano a godere di una
normativa di grande favore. Molti dei fondi sopra ricordati sono gestiti da
società riconducibili alle banche, in Italia circa il 90% è legato agli
istituti di credito. Spesso tali società acquistano fondi di diritto estero,
prodotti cioè da società che sono domiciliate in “paradisi fiscali”,
a cominciare da Irlanda e Lussemburgo, dove il
regime fiscale è persino più favorevole di quello italiano sopra descritto e
dove, di fatto, non esiste regime di vigilanza.
Tutto si
spiega
In questo
senso gli istituti bancari italiani traggono indubbi benefici dalla
finanziarizzazione e dal ricordato spostamento dei servizi dal settore pubblico
a quello privato. Perché è con tale spostamento che vedono alimentata la quantità
di risparmio gestito nelle loro mani: in Italia nel 2022 oltre 200
miliardi di euro. Vorrei chiudere queste considerazioni con un aspetto
molto specifico ma decisamente eloquente. Per la normativa italiana gli Etf, i prodotti
finanziari che replicano indici o il prezzo di beni che non possiedono, pagano
il 26% sulle plusvalenze, ma se si tratta di Etf che “replicano” l’indice dei
titoli del debito pubblico italiano pagano solo il 12,5%, come se il titolo lo
avessero comprato. Davvero fantastico. La finanza sta certamente vincendo e la
politica è il suo principale sponsor.
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