sabato 18 maggio 2024

2022, 1973: L’EUROPA IN BALIA DELLA RAZIONALIZZAZIONE IMPERIALE - Pietro Pinter

Tutti gli imperi – finché rimangono in vita – attraversano fasi di espansione, contrazione e razionalizzazione.

Non è infatti interamente vero l’assioma – sviluppato durante lo ius publicum europeum – che la ragion di stato porti ogni nazione, o ogni potere sovrano, a cercare di espandersi inesorabilmente, frenato solo dal corrispondente desiderio di espansione di altri centri di potere. Quantomeno nella sua interpretazione più stretta.

Talvolta un impero può scegliere di non espandersi nonostante abbia la possibilità di farlo, o addirittura di retrocedere dalle sue posizioni, per mettere al sicuro e consolidare quanto ha già ottenuto in passato.

Quando l’Imperatore Adriano costruì il suo famoso “vallo” nel secondo secolo d. C., stava facendo esattamente questo: Stava razionalizzando il suo impero. Lo stesso fece l’Impero Britannico vittoriano nel diciannovesimo secolo quando, usando le parole dello storico Guido Formigoni: “Barattò il controllo informale di tutto il mondo per il controllo formale di 1/3 di esso“, abbandonando progressivamente il sistema delle compagnie commerciali e la promozione integralista del libero commercio in favore di una sovranità esclusiva (delle altre potenze) su un vasto impero coloniale.

Le amministrazioni americane Nixon e Ford – guidate in politica estera dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale e poi Segretario di Stato Henry Kissinger – si trovarono, tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, a gestire il processo di razionalizzazione dell’impero americano post seconda guerra mondiale.

Le amministrazioni Trump e Biden sono invece chiamate a gestire la razionalizzazione dell’impero successiva alla vittoria della guerra fredda nel 1991.

In queste due fasi storiche sono individuabili diversi, e importanti, parallelismi (al netto delle ovvie differenze).

In entrambe il nodo principale della razionalizzazione è il rapporto tra Washington e i suoi protettorati europei, fulcro dell’influenza globale statunitense.

In entrambe osserviamo la ritirata statunitense da un quadrante problematico che drena risorse: Il Vietnam, l’Afghanistan.

In entrambe uno shock economico precede uno shock bellico/politico: La decisione di Nixon del 1971 sulla convertibilità in oro, la crisi economica del covid 19.

In entrambe il rapporto con l’Europa viene pesantemente ridefinito e chiarito con una guerra culminante in una crisi energetica: Il conflitto arabo-israeliano tra il 1967 e il 1973, il conflitto russo-ucraino tra il 2014 e il 2022.

Appare quindi molto importante, per capire quanto avviene e avverrà in Europa al giorno d’oggi, studiare il periodo storico del detente USA-URSS, della guerra del Kippur e della crisi energetica europea.

MUTAMENTO NEI RAPPORTI DI FORZA

Nella seconda metà degli anni ’60 diventa chiaro come i rapporti di forza tra i due blocchi delineatisi nella decade precedente, siano ormai drammaticamente mutati. Gli USA sono chiamati ad adattare le loro politiche e dottrine alla nuova realtà strategica, partendo da quella più importante: La dottrina nucleare.

Con uno sforzo immane, l’Unione Sovietica sta gradualmente raggiungendo la parità – che arriverà ufficialmente nel 1971 – con gli Stati Uniti per quanto riguarda le testate nucleari strategiche. La dottrina americana della “massive retalation” nucleare in caso di attacco convenzionale sovietico in Europa (o in altri quadranti eventualmente posti sotto l’ombrello nucleare americano) basata sulla superiorità e sulla possibilità di poter vincere una guerra nucleare, non è più attuabile.

Questo permette all’Unione Sovietica di estrarre un’importante concessione agli Stati Uniti, frenando una corsa agli armamenti a lungo andare economicamente insostenibile: Il congelamento dello status quo nucleare. Il Trattato di Non Proliferazione (1968) e lo Strategic Arms Limitation Talks Agreement (1972) fissano due principi: Nessun’altra potenza può acquisire armi nucleari, e le due superpotenze rifiutano di ottenere la superiorità nucleare sull’altra.

