PNRR: una, nessuna o
cinquecentoventotto condizioni – coniarerivolta
Il
cosiddetto Recovery Fund, noto anche come Next Generation EU, attribuisce
all’Italia 191 miliardi di euro che saranno trasferiti al Paese tra il 2021 e
il 2026, suddivisi in 69 miliardi di euro a fondo perduto e 122 miliardi di
euro di prestiti, da rimborsare alle istituzioni europee. Queste risorse vanno
a finanziare gli interventi raccolti nel Piano Nazionale di Ripresa e
Resilienza (PNRR).
In un mondo
dominato dal denaro si sente spesso dire che seguendo i soldi – focalizzando
l’attenzione sui soli flussi finanziari – si possono svelare le dinamiche
fondamentali della società. Seguire la traccia dei soldi porterebbe dritti al
cuore delle meccaniche del sistema. Nel caso del PNRR questa massima perde
buona parte della sua credibilità: i soldi del PNRR sono forse la parte meno
rilevante del Piano, e proveremo a dimostrarlo concentrando la nostra
attenzione sulle centinaia di condizioni a cui è stata subordinata
l’erogazione dei fondi. I soldi, insomma, sono solo l’esca, mentre il
contenuto politico del PNRR è racchiuso nelle clausole che vanno rispettate per
ottenere quelle risorse.
Abbiamo già
avuto modo di sottolineare l’assoluta inadeguatezza del finanziamento messo a disposizione dalla
Commissione Europea: quei soldi, nonostante le apparenze, sono insufficienti a
garantire qualsiasi ripresa. Nel dibattito pubblico, però, si è fatta strada
un’idea di apparente buon senso: fossero anche pochi, sono comunque un
contributo alla crescita del Paese, ed un contributo finalmente libero dalle
condizioni capestro che, nel decennio passato, hanno messo in ginocchio la
Grecia e tutti gli altri Paesi che si sono imbattuti nei fatidici “aiuti”
europei. Insomma, si dice, il Recovery Fund fornisce finanziamenti
incondizionati: niente austerità, solo soldi, perché avremmo dovuto rifiutarli?
Semplicemente,
perché – come proveremo a mostrare sulla base della documentazione
istituzionale disponibile – questi soldi portano con sé la vecchia austerità in
una forma nuova e ancora più pervasiva. Infatti, le risorse del PNRR
arriveranno all’Italia sotto forma di dieci rate semestrali di prestiti e dieci
rate semestrali di contributi a fondo perduto, e l’erogazione di ciascuna rata
è subordinata, da un lato, alla solita disciplina di bilancio (per l’appunto,
la vecchia austerità fatta di tagli alla spesa pubblica e tasse), e dall’altro
ad un dettagliatissimo piano di riforme – illustrate nel PNRR – che convergono
sull’obiettivo di abbattere gli ultimi residui di stato sociale e
trasformare il nostro modello economico in una moderna economia di mercato al
servizio del profitto privato. Dunque, ogni euro di PNRR porta con sé
decine e decine di euro di tagli alla spesa sociale, per via delle rigide
regole di bilancio europee che impone, accompagnati a quelle riforme del
sistema economico che servono a ridurre ulteriormente il perimetro dei diritti
sociali per favorire l’espansione, senza limiti, del profitto di pochi.
Dopo circa
un anno di dibattito in cui ci è stato raccontato che il Recovery Fund sarebbe
stato un aiuto incondizionato, ha fatto irruzione la realtà, sotto forma dell’Allegato riveduto della Decisione di esecuzione del Consiglio
relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la
resilienza dell’Italia, un documento che illustra nel dettaglio ben 528 (già,
cinquecentoventotto!) condizioni negoziate tra Italia e
Commissione Europea per l’erogazione delle 20 tranche del finanziamento. Il
documento riporta con precisione tutte le condizioni suddivise per tranche di
finanziamento: sappiamo, insomma, cosa dobbiamo esattamente fare per ricevere
ogni sei mesi una parte di quei 191 miliardi di euro.
