giovedì 30 maggio 2024

La commedia del lavoro – Tersite Rossi

 

Una storia che sa di finzioni spudorate, danni apocalittici e confessioni tragiche

 

Prima puntata di due

“La gente recita a destra e a manca la commedia del lavoro, recita la commedia dell’attività mentre in realtà poltrisce soltanto e non fa assolutamente nulla e di solito, per giunta, anziché rendersi utile provoca danni enormi”, lessi in un romanzo di Thomas Bernhard. L’austriaco lo scrisse nel 1986 e oggi, quarant’anni dopo, è ancora più vero, pensai mentre anch’io, nel mio ufficio, fingevo di lavorare. Eran vent’anni, ormai, che fingevo di lavorare.

Ero impiegato in un ufficio di cui nemmeno erano chiare le mansioni, un ufficio in qualche modo preposto all’informazione e alla comunicazione, solo che dell’attività di quell’ufficio non fregava in realtà assolutamente nulla a nessuno, e così io fingevo di lavorare dalla mattina alla sera. Non che me ne stessi a braccia conserte tutto il tempo, sia chiaro. Fingere di lavorare significa pur sempre fare qualcosa, solo che è qualcosa di completamente inutile, qualcosa di cui non frega niente a nessuno, qualcosa che se nessuno la facesse non cambierebbe nulla, assolutamente nulla.

Per fingere di lavorare io ho bisogno di un computer sempre acceso, di navigare su internet, persino di stampare documenti ogni tanto, e tutto questo ha un impatto economico e ambientale. Poi c’è l’impatto sociale e per così dire cognitivo del lavoro che fingo di fare tutti i giorni, contribuendo a quell’eccesso di informazione e comunicazione che oggi letteralmente rimbecillisce chiunque, non c’è scampo per nessuno, oggi, al flusso ininterrotto di idiozie che gente come me immette nel grande tubo dell’informazione e della comunicazione, e questo prima o poi porterà alla paralisi cognitiva e sociale, anzi lo sta già facendo, e allora il danno sarà bello grosso. Senza contare il danno che intanto subisce la mia vita sociale e psichica, azzerata da un dialogo costante ed esclusivo con una macchina, o meglio un insieme di macchine.

Così, mentre fingevo di lavorare, lessi quella frase in quel romanzo di Bernhard e decisi di prendermi una pausa da quel lavoro finto e uscire dall’ufficio, senza comunicarlo a nessuno, tanto nessuno se ne sarebbe accorto. Decisi di uscire fuori a vedere coi miei occhi quanto, come intuito da Bernhard ormai quarant’anni fa, praticamente tutti, oggi, fingano di lavorare, con l’aggravante, così Bernhard, di recitare la commedia fino al punto di affermare con solennità il contrario, ovvero che si ammazzano di lavoro: “Certo non li rimprovero per il fatto che loro, in realtà, fingono soltanto di lavorare e prendono per il naso il prossimo”, così Bernhard, “ma, mi dicevo sempre, non dovrebbero affermare a ogni piè sospinto che si ammazzano di lavoro”.

In strada incontrai uno spazzino, un operatore ecologico come si dice oggi, e notai che spazzava sempre lo stesso metro quadro, che era già pulitissimo ovviamente, e allora gli chiesi perché lo facesse, e lui reagì scortese e mi disse di farmi i fatti miei. Allora gli dissi che con me non doveva fingere, che avevo letto Bernhard e sapevo che tutti fingevano, anch’io fingo per tutto il santo giorno, gli dissi, ed ero lì solo per conoscere, capire, per cui le mie domande erano fini a se stesse e non avrebbero avuto conseguenze per nessuno. Lui allora posò la ramazza, si accese una sigaretta, aspirò forte il fumo e poi mi disse che la sua giornata di lavoro era di otto ore, ma se faceva tutto a velocità normale avrebbe finito di lavorare nel giro di quattro, poi nella seconda metà della giornata non avrebbe avuto nulla da fare, e allora avrebbero capito che bastavano la metà degli spazzini, e magari lo licenziavano, e questo doveva evitarlo assolutamente perché il suo reddito dipendeva unicamente da quel lavoro che peraltro, così lo spazzino, per buona parte era già stato affidato alle macchine, quelle enormi e rumorose spazzatrici che da sole, in un’ora, fanno un lavoro che prima ci volevano quattro uomini e il triplo del tempo per fare. Lo ringraziai per quella spiegazione e continuai il mio giro.