Questi mutamenti strategici, naturalmente, non vengono ignorati dall’Europa.

LA STRATEGIA EUROPEA

Le decisioni sopracitate – prese senza consultare i satelliti europei – presentano diversi problemi e motivi di ansia per i membri europei della NATO e i 9 della nascente Comunità Europea.
La Mutually Assured Destruction in caso di guerra nucleare tra le due superpotenze rende meno credibile il deterrente nucleare americano in Europa. Non potendo più vincere una guerra in Europa con mezzi esclusivamente nucleari, Washington quanto sarà disposta a rischiare e a spendere in una guerra convenzionale per proteggere l’Europa Occidentale da un possibile attacco sovietico? Inoltre, il detente tra URSS e USA – un’affare squisitamente bilaterale – infonde sospetti negli europei, storicamente avvezzi ad accordi di spartizione del mondo, dal Trattato di Tordesillas del 1494 per la spartizione del “nuovo mondo” tra Portogallo e Spagna, all’entente anglo-russo del 1907 successivo al “grande gioco” centroasiatico e quello anglo-francese del 1904 a suggellare la spartizione dell’Africa: Si teme (correttamente, in effetti) l’instaurazione di un condominio soviet-americano sull’Europa, la cristallizzazione di due sfere d’influenza all’interno delle quali ricadrà un’Europa inerme e in balia di due poli.

La strategia comunitaria (dei paesi della Comunità Europea) in risposta alla sfida del detente è comprensibile, ma fallace: I 9 vogliono affermare un’identità europea distinta da quella americana, vogliono portare avanti un detente differenziato con l’Unione Sovietica, perseguire una politica economica, diplomatica ed energetica indipendente… ma continuando a godere dell’ombrello di sicurezza americano!

Questa strategia si basa su un vecchio assioma gollista; che sostiene che gli USA offrano protezione militare all’Europa Occidentale per il solo motivo di non poter permettere che cada sotto l’influenza sovietica, e che questa protezione quindi continuerebbe a prescindere da quanto la politica della Comunità Europea possa divergere da quella di Washington. Nelle sue memorie, il sopracitato Henry Kissinger affermerà che – per quanto questo calcolo sia razionale e veritiero dal punto di vista strategico – non tenga conto delle passioni umane e dei fattori politici destinati ad influenzare le decisioni. La sua analisi è essenzialmente corretta: La sola minaccia da parte di Nixon di abbandonare militarmente l’Europa porterà immediatamente ad un fuggi fuggi generale, ed al crollo del castello di carte della strategia comunitaria, dimostrando incontrovertibilmente (lezione totalmente ignorata dai paesi comunitari) come il potere morbido (economico, diplomatico, politico, culturale) non possa muoversi oltre certi limiti, senza un potere duro (militare, strategico) a supporto.

Ironicamente, in un desiderio speculare a quello europeo di avere la botte piena e la moglie ubriaca ,gli Stati Uniti chiedono alla Comunità di riarmarsi per sobbarcarsi una maggiore responsabilità nella difesa del confine orientale… allo stesso tempo pretendendo una Comunità in linea con tutte le iniziative di politica estera americane, anche nelle tematiche fuori area dell’Alleanza Atlantica. Per fortuna di Washington, questo riarmo non avverrà mai.

La Comunità non costruirà il suo potere duroe ne pagherà le dure conseguenze.

LA STRATEGIA STATUNITENSE

Visto dal punto di vista americano, invece, il detente impone ed è guidato da diverse necessità.

In primis – non poter più contare sulla sicurezza del proprio deterrente nucleare – implica un nuovo focus sul bilanciamento di forze convenzionali, e diventa quindi ancora più impellente la fine di una guerra d’attrito tanto costosa per la macchina bellica americana, quanto demoralizzante per il fronte interno USA: La Guerra del Vietnam.

Il pericolo della mutually assured destruction rende inoltre più che mai necessaria la riduzione dei possibili scenari di confronto armato tra le due superpotenze, e quindi una stretta delimitazione delle aree di influenza in Europa. Questo impegno non si limita al tracciare una linea sulla cartina, ma richiede anche il rafforzamento della presa sulla propria area di influenza (in parallelo lo stesso processo avviene per l’Unione Sovietica, che agisce secondo la “Dottrina Brezhnev”) che non può in nessun modo mostrare ambiguità o tendenze “secessioniste”, magari accentuate da momenti di debolezza del centro imperiale, come quello vissuto durante il Watergate, che investe lentamente ma inesorabilmente l’amministrazione Nixon (e la credibilità di Washington) all’inizio degli anni ’70.

LO SHOCK ECONOMICO DEL 1971


Il primo vettore lungo il quale Washington rafforza il suo controllo sulla Comunità Europea è quello economico.

Per capire le problematiche americane su questo frangente ci viene nuovamente in aiuto il secondo volume delle memorie di Henry Kissinger, Years of Upheaval:

L’impatto della ritrovata assertività della Comunità Europea veniva portato quotidianamente all’attenzione dell’Ufficio Ovale da parte dei nostri dipartimenti economici.
C’era la lamentela sul fatto che le nazioni europee mantenessero accordi commerciali preferenziali con le loro ex colonie, restringendo il nostro accesso a quei mercati. C’era una crescente rete di legami speciali tra la Comunità Europea e le altre nazioni dell’Europa e del Litorale Mediterraneo. C’era la perenne controversia sulla Politica Agricola Comune della Comunità Europea.

La necessità immediata è quella di impedire che la Comunità sorpassi economicamente gli Stati Uniti, cosa che stava minacciando di fare: Il boom ecoomico europeo degli anni ’60 e l’apertura doganale degli USA nei “Dillon” e “Kennedy” Rounds, portano Washington ad essere per la prima volta in deficit commerciale nel 1971.

Per fare ciò, è necessaria un'”azione di forza” (sic).

Il 15 agosto 1971, Richard Nixon annuncia drammaticamente davanti alla stampa la fine della convertibilità in oro del dollaro, l’imposizione di nuove tariffe doganali e un pacchetto di aiuti di stato all’economia statunitense.

Senza nessuna consultazione con gli “alleati” – che hanno in pancia decine di miliardi di dollari – il Presidente americano mette fine al regime dei cambi fissi di Bretton Woods ed apre le porte alla svalutazione del dollaro, infliggendo un duro colpo all’economia europea e – insieme alle nuove barriere doganali – riportando in attivo la bilancia commerciale statunitense fino al 1976.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE

Il secondo vettore, invece, è prettamente militare.
A partire dalla fine degli anni ’60, una serie di azioni concrete, avvertimenti e azioni “parziali” contribuirà notevolmente al processo di delimitazione del perimetro della politica interna europeo-occidentale.

In Italia la prima “bomba non rivendicata” esplode nel 1969 in Piazza Fontana, a Milano.
Le indagini giudiziarie non chiariscono mai completamente la vicenda, ma le sentenze in Cassazione (1987 e 2005) stabiliscono almeno due punti fermi: La condanna per depistaggio di due agenti dei servizi segreti (accusati, tra le altre cose, di aver favorito la fuga in Francia di un altro agente del SID collegato con “Avanguardia Nazionale“) e la responsabilità dell’organizzazione neofascista “Ordine Nuovo“.

“Ordine Nuovo” il cui fondatore – Pino Rauti – partecipa nel 1965 al “Convegno del Parco dei Principi”, una riunione atta ad elaborare una strategia di controguerriglia golpista in Italia, a cui partecipano – oltre ad alcuni esponenti di “Avanguardia Nazionale” – Ivan Lombardo, asset dell’IRD britannico, Renato Mieli, fondatore di ANSA ed ex Colonnello dello Psychological Warfare Branch dell’AMGOT, Pio Filippani Ronconi, ex tenente delle SS.