L’Italia si
è quindi impegnata a realizzare una serie di riforme nei prossimi sei anni, su
un arco temporale che supera abbondantemente l’orizzonte politico del governo
in carica. Non importa quali siano i prossimi governi, cosa votino i cittadini,
quali maggioranze parlamentari possano affermarsi: fino a che l’Italia resta
nel campo della compatibilità con la cornice istituzionale dell’Unione Europea,
il Paese ha già tracciato davanti a sé un programma politico che, passando per
le tappe forzate scandite dal PNRR, eroderà i residui diritti sociali e
imporrà, in misura ancora più pervasiva, l’interesse privato di pochi sul
benessere collettivo della popolazione. Il principio che si afferma con il PNRR
è chiaro: la politica economica del nostro Paese viene esplicitamente
determinata all’infuori del processo democratico. Non più solamente per
quanto riguarda i livelli di spesa pubblica, limitati entro i vincoli di
bilancio imposti da Maastricht in poi, ma anche il suo contenuto e tutte le
riforme che fanno da contorno al processo di deregolamentazione dei mercati in
favore dei profitti privati.
Le 528
condizioni si suddividono in 214 traguardi da raggiungere e 314 obiettivi
quantitativi da conseguire per il tramite di 63 riforme e 151 investimenti. Per
avere un’idea di quello che significa aver accettato il ricatto del PNRR, basta
soffermarsi sulla prima tranche da 24 miliardi che sarà erogata entro il 31
dicembre 2021, suddivisa in una rata di prestiti (12,6 miliardi) ed una rata di
contributo a fondo perduto (11,4 miliardi) che saranno erogati solo
subordinatamente al rispetto di ben 51 condizioni, puntualmente definite nel
documento citato. Cosa ci siamo impegnati a fare entro la fine dell’anno per
ottenere questi 24 miliardi di euro?
Un primo
pacchetto di condizioni riguarda alcune riforme di contesto, in primis semplificazione
delle procedure amministrative, appalti pubblici e concessioni e giustizia.
Rientra in tale ambito il Dl 77/2021, recentemente approvato dal Parlamento e
che deregolamenta pesantemente le procedure di appalto, derogando ad una serie
di prescrizioni poste a tutela dell’ambiente e della legalità delle procedure.
La parola d’ordine, come si può leggere nel PNRR, è velocizzare le procedure.
Ma questo che cosa significa, concretamente? Ce lo dice l’art. 44 del Dl
77/2021, scritto apposta per onorare questo impegno con l’Europa: significa
eliminare una serie di controlli e verifiche preliminari della fattibilità
tecnica, ambientale e archeologica dei lavori pubblici, in modo tale da
consentire quel selvaggio sviluppo urbano che insegue le speculazioni edilizie
– servendo aree deserte con stazioni della metropolitana – a discapito del
patrimonio pubblico fatto di ambiente, paesaggio e cultura, tutti beni
sacrificabili sull’altare del PNRR. Dunque, per arrivare a questi miliardi
promessi dell’Europa abbiamo smontato di fatto le norme che limitano il
sub-appalto – una tutela contro la criminalità organizzata e in difesa della
sicurezza sul lavoro – e quelle che impongono le Valutazioni di Impatto
Ambientale (VIA) degli investimenti, aprendo la strada alla sistematica
distruzione dell’ambiente da parte della speculazione. Si potrebbero
velocizzare i lavori moltiplicando gli sforzi per garantire che le opere
pubbliche rispettino i vincoli paesaggistici, archeologici, ambientali ed
urbanistici, sviluppando ad esempio una rete di trasporto pubblico locale in
armonia con il tessuto urbano. Ma perché spendere tante risorse per il bene
comune, se si possono velocizzare le procedure tagliando controlli e verifiche
di sicurezza, ovvero quei lacci che spesso rallentano la corsa alla
speculazione?