Entrai in un bar e dentro c’era un sacco di gente, prendevano il caffè, chiacchieravano, l’unico che lavorava era il barista ma anche lui, pensai, in realtà fingeva, e glielo dissi, tu stai fingendo di lavorare, e lui mi guardò e sorrise, perché era così che fingeva di lavorare, sorridendo continuamente a tutti anche se non aveva assolutamente nessun motivo di sorridere a tutti, perché se non lo avesse fatto, così pensava, supposi, avrebbe perso clienti e quindi, alla lunga, il lavoro che fingeva di fare tutto il giorno e dal quale dipendeva il suo reddito. Sorrise e mi disse che no, non era così, che lui si ammazzava di lavoro tutto il giorno. Allora gli spiegai cosa facevo lì, Bernhard eccetera, e allora lui mi servì il caffè e poi, mentre lo sorseggiavo, mi disse che sì, era vero, il suo lavoro non serviva assolutamente a nulla, così quel barista, testuale, assolutamente a nulla, disse, perché la gente il caffè poteva farselo a casa la mattina e non era necessario prenderne così tanti durante il giorno, se le persone bevevano tutti quei caffè dentro bar come il suo era perché sentivano invincibile il bisogno di prendersi una pausa dai loro lavori completamente inutili, così il barista, testuale, completamente inutili, disse, perché prendere una pausa da un lavoro che si finge di fare è il modo migliore per fingere di fare un lavoro, così il barista, e alla fine anche fingere di lavorare è logorante, anzi, lo è molto di più che lavorare davvero, e così venivano nel suo bar e bevevano caffè che potevano farsi a casa la mattina prima di uscire o potevano evitare del tutto di bere, lo pagavano cento volte di più del suo valore e in più gli faceva male, perché bere tutto quel caffè distruggeva lo stomaco, disse, e aggiunse che anche il suo era distrutto, perché, a forza di fingere di lavorare pure lui tutto il giorno col caffè sempre a portata di mano, ne beveva più di tutti e il suo stomaco ormai era una poltiglia, così il barista, testuale, una poltiglia, disse. Finii di bere il mio caffè, pagai, lo ringraziai e uscii.

Camminai fino alla biblioteca comunale, che aveva sede in un palazzo storico, magnifico, costruito con un gusto estetico che oggi manca completamente, il gusto di quando si lavorava davvero e non per finta, pensai. Andai dal bibliotecario e gli chiesi cosa stesse facendo, e lui mi disse che non stava facendo niente. Lo ringraziai per avermi risparmiato la commedia del lavoro e lui mi spiegò che aveva letto Bernhard, che quel romanzo lo aveva lì, il suo ultimo, grandioso romanzo, il suo testamento letterario, disse. Prese il libro da un’altissima pila di libri, una pila di libri che dava l’impressione di essere lì impilata da secoli, e aprì alla pagina dove l’austriaco rifletteva sulla commedia del lavoro, e me la lesse ad alta voce, riflessioni che avevano ormai quarant’anni e oggi erano ancora più attuali, disse il bibliotecario. La gente non leggeva più niente, disse poi sempre ad alta voce, in quel luogo silenzioso dove la sua voce rimbombava come una cannonata, e così il suo lavoro non serviva più, le biblioteche non servivano più, perché la gente ormai leggeva solo i post sui social network, non era nemmeno lettura quella, così il bibliotecario, nemmeno lettura, disse, solo scrolling, così il bibliotecario, scrolling, disse, e questo perché ormai la gente non aveva più nemmeno le capacità cognitive necessarie a leggere libri, perché quello stesso scrolling le aveva devastate con l’effetto di un’esplosione nucleare, così il bibliotecario, un’esplosione nucleare dentro i nostri cervelli, anche il suo e il mio, disse, non pensassimo noi di esserne immuni, eravamo tutti contagiati, così il bibliotecario, testuale, contagiati, disse, e poi tornò a far niente. Lo ringraziai e uscii.