Su Piazza Fontana affermerà Aldo Moro nel suo memoriale: “È mia convinzione però, anche se non posso portare il suffragio di alcuna prova, che l’interesse e l’intervento fossero più esteri che nazionali. Il che naturalmente non vuol dire che anche italiani non possano essere implicati“. Tornerà poi Bettino Craxi nel 1993, dopo la Strage di Via Fauro ad opera della “Falange Armata”, sostenendo: “Oltre a una giustizia a orologeria politica, in Italia esistono bombe a orologeria politica. Basta ritornare indietro nel tempo. Negli ultimi trent’anni sono esplose bombe di cui non s’è mai saputo né chi le ha messe né chi erano i mandanti… bombe alle quali sono state date cinquanta spiegazioni diverse, e cioè nessuna

Ma se questa vicenda è poco chiara, ben più chiara è la vicenda del Golpe Borghese, il progetto golpista del 1970 che – tramite la mediazione di un ufficiale dei servizi segreti militari e dell’Obersturmbahnfuhrer delle SS Otto Skorzeny – aveva ottenuto l’assenso statunitense a patto che il suo successo militare e politico fosse realistico (condizioni che i golpisti non riuscirono a raggiungere). Il golpe – pur sventato – servì a mostrare alla classe politica italiana ed europea l’esistenza di una possibilità concreta di eliminazione fisica.

Per approfondire:

La stessa funzione ebbe indirettamente il golpe cileno, culminato con l’uccisione del Presidente Allende nel 1973 e l’instaurazione di una giunta militare: Già nel 1970 – appena insediatosi il nuovo Presidente – la Commissione 40 (un gruppo di lavoro speciale, guidato da Kissinger e partecipato da tutte le parti interessate, tra cui CIA e Dipartimento di Stato) contatta i militari cileni per esprimere il suo interesse verso un golpe, nell’ambito di quello che viene chiamato “Processo Track II” (Il “Track I” prevedeva invece la corruzione dei parlamentari cileni e il finanziamento occulto di media e organizzazioni di opposizione) . Il primo tentativo nel 1970 fallirà, ma l’aggravarsi della polarizzazione politica in Cile creerà le condizioni per il successo nel 1973, quando i militari cileni si muoveranno senza informare nuovamente gli americani, consci (correttamente) di averne già ricevuto l’appoggio.
Il messaggio cileno giunge forte e chiaro in Europa: Enrico Berlinguer – Segretario del Partito Comunista Italiano – dichiarerà di lì a poco, sul Corriere della Sera, di “sentirsi più sicuro” sotto l’ombrello dell’Alleanza Atlantica, in un drammatico dietrofront rispetto alla linea di politica estera comunista successiva alla seconda guerra mondiale.

E’ un messaggio che Kissinger stesso ammette che fosse necessario mandare, nel suo “Anni della Casa Bianca”: “Il successo di Allende avrebbe avuto implicazioni per il futuro dei partiti comunisti dell’Europa Occidentale, le cui politiche avrebbero minato l’Alleanza Atlantica quali che fossero le loro credenziali di rispettabilità. Nessun Presidente responsabile avrebbe potuto guardare all’ascesa al potere di Allende restando fermo“. Un messaggio che fu mandato con successo.

L’ANNO DELL’EUROPA

La terza direttrice su cui gli americani si muovono per rimodulare il rapporto tra Washington e l’Europa è sicuramente più benevola e conciliatoria nei suoi intenti.

L’idea di Nixon e Kissinger è di sfruttare l’occasione del ritiro dal Vietnam per migliorare le relazioni con i paesi comunitari, da diversi anni alienati ed infastiditi da una guerra le cui priorità strategiche non condividevano e rispetto alla quale le popolazioni europee erano fortemente critiche. Il 1973 sarebbe dovuto essere l'”Anno dell’Europa”, un anno in cui si sarebbe firmata una nuova dichiarazione atlantica, imbevuta delle nuove realtà strategiche e di un nuovo, rinnovato, impegno per la difesa comune e la comune consultazione nelle problematiche out of area (il problema di svolgere le discussioni a livello NATO o Comunità Europea è solo procedurale, in quanto le due organizzazioni si sovrappongono nei loro membri più importanti). L’obiettivo è quindi quello di “istituzionalizzare” nuovamente il legame atlantico e stabilire su base consensuale: “Quanta unità ci serve? Quanta diversità possiamo tollerare?

A lanciare l’iniziativa è Henry Kissinger, in veste di consigliere per la sicurezza nazionale, alla riunione degli editori dell’Associated Press, il 23 aprile 1973, al Waldorf Astoria di New York.

La risposta da parte degli europei però è piuttosto fredda, come avevano anticipato le consultazioni di Kissinger con vari leader europei prima di tenere il discorso.

La politica europea del 1973 è decisamente fuori fase con quella statunitense, ed è lungi dall’essere inebriata da una rinnovata passione per le relazioni atlantiche. Quella che Kissinger si trova davanti, invero, è forse l’Europa Occidentale più ostile verso gli Stati Uniti che ci sia mai stata dal secondo dopoguerra ad oggi.

La Comunità Europea sta prendendo forma, e per prendere forma sente il bisogno di costruire un’identità separata da Washington, senza voler dare l’immagine che la nascita dell’Europa unita sia un mero sottoprodotto del legame atlantico.

Ma i problemi principali sono con i governi dei tre principali interlocutori di Washington: Regno Unito, Francia e Germania Ovest, tanto da creare quasi una tempesta perfetta.

A Londra siede forse l’unico Primo Ministro britannico – oltre John Major – ad aver mai creduto nell’unità europea: Il conservatore Edward Heath. Il veto della Francia all’entrata britannica nella Comunità è caduto da poco, ma il (fondato) sospetto che – a causa della sua special relationship con Washington – Londra entri nella Comunità per essere un cavallo di troia americano, è ancora lungi dall’essersi dissipato. Il Regno Unito non può quindi guidare l’anno dell’Europa – o mostrarsi troppo entusiasta a riguardo – anche per ragioni di immagine.

A Berlino il cancelliere Willy Brandt – forse il più atlantista tra i capi di governo continentali – è visto con sospetto dagli altri europei a causa della sua Ostpolitik nei confronti del blocco orientalee non è nella posizione di esercitare l’influenza che servirebbe per creare un consenso europeo.

A Washington non resta che puntare sulla Francia del gollista Pompidou: Parigi resta l’unica capitale con il potere sia di costruire, che eventualmente di distruggere, l’anno dell’Europa.

Quello che seguirà per mesi sarà una metaforica partita a Go – l’antico gioco da tavolo giapponese – tra Henry Kissinger e il ministro degli esteri francese – l’antiamericano Jobert – che lentamente frustrerà e priverà di ogni significato e vitalità l’iniziativa americana, attraverso una serie di tattiche negoziali e aperte critiche, impedendo che prendesse forma qualsivoglia dichiarazione.

L’anno dell’Europa vedrà un epilogo – caduco e ormai privo di senso – solo nel 1974, dopo la traumatica esperienza della Guerra dello Yom Kippur.

LA GUERRA DEL KIPPUR

Tutti i nodi del rapporto tra USA e Comunità Europea vengono al pettine con la Guerra del Kippur – nel 1973 – in concomitanza con l’anno dell’Europa.

E’ una guerra molto particolare perché – 50 anni dopo, con una lettura storica – appare quasi come un’azione coreografata, con un risultato finale già scritto e solo dei dettagli contingenti da decidere sul campo di battaglia e al tavolo delle conferenze.
In questa performance, il direttore d’orchestra è senza dubbio il Presidente egiziano Anwar Al Sadat – da poco subentrato a Nasser – con il Segretario di Stato americano Henry Kissinger, pur all’oscuro delle intenzioni egiziane, in (quasi) totale controllo della situazione. Israeliani, siriani, giordani, sovietici ed europei rimangono in balia delle onde e della regia egizio-americana per tutta la durata della guerra.

La guerra si apre con un attacco coordinato da parte di Egitto e Siria alle prime luci dell’alba del 6 ottobre 1973, in un giorno di festa per la comunità ebraica. Questo attacco prende di sorpresa veramente tutti; sia gli israeliani, che le due superpotenze che si sfidano per procura nello scacchiere mediorientale. Diventa però subito chiaro che sono gli americani ad avere in mano il pallino, e che sarà Washington a condurre le trattative e a dettare i tempi della crisi, per trarne vantaggio sia in Medio Oriente che in Europa. E che è stato Sadat a manovrare per mettere gli USA in questa posizione.

Nell’aprile 1972, si apre un canale di comunicazioni segreto tra Anwar Al Sadat ed Henry Kissinger (ancora Consigliere e non Segretario di Stato) tramite un giornalista del Cairo legato all’intelligence egiziana ed americana. Lo scopo di questo canale – tra due paesi che non hanno relazioni diplomatiche ufficiali – è quello di trovare un’uscita dallo stallo diplomatico successivo alla guerra del 1967, che vede i paesi arabi (con supporto sovietico ed europeo) chiedere la ritirata di Israele dai territori recentemente occupati, e Israele rifiutare categoricamente (con supporto americano). Sadat si rende conto che Mosca – nonostante un appoggio vocale, diplomatico e anche tecnico/militare – non abbia realmente intenzione di supportare gli arabi, con ogni mezzo necessario, in una “guerra di liberazione” contro Israele, minacciando una vitale alleanza americana e rischiando di arrivare ad uno scontro tra superpotenze (peraltro, in epoca di detente).
Sadat si rende conto però, di poter ottenere ciò che vuole da Washington, che – svolgendo un ruolo di protezione irrinunciabile per Israele – sarà disposta a mettere pressione su Tel Aviv per una sistemazione, se otterrà in cambio una drastica riduzione dell’influenza sovietica in medioriente e l’entrata de facto dell’Egitto nella sua sfera d’influenza, inclusa la non belligeranza nel vitale Canale di Suez.

L’espulsione di quindicimila “istruttori” sovietici dall’Egitto, e lo scambio epistolare che seguirà tra Sadat e Kissinger, danno forma a qualcosa di simile ai patti Mussolini-Laval che portarono all’invasione italiana dell’Etiopia: Non si parlerà mai di guerra ad Israele, ma diventa estremamente chiaro a Sadat che gli americani siano disposti a mutare radicalmente le loro posizioni riguardo il confine israeliano. A questo punto possono iniziare i preparativi di guerra, lontano dagli occhi degli (ex) ospiti sovietici.

I combattimenti veri e propri dureranno meno di un mese, e si svolgeranno all’interno di uno stretto “recinto” non dichiarato: Un’eccessiva avanzata araba è resa impossibile dal deterrente nucleare israeliano (di cui Kissinger non fa menzione, ma che – completato nel 1967 – è messo in stato di allerta per paura di uno sfondamento siriano nel Golan) e dalle lente forniture sovietiche, regolate da Mosca in modo da non causare uno scontro tra superpotenze; mentre un eccessivo contrattacco israeliano è reso impossibile da un vero e proprio veto americano (reso invalicabile dalla totale dipendenza di Tel Aviv sulle forniture belliche USA), nonché dalla “deterrenza strategica” imposta dallo squilibrio demografico tra paesi arabi ed Israele, che rende un’occupazione militare protratta (di territori abitati, a differenza del Sinai) da parte di quest’ultima praticamente impossibile.

E’ estremamente significativo notare che le linee di armistizio – a fine ottobre – vedano una (seppur piccola) cessione di territorio amministrato da parte di Israele su ambo i fronti, nonostante una controffensiva in Siria arrivata a 30km da Damasco, e un’intera armata egiziana circondata aldilà del Canale di Suez. Questo è indice della pressione americana, l’unica in grado di estorcere concessioni così dolorose ad Israele.
La strategia egiziana paga: Con una tacita cooperazione americana, l’Egitto riesce a lavare via l’umiliazione del 1967 oltrepassando con le sue forze militari il Canale di Suez e infliggendo un duro colpo alle forze armate israeliane, precedentemente ritenute invincibili. Questo permette a Sadat di sedersi al tavolo delle trattative, ottenendo ciò che l’Egitto desiderava da anni – il Sinai, perso 6 anni prima – offrendo in cambio ciò che Israele desiderava dalla sua nascita, ciò che una nazione sconfitta non avrebbe potuto offrire: La pace e il reciproco riconoscimento.

Washington ne esce con un’influenza in Vicino Oriente drasticamente aumentata. Persino in Siria – il più oltranzista e filosovietico dei paesi arabi – che durante le trattative per l’armistizio ignora in maniera umiliante il ministro degli esteri sovietico Gromyko, per permettere a Kissinger di svolgere indisturbato la sua shuttle diplomacy tra Israele e Damasco, e disegnare quello che è ancora oggi il confine siriano.

La “razionalizzazione” nel Vicino Oriente è poi prodromica a quella in Europa: Nel 1975 vengono fissati ad Helsinki i confini dei due blocchi, ora ufficialmente immutabili.

LA LENTA RESA EUROPEA

Tornando alla nostra Europa però, a travolgere il continente e a influire pesantemente sul rapporto euro-americano in fase di trasformazione – più delle linee armistiziali tra Israele, Egitto e Siria – è l’enorme divergenza tra le priorità delle capitali europee – legate ai paesi arabi produttori di petrolio e con opinioni pubbliche in larga parte filopalestinesi – e quelle degli USA, forti di un’ingente produzione domestica, impegnati nel confronto bipolare in medioriente, con opinione pubblica filoisraeliana e invero desiderosi di ridurre l’indipendenza politico-strategico-energetica dell’Europa, anche prolungando artificialmente il dolore.

Il famoso embargo e taglio di produzione dell’OPEC inizia il 17 ottobre ma – contrariamente a ciò che afferma Kissinger – la politica europea adotta una linea filoaraba dalle prime ore del conflitto (non come reazione supplicante alla decisione araba) in continuità con quella tenuta dal 1967.

Allo scoppio delle ostilità, le capitali europee (compresa l’ancora franchista Madrid) notificano – in forma riservata o pubblica – a Washington l’impossibilità di usare le basi americane e NATO sul loro territorio per funzioni in qualsiasi modo collegate alla guerra nel Vicino Oriente, una problematica out of area – esterna ai territori degli stati membri dell’Alleanza Atlantica e all’Atlantico del Nord – in cui il sostegno americano ad Israele (gli europei non sono a conoscenza della collusione americana con Sadat) è opposto alla politica estera di quasi tutti i membri europei dell’Alleanza. Un ordine che gli USA ignoreranno, arrivando addirittura a mettere in allerta le proprie forze non solo convenzionali, ma anche nucleari, di stanza in Europa – in risposta all’offerta sovietica all’Egitto di invio di un contingente di “peacekeeper“, per liberare la terza armata, circondata da Israele successivamente ad un primo cessate il fuoco – mettendo di fatto l’Europa nella condizione di subire un olocausto nucleare per una guerra nell’ambito della quale non esisteva alcun dovere di solidarietà o azione comune.

Francia, Italia, Spagna, Danimarca, Belgio e in seguito Germania arriveranno anche a chiudere il proprio spazio aereo ai voli militari americani e i propri porti alle spedizioni relative alla guerra arabo-israeliana, una prescrizione anch’essa parzialmente ignorata.

La politica comunitaria non riesce a modificare la condotta americana, ma riesce – forte anche di una parallela scelta giapponese – ad ottenere esenzioni da alcuni tagli di produzione dell’OPEC e dall’embargo totale, che invece viene imposto a USA e Olanda (unico stato europeo-occidentale, insieme al Portogallo di Salazar, a seguire la linea americana). Anche grazie al “dialogo euro-arabo”, intavolato a sorpresa da Jobert durante un summit della Comunità.

L’Europa evita la devastazione totale e la deindustrializzazione, ma viene duramente colpita da un taglio di produzione/embargo che durerà diversi altri mesi (con nessuna fretta da parte americana affinché venisse tolto) e da una crisi energetica che diventerà di fatto permanente e strisciante, indebolendo il continente in maniera strutturale.

Come avevamo scritto sopra, il legame atlantico viene messo in tensione da due poli che vogliono tutti i vantaggi dell’alleanza senza sobbarcarsene alcun costo: Americani che vogliono un’Europa forte ma servizievole, europei che vogliono un’Europa demilitarizzata ma indipendente. Questo scontro non può che finire (nella cornice di un ultimatum di Nixon, un discorso del 18 marzo in cui minaccia di ritirare le truppe statunitensi dall’Europa) con un compromesso tra le due concezioni, nella fattispecie si ritorna ad una versione leggermente modificata dell’Europa demilitarizzata e servizievole degli anni ’40 e ’50, impossibilitata a seguire una politica estera veramente indipendente a causa della sua scelta di appoggiarsi agli USA per la difesa dei confini esterni, sintomo di un continente umiliato dalle due guerre mondiali, ancora incapace di pensare in termini di potenza (con forse l’eccezione della Francia) mentre il resto del mondo non ha mai cessato di farlo.

Sia chiaro: Non c’è mai un momento in cui gli europei “cedono” alla linea americana per imposizione di Washington; al contrario iniziano immediatamente dopo la guerra a sviluppare legami energetici con l’Unione Sovietica. La strategia europea viene semplicemente sconfitta sul campo, sconfitta da una realtà in cui l’Europa occidentale è una mera unione doganale, un ricco “giardino” (per usare le parole di Borrell) – o una ricca “casa di riposo”, per usare quelle di Zbigniew Brzezinski – incapace di plasmare a suo favore gli eventi sullo scacchiere geopolitico, neanche in una regione così vicina – dove riteneva fino a pochi anni prima un’influenza predominante – come quella del conflitto arabo-israeliano, a causa della sua impotenza militare.
Un giardino destinato a cadere lentamente in decadenza, in balia di volta in volta delle intemperie esterne o dei desideri del guardiano, che ha in mano le chiavi.

2022: LA STORIA SI RIPETE

Questa tendenza europea sembra riproporsi di nuovo in occasione della seconda “razionalizzazione” dell’impero americano, resa necessaria dalla crisi del 2008, dall’ascesa di Cina e altre grandi/medie potenze e dalle lunghe guerre di logoramento combattute dagli USA dall’inizio degli anni ‘2000. Razionalizzazione che culmina con la lunga guerra in Ucraina e con la storia che si ripete, questa volta come farsa.

Con un’Unione Europea che si comporta da protettorato nonostante una minaccia militare convenzionale ai suoi confini – rispetto agli anni ’70 – quantitativamente risibile, nonostante i Trattati prevedano un patto di mutua difesa (più stringente di quello Atlantico) le cui forze combinate sono perfettamente adeguate a confrontarsi con la Russia ad armi pari, senza necessità di tutele esterne (e lo sarebbero ancor di più con un minimo riarmo, ironicamente osteggiato proprio dalle sinistre europee e dalle figure televisive più critiche verso l’operato angloamericano in Europa). Che rinuncia finanche alle limitate leve usate negli anni ’70 per affermare il suo interesse ad evitare la deindustrializzazione. Che permette il bombardamento delle sue infrastrutture strategiche senza colpo ferire.

Lacerata da un conflitto interno tra “intermarium” (con sostegno anglofrancese e americano) e asse Roma-BerlinoBudapest – che la retorica prova invano a nascondere dietro l’immagine di un’Europa unita nella linea decisa dal blocco favorito dai rapporti di forza del momento e dalla maggiore vitalità (e indipendenza da centrali straniere) della sua leadership – nonostante un’unità dal punto di vista burocratico e formale nettamente maggiore di quella fornita dalla Comunità Europea nel 1973.

La ciliegina sulla torta: La “Vecchia Europa” non potrà – come ha fatto negli anni ’70 – “diversificare” le sue forniture energetiche sviluppando convenienti legami con una superpotenza nucleare, tramite pipeline che attraversano confini sicuri e recentemente stabilizzati come la cortina di ferro congelata dagli Accordi di Helsinki.

Le nuove forniture energetiche a cui in particolare l’Italia si affida – piagata al suo interno, come la Germania, dall’opposizione al nucleare, su cui paesi come Polonia e Francia invece giustamente puntano – arrivano dal rimland in ebollizione del mondo multipolare, dove l’Europa – se anche avesse una volontà unitaria – non avrebbe alcuna potenza reale da proiettare per influenzare gli eventi: Dall’Algeria dove influenti testate come l’Economist “prevedono” un cambio di regime, dall’Azerbaijan che combatte la sua piccola “Guerra del Kippur”, dalla Libia e l’Egitto dove l’instabilità locale si fonde con la guerra per procura tra paesi europei, dall'”equivoco” Qatar situato sulla linea di faglia della guerra fredda mediorientale.

L’unica fornitura stabile e sicura rimane, oltre a quella norvegese, via Polonia, quella – proibitivamente costosa e letale per la competitività industriale – proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico.
Situazione che non cambierà con la corsa alle rinnovabili: La non-volontà di estrarre almeno le terre rare presenti nel sottosuolo europeo, unita ancora una volta ad una debole proiezione militare e ad un’assenza di direzione unitaria, porterà l’approvvigionamento delle terre rare a sottostare alle stesse dinamiche di quello di gas e petrolio.

da qui

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