In tema di
giustizia, le istituzioni europee hanno preteso una riforma lampo del processo
civile e del processo penale: per accelerare i tempi della giustizia, tempi
oggettivamente troppo dilatati, si è scelta la via della mera semplificazione
delle procedure, una scelta tutta politica che favorisce, puntualmente, la
parte più forte. Per esempio, la riduzione dei termini di durata dei processi
penali consentirà, a chi ha le risorse per organizzare al meglio la propria
difesa, di cavarsela trascinando il processo per le lunghe. Alla stessa
maniera, l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione immobiliare
consentirà alle banche e ai palazzinari di realizzare molto più rapidamente i
pignoramenti delle case dei debitori che – spesso per difficoltà lavorative –
perdono la capacità di onorare un mutuo: ridurre i tempi per il pignoramento e
lo sfratto dei nuclei famigliari insolventi significa erodere le possibilità
che queste famiglie recuperino una fonte di reddito. Ma non possiamo certo
perdere tempo dietro all’emergenza abitativa delle famiglie povere, vogliamo la
prossima rata del Recovery Fund!
La
realizzazione delle centinaia di progetti contenuti nel PNRR da parte delle
amministrazioni pubbliche, inclusi gli enti locali, imponeva una qualche forma
di rafforzamento della loro capacità amministrativa: forze fresche per gestire
il piano nel rispetto dei tempi stabiliti con l’Europa. Poteva essere, questo,
un felice effetto collaterale della trappola del Recovery: un generalizzato
rafforzamento della macchina statale. Ovviamente non sarà così, perché è fatto
divieto di impiegare le risorse del PNRR per finanziare assunzioni a tempo
indeterminato. Di conseguenza, tutti i rinforzi chiamati a collaborare
all’attuazione del PNRR saranno assunti sì nel pubblico impiego, ma con
contratti a tempo determinato, realizzando la più grande operazione di
precarizzazione del lavoro pubblico mai vista. A partire dalla prossima
scadenza del 31 dicembre 2021, quando siamo impegnati ad assumere 2.800 tecnici
a tempo determinato per la gestione dei fondi europei nel Mezzogiorno e 1.000
incarichi professionali per la gestione delle procedure complesse connesse
all’attuazione del PNRR; unitamente al concorso per 500 esperti a tempo
determinato per la rendicontazione dei progetti, e considerando lo scorrimento
delle graduatorie, si tratta di circa 5.000 nuove unità di lavoratori del
settore pubblico reclutati a termine, una trasformazione radicale che va a devastare
l’ultimo avamposto del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ovvero il
pubblico impiego. Ecco un’altra condizione capestro: la creazione di precari
ricattabili in luogo di lavoratori tutelati, a tutto vantaggio dell’industria
privata, che sul ricatto dell’insicurezza lavorativa fonda i suoi profitti.
Il quadro
fin qui tracciato è già sufficiente a smentire la favola propagandistica dei
soldi che piovono dal cielo per risollevare le economie europee colpite dalla
pandemia. Il problema, però, è che non siamo neanche a metà del guado per
quanto riguarda le condizioni da rispettare per accedere esclusivamente
alla prima tranche di aiuti…
Abbiamo provato a delineare quali sono alcune delle
principali condizioni che l’Italia si è impegnata a soddisfare per avere
accesso ai fondi del Recovery Fund. Ci eravamo però lasciati senza finire il
discorso, che purtroppo ha ulteriori aspetti dirompenti e preoccupanti.