https://tersiterossi.substack.com/p/la-commedia-del-lavoro-1

 

La commedia del lavoro (2)

 

Seconda e ultima puntata

 

Mi allontanai dal centro urbano. Giunto in periferia, mi fermai nei pressi del grande cantiere di un palazzo e mi misi a discorrere con uno degli operai, intento a gettare del cemento. Gli chiesi se anche lui stava fingendo di lavorare, anche se già avevo visto che stava fingendo, non c’era alcun dubbio che stesse spudoratamente fingendo. Lui si guardò attorno furtivo e poi, a bassa voce, mi disse che non era colpa sua, il lavoro che gli avevano affidato era quello, che per pietà non lo denunciassi al padrone, altrimenti per lui era finita, così l’operaio, finita per sempre, disse. Gli dissi di stare tranquillo, che ero solo un passante che aveva letto Bernhard e voleva la conferma che più o meno tutti, oggi, fingano di lavorare. Allora lui si tranquillizzò, posò la pala e mi disse che era quel palazzo, di per sé, a essere completamente inutile, così l’operaio, testuale, completamente inutile, disse, perché di edifici ce n’erano già ovunque a centinaia, sarebbe bastato ristrutturarli anziché costruirne di nuovi, peraltro orribili, mentre quelli di una volta erano esteticamente pregevoli, realizzati da individui che non erano alienati dal loro lavoro, così l’operaio, testuale, individui che non erano alienati dal loro lavoro, disse, e di conseguenza il frutto del loro lavoro era bello, e confortevole, e sensato, mentre di quel palazzo che stavano costruendo, come delle altre centinaia di palazzi che venivano costruiti in quella città, tutto era insensato, dalle vetrate lucide e glaciali, al numero infinito di piani, ai controsoffitti che celavano brutture orripilanti, alle tonnellate di ferro e cemento, al sistema di aria condizionata, soprattutto il sistema di aria condizionata era un’aberrazione mostruosa, così l’operaio, testuale, un’aberrazione mostruosa, disse, un infinito reticolo di canaline da cui sarebbe fuoriuscita aria tossica che avrebbe inquinato inesorabilmente le menti di chi avrebbe abitato quegli uffici, dove un mucchio di gente avrebbe finto di lavorare proprio come stava facendo lui ora, causando solo danni enormi e irrimediabili, così l’operaio, testuale, danni enormi e irrimediabili, disse, danni apocalittici, aggiunse. Poi tornò a gettar cemento e io me ne andai.

Continuai a camminare e raggiunsi la zona industriale. Mi avvicinai a uno dei tanti capannoni, dove andavano e venivano rapidi innumerevoli muletti, trasportando imballi d’ogni genere. Qui pare lavorino con grande lena, pensai, e in realtà la grande lena è tutta finzione. Lo dissi al tizio in giacca e cravatta, probabilmente un dirigente, che in quel momento stava varcando il cancello d’ingresso. Lui mi guardò e mi chiese se ero uno di quegli attivisti o peggio un sindacalista. Io gli risposi di no, che avevo semplicemente letto Bernhard eccetera, e che volevo solo sapere la verità, niente di più. Allora lui mi disse che dentro quel capannone veniva stoccato ogni tipo di merce, era un centro di stoccaggio per il commercio elettronico, ma quello che stava per dirmi, disse, valeva per qualsiasi altro stabilimento industriale, così quel dirigente, testuale, qualsiasi altro stabilimento industriale, disse. Tutto il sistema produttivo, disse, si basava su una domanda artificiale, drogata per così dire, e di conseguenza ogni tipo di merce, in realtà, veniva prodotta in quantità eccessiva, e gran parte di quelle merci, senz’altro la maggioranza di quelle che loro stoccavano nel loro capannone, era completamente inutile, oltre che prodotta in modo pessimo, dozzinale, per fare in modo che tutto si rompesse nel giro di poco tempo e la gente ne comprasse ancora, e ancora, e ancora, in un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, così il dirigente, testuale, un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, disse, un ciclo che stava trasformando il pianeta, aggiunse, in un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, così il dirigente, testuale, un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, disse. Poi fermò uno dei muletti e ordinò all’operaio che lo stava guidando di aprire l’imballaggio che trasportava. L’operaio obbedì e il dirigente estrasse dall’imballaggio un albero di Natale e mi chiese, semplicemente: “Lo vede?”, e lo ripeté: “Lo vede?”. E io gli dissi che sì, lo vedevo, lo vedevo benissimo, non l’avevo mai visto così bene, gli dissi. Poi lo ringraziai e me ne andai.

Continuai a camminare e arrivai in campagna. Lì si produceva cibo, e nessun lavoro è più necessario della produzione di cibo, eppure anche lì fingevano di lavorare, pensai. M’imbattei in un contadino che stava vendemmiando e glielo dissi, gli parlai di Bernhard eccetera, della mia volontà di sapere solo la verità, gli dissi, nient’altro che la verità. E quello ammise che sì, in effetti era così, fingevano pure loro. M’indicò l’uva che stava vendemmiando e mi disse che non era più nemmeno cibo, quello, che se fosse stato cibo avrebbe potuto offrirmelo e avrebbe potuto mangiarne anche lui, ma non era più cibo, quello, ripeté, perché era velenoso innanzitutto, pieno di pesticidi, roba tossica all’inverosimile, e poi perché serviva a produrre vino, non a sfamarsi, producevano uva, disse, ma non per sfamare la gente, solo per produrre vino. Eppure tutti mangiamo, gli dissi, e lui rispose che sì, era vero, tutti mangiamo, ma il cibo che mangiamo, oggi, è tutto quanto tossico senza eccezioni, così il contadino, testuale, tutto quanto tossico senza eccezioni, disse, e non è più nemmeno cibo, perché ha un grado di sofisticazione che non lo si può più nemmeno chiamare cibo, disse, e quindi quando lo ingeriamo non stiamo mangiando, disse, ma ci stiamo soltanto avvelenando. Oggi si produce cibo non per sfamare la gente, aggiunse, ma per fare soldi, monocolture della vite, della mela, di qualsiasi cosa, solo per fare soldi, non per sfamarsi. Il fatto che con quel cibo prodotto solo per fare soldi la gente si sfami, o meglio abbia la sensazione di sfamarsi mentre si avvelena, è un aspetto incidentale, così il contadino, testuale, meramente incidentale, disse, un effetto collaterale di questa gigantesca, ottusa fabbrica di soldi a mezzo cibo, monocolture il cui prodotto è destinato in gran parte alle bestie, così il contadino, a tutte le bestie ammassate dentro stalle enormi in tutto il mondo, disse, miliardi di capi di bestiame allevati per produrre carne del tutto priva di proprietà nutritive, inevitabilmente tossica anch’essa, che non serve a sfamare la gente ma a fare soldi che servono a comprare altro cibo tossico e altra roba inutile, e così via in una catena apparentemente eterna che stritola il mondo e che però prima o poi finirà per spezzarsi, e allora tutta quanta questa gigantesca finzione del lavoro inutile e dannoso crollerà in mille pezzi con un boato assordante, così il contadino, tutta quanta questa finzione crollerà in mille pezzi con un boato assordante, disse, insieme a tutto il resto, aggiunse. Io annuii gravemente, lo salutai e tornai sui miei passi.

Rientrai in ufficio, dove la mia assenza non aveva prodotto alcun effetto e dove nessuno si era nemmeno accorto della mia assenza. E lì, indaffarato, ricominciai a fingere di lavorare.

Le frasi di Thomas Bernhard sono tratte da “Estinzione”, Adelphi 1996 (traduzione di Andreina Lavagetto).

da qui

Nessun commento:

Posta un commento