Per il
profitto privato, il PNRR è anche un’occasione d’oro per consumare qualche
vendetta, come quella sul referendum per l’acqua pubblica del 2011, quando 26
milioni di italiani sancirono la natura pubblica di questo bene di prima
necessità e della sua gestione. Tra le condizioni da rispettare per il prossimo
dicembre, infatti, si legge anche di una “Riforma del quadro giuridico per una
migliore gestione e un uso sostenibile dell’acqua”, una misura “per garantire
la piena capacità gestionale per i servizi idrici integrati”. Basta approfondire la documentazione del
PNRR per
scoprire che questo significa “rafforzare l’industrializzazione del settore
favorendo la costituzione di operatori integrati, pubblici o privati e
realizzando economie di scala per una gestione efficiente degli investimenti e
delle operazioni”. Ecco che la prima tranche di Recovery Fund
diventa un grimaldello per riformare la normativa sulla gestione dell’acqua
favorendone la privatizzazione, affermando un modello di multiutility (da
qui l’enfasi sulla natura integrata del servizio) che calpesta il diritto
all’acqua per garantire l’accumulazione di profitti e rendite monopolistiche
(da qui, invece, l’enfasi sulle economie di scala).
La foga
liberalizzatrice e privatizzatrice del PNRR non si ferma, ovviamente, qui. Ci
siamo, infatti, impegnati a riformare i dottorati “al fine di coinvolgere
maggiormente le imprese e stimolare la ricerca applicata”, con lo scopo di
“semplificare le procedure per il coinvolgimento di imprese e centri di ricerca
e rafforzando le misure per la costruzione di percorsi di dottorato non
finalizzati alla carriera accademica”. Questo significa orientare la ricerca
pubblica verso quei settori che sono in grado di produrre profitti, ovviamente
privati, a discapito della ricerca nei settori di interesse collettivo. Ma il
PNRR in tema di università contiene dell’altro: entro la fine dell’anno, deve
entrare in vigore una “legislazione volta a modificare le norme vigenti in
materia di alloggi per studenti”. Il Piano prevede poco meno di un miliardo di
euro per la realizzazione di nuovi alloggi per gli studenti, il che sarebbe
sicuramente utile. Però, prima che i soldi siano spesi, pretende – per
l’appunto come condizione per l’erogazione di questa prima tranche –
che siano modificate le norme sugli alloggi in modo da garantire che quelle risorse
vadano a fine nelle mani giuste, cioè a ditte private che fanno profitti
sull’erogazione di quello che dovrebbe essere il diritto allo studio assicurato
dallo Stato. Basta leggere il testo del PNRR (p. 187) per capirlo: “La
misura si basa su un’architettura innovativa ed originale, che ha l’obiettivo
di incentivare la realizzazione, da parte dei soggetti privati, di nuove
strutture di edilizia universitaria attraverso la copertura anticipata, da
parte del MUR, degli oneri corrispondenti ai primi tre anni di gestione delle
strutture stesse.” Ottimo: i soggetti privati prendono i finanziamenti, e lo
Stato copre le spese di gestione della struttura per i primi tre anni, dunque
costi pubblici e profitti privati. Tutto chiaro, fuorché il carattere
“innovativo e originale” della misura. Questo è il ruolo centrale della riforma
che siamo impegnati a realizzare entro dicembre, per modificare le norme in materia
di alloggi studenteschi (L. 338/2000 e d.lgs. 68/2012) in modo tale da
garantire “l’apertura della partecipazione al finanziamento anche a investitori
privati, o partenariati pubblico-privati”. Ma non solo: perché la tavola per
gli speculatori privati sia ben apparecchiata, la misura va ben oltre il mero
accesso ai finanziamenti, e prevede “supporto della sostenibilità degli
investimenti privati, con garanzia di un regime di tassazione simile a quello
applicato per l’edilizia sociale, che però consenta l’utilizzo flessibile dei
nuovi alloggi quando non necessari l’ospitalità studentesca” ed anche
“adeguamento degli standard per gli alloggi, mitigando i requisiti di legge
relativi allo spazio comune per studente disponibile negli edifici in cambio di
camere (singole) meglio attrezzate”. Dunque, i fortunati gestori privati di
queste strutture potranno usufruire delle agevolazioni riservate all’edilizia
sociale, con addirittura la possibilità di destinare gli alloggi ad usi diversi
dall’ospitalità degli studenti fuori sede e, infine, la ciliegina sulla torta
di un “adeguamento degli standard” che consentirà di massimizzare il numero di
alloggi a discapito dello spazio comune, proprio perché quegli alloggi devono
potersi trasformare in vere e proprie camere d’albergo da affittare a chiunque.
Se vogliamo questa prima tranche, dunque, possiamo definitivamente
dire “ciao” a quella parte fondamentale del diritto allo studio che richiede la
moltiplicazione degli alloggi per gli studenti fuori sede.
Un destino
simile attende la sicurezza di strade, autostrade, ponti, viadotti e
cavalcavia, infrastrutture per la cui manutenzione sono stati stanziati nel
Piano più di un miliardo di euro, denaro che sarà erogato solo dopo
un’opportuna modifica del quadro normativo, inclusa tra le condizioni della
prima tranche di contributo. La riforma “prevede il
trasferimento della titolarità di ponti, viadotti e cavalcavia sulle strade di
secondo livello a quelle di primo livello (autostrade e strade statali), in
particolare dai Comuni, dalle Province e dalle Regioni allo Stato”. Dal momento
che, per effetto della riforma, “la manutenzione di ponti, viadotti e
cavalcavia sarà di competenza dell’ANAS e/o delle società concessionarie
autostradali”, questo significa di fatto regalare alle società concessionarie
autostradali anche la gestione della miriade di strade di secondo livello
(comunali, provinciali e regionali) proprio nel momento in cui vengono
stanziati fondi per la manutenzione. Quindi prima si fanno crollare i ponti per
carenze di manutenzione, e poi, quando lo Stato – e non i privati – finanziano
la manutenzione, di colpo i privati vengono investiti anche della titolarità di
ponti, viadotti e cavalcavia di competenza degli enti locali.
Gli impegni
presi in sede europea interessano anche il mercato del lavoro, dove siamo
impegnati a varare il decreto interministeriale che istituisce il programma
nazionale “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (GOL) ed il decreto
interministeriale che istituisce il Piano Nazionale Nuove Competenze. Sappiamo
che i nostri governanti, nazionali ed europei, non dormono la notte a causa del
reddito di cittadinanza. Quello strumento era stato pensato non certo per aiutare i lavoratori, concedendogli una piccola quantità di denaro in cambio dell’impegno ad
accettare i peggiori lavori in circolazione, ma è stato attuato solo per la
parte che garantisce un reddito a chi il lavoro non ce l’ha, senza implementare
mai il secondo pilastro della misura, quello che subordina l’erogazione del
reddito all’accettazione di lavoretti precari e mal pagati. Il GOL allude a questa garanzia di
occupabilità: assicurare che i percettori di reddito di cittadinanza, ma anche
di NASPI e di cassa integrazione straordinaria, siano costretti – pena la
perdita immediata del contributo – ad accettare le proposte di lavoro più
misere. Riportare il reddito di cittadinanza nell’alveo delle armi da usare contro
lavoratori e disoccupati, questo è l’obiettivo dello sforzo riformatore delle
politiche attive del lavoro che dobbiamo varare entro fine anno.
Un’altra
condizione da rispettare per ottenere la prima tranche è la
“semplificazione delle procedure e il rafforzamento dei poteri del Commissario
nelle Zone Economiche Speciali”. Le ZES, Zone Economiche Speciali, sono tutte
quelle aree del Mezzogiorno in cui è stato istituito un regime di
semplificazioni e agevolazioni fiscali pensato per attrarre investimenti
privati. Si tratta di una deregolamentazione selvaggia del Sud, imposta con una
forma di stato di emergenza governata da un Commissario che agisce in deroga ad
una serie di prescrizioni del codice degli appalti, delle procedure di
fattibilità (con un’estensione sconsiderata del dispositivo del silenzio
assenso) e addirittura della normativa antimafia, con il solo scopo di favorire
il profitto privato al di là delle regole valide nel resto del Paese, e con la
scusa che questo trattamento di favore si dovrebbe riverberare poi in un
maggiore sviluppo del Mezzogiorno. Il messaggio dell’Europa, su questo
versante, è chiaro: se vogliamo i soldi del PNRR, dobbiamo potenziare il
meccanismo delle ZES, ovvero un modello di sviluppo basato sull’idea che la
crescita si produce solo a discapito della sicurezza del lavoro, dell’ambiente,
della lotta alla criminalità, delle regole urbanistiche e di tutto ciò che
determina il benessere collettivo.
Concludiamo
questa rapida disamina delle più significative tra le 51 condizioni
associate alla prima tranche di finanziamento del PNRR con
un capitolo dedicato ai soldi destinati alle imprese. Perché i progetti
infrastrutturali partano, cioè affinché le successive tranche del
PNRR siano sbloccate, l’Europa ci chiede in prima battuta di assicurare una
pioggia di denaro ad alcuni specifici settori industriali. Con la proroga del
Superbonus, si regala il famoso 10% dell’investimento a banche e multinazionali
del settore delle costruzioni, che garantiscono le ristrutturazioni ecosostenibili
anticipando il 100% delle risorse necessarie (è il lavoro delle banche, ci
mancherebbe), ma accaparrandosi il 10% aggiuntivo gentilmente messo a
disposizione dallo Stato. Siamo poi impegnati a varare l’invito per individuare
i beneficiari di 1,5 miliardi di aiuti di Stato autorizzati dalla Commissione
Europea nel settore della microelettronica tramite il Fondo IPCEI, a
rifinanziare il Fondo 295/81 gestito dalla SIMEST per favorire l’internazionalizzazione delle
imprese con 1,2 miliardi di euro, a sostenere l’imprenditorialità femminile con
20 milioni di euro a fondo perduto e a sovvenzionare, con una serie di fondi,
le imprese del turismo con oltre 1,8 miliardi di euro. Ecco che la prima tranche condiziona
la destinazione di una quota cospicua delle risorse da sbloccare a
trasferimenti al mondo delle imprese, rafforzandone i margini di profitto.
Il viaggio
nelle 528 condizioni del PNRR è appena iniziato, siamo solo alla prima delle dieci tranche previste,
eppure dovrebbe essere chiaro quale sia la posta in gioco. Dietro alla promessa
di infrastrutture per il Paese e un ritorno alla crescita si cela un tessuto di
riforme e investimenti che convergono sullo scopo di rafforzare la profittabilità
delle imprese private a discapito del benessere collettivo e dei diritti
sociali, minacciati da un programma di privatizzazioni e deregolamentazioni che
si impone sull’agenda politica delle singole forze parlamentari, proprio in
virtù del meccanismo di condizionalità che caratterizza il PNRR. Le riforme che
ci siamo impegnati a varare entro il prossimo dicembre, di cui abbiamo qui
brevemente discusso, non sono contenute nel programma politico di alcun
partito, non sono sottoposte ad alcun dibattito, sono la costituzione materiale
di una nuova forma di austerità che sta determinando gli assetti fondamentali
della nostra organizzazione economica e sociale mese dopo mese, condizione dopo
condizione, tranche dopo tranche di questo
grandioso piano di aiuti europei.
La catastrofe - Andrea Zhok
Forse è
venuto il momento di riconoscere un semplice fatto: la gestione sanitaria della
pandemia da parte delle istituzioni italiane non è stata problematica, non è
stata difettosa, è stata semplicemente catastrofica. Nonostante l’abnegazione e
la volontà di numerosi medici a 19 mesi dallo scoppio della pandemia di
Covid-19 possiamo concludere che fare peggio sarebbe stato assai arduo.
Quest’amara
constatazione diviene particolarmente doverosa oggi, nel momento in cui sulla
scorta di una ridicola equazione tra “Scienza” e “Istituzioni della politica
sanitaria nazionale” si continuano a far passare per verità accreditate nozioni
prive di fondamento scientifico, ma gradite agli indirizzi governativi.
Partiamo da
qualche dato.
L’Italia ha
i peggiori dati al mondo in termini di letalità da Covid.
Diversamente
dalla mortalità, che è più soggetta a variabili incontrollabili, il dato della
letalità, cioè il rapporto tra il numero delle persone contagiate e il numero
delle persone decedute, è un indicatore piuttosto affidabile circa la qualità
degli interventi terapeutici messi in campo nei confronti delle persone
ammalate.
Vediamo così
che per gli USA a fronte di 44,214,497 casi di Covid troviamo 714,098 decessi,
per una letalità del 1,61%;
per la
FRANCIA abbiamo 7,008,228 casi con 116,657 morti, per una letalità dell’1,65%;
per la SPAGNA
abbiamo 4,959,091 casi e 86,415 morti: letalità 1,74%;
stessa
letalità dell’1,74% per il REGNO UNITO (7,807,036 casi - 136,662 morti);
il BELGIO,
il paese con la gestione sanitaria più scadente, dove il virus è stato lasciato
circolare liberamente nelle case di riposo troviamo una letalità del 2,05%
(1,242,821 casi - 25,595 decessi)
il confronto
con i vicini olandesi è impietoso: OLANDA: 2,003,050 casi - 18,170 morti,
letalità 0,90%;
la SVEZIA,
il paese che ha preso la strada molto discutibile di non fare alcun intervento
straordinario, accettando un elevato prezzo in termini di vite umane ha una
letalità complessiva dell’1,28% (1,152,886 casi - 14,822 morti)
Qualcuno ora
dirà, come si disse all’inizio, che i nostri molti decessi erano dovuti all’età
avanzata della popolazione italiana, tuttavia l’età media italiana, che è
davvero tra le più elevate al mondo, è sostanzialmente identica a quella del
Giappone (che è in effetti un po’ più anziano) e della Germania (che è un po’
al di sotto).
E invero la
GERMANIA ha dati di letalità poco brillanti: 4,235,721 casi - 94,214 decessi:
letalità 2,21%, peggiore del Belgio; il GIAPPONE tuttavia presenta una letalità
clamorosamente inferiore 1,699,636 casi - 17,605 decessi, letalità 1,03%
(praticamente la metà di quella tedesca).
E che dire
dei dati italiani?
Diciamo che
non c’è competizione: con 4,668,261 casi e 130,870 decessi la letalità del
Covid in ITALIA batte strepitosamente tutti i concorrenti con un bel 2,80%.
Ora, nel
momento della prima emergenza era di cattivo gusto far notare il ruolo
plausibilmente giocato dalla precedente strage di risorse sanitarie, di posti
letto, ecc. Non solo. Scoprimmo anche ben presto che il piano pandemico
nazionale mancava, e che le critiche mosse da ricercatori dell’OMS a questo fatto
erano state fatte rimuovere sollecitamente dai siti da un intervento di alte
cariche istituzionali.
Però, con
grande senso di responsabilità, nel momento della difficoltà quasi nessuno
insistette su queste clamorose mancanze: ci siamo stretti assieme e abbiamo
evitato polemiche, per quanto ce ne fossero ampiamente gli estremi.
Poi però il
tempo è passato, i protocolli che consigliavano interventi sanitari precoci
erano noti, ma rimasero completamente ignorati. Si proseguì con “tachipirina e
vigile attesa”, concentrando i pochi sforzi sulla sola fase terminale, la
terapia intensiva, e ignorando tutti gli interventi che potevano ridurre a
monte l’accesso alle terapie intensive.
Nonostante
gli interventi draconiani di limitazione della circolazione, il sistema
sanitario ha sostanzialmente ceduto di schianto. Dalla prima crisi della
primavera 2020 il nostro sistema sanitario non si è più ripreso: le liste
d’attesa per gli esami attraverso il SSN sono esplose. Nel 2020 sono stati
assistiti 700.000 pazienti non Covid in meno rispetto alla gestione ordinaria,
già lungi dall’essere particolarmente sollecita. Nel 2021 l‘arretrato non è
stato recuperato, portando di fatto ad una criptoprivatizzazione della sanità
(chi se lo può permettere si rivolge senz’altro al privato).
Il sistema è
stato lasciato in una condizione di paralisi.
Tutto questo
fino all’affacciarsi dei ‘vaccini’, finanziati con versamenti anticipati
dall’UE, ordinati con contratti secretati, che sono stati presentati al popolo
come la sola via di salvezza.
A questo
punto qualunque proposta di non concepire il vaccino come sola ed unica via è
stato attaccato scompostamente, distrutto mediaticamente, screditato in ogni
forma possibile. Con una torsione semantica degna dei tempi gloriosi
dell’Istituto Luce chiunque, laico o medico, cercasse di argomentare la
sensatezza di un approccio non unilaterale, che abbinasse sviluppo delle
terapie precoci alla campagna vaccinale, è stato etichettato come “No-vax”. E
milioni di cittadini diversamente svegli hanno seguito le parole d’ordine dei
capi, scatenando la caccia morale al fantomatico “No-vax”: il maledetto
cacadubbi che non partecipava alla sforzo bellico.
I dati di
agosto-settembre 2021, in presenza del vaccino sono stati massivamente peggiori
dei dati di agosto-settembre del 2020, in assenza di vaccino: la media dei
decessi giornalieri è stata di 6 volte superiore (media decessi del periodo
5-10 nel 2020, 50-70 nel 2021). Dovremmo forse trarne qualche ammonimento?
Proprio nulla?
La replica
canonica a questa constatazione numerica è che è tutta colpa della variante
delta, e che altrimenti sarebbe stato molto molto peggio. Già, può darsi, chi
può dirlo; come sempre nei fenomeni storici, non c’è la controprova, però
qualunque soggetto che abbia ancora un ancorché moderatissimo senso critico, di
fronte a questi dati dovrebbe almeno intrattenere il sospetto che la soluzione
“extra vaccinum nulla salus” potrebbe non essere stata una trovata risolutiva e
geniale. (E Dio non voglia che gli indizi che emergono da altri paesi sulla
‘perforabilità’ dei ‘vaccini’ siano confermati, perché potremmo trovarci a
novembre nel mezzo di una nuova catastrofe sanitaria.)
In molti, da
tempo, hanno segnalato che il protocollo “tachipirina e vigile attesa” era
un’assurdità, un vero e proprio gesto di abdicazione, di rinuncia alla cura. In
questi ultimi giorni si è aggiunto infine persino il dubbio scientifico che la
tachipirina, lungi dall’essere semplicemente inutile, sia addirittura
positivamente dannosa nella cura del Covid (vedi link[1]).
Ora, dopo la
pressione e le denunce di inerzia rispetto allo sclerotico protocollo
attendista, l’AIFA ha finalmente dato il via libera ad alcune cure con prodotti
farmaceutici “riconvertiti” da precedenti usi. Meglio tardi che mai, si
potrebbe dire. Tuttavia, incidentalmente, dalle mie scarse conoscenze di
profano compulsatore di riviste scientifiche, non posso non notare come uno dei
farmaci ora approvati sia oggetto di uno studio che ne illustrava l’apparente
efficacia pubblicato su Lancet sin dal maggio 2020 (14 mesi fa; vedi link[2]).
Il meno che
si possa dire è che con i farmaci riconvertiti le nostre istituzioni sanitarie
si sono mosse con piedi piombati, straordinaria cautela e sviluppatissimo
principio di precauzione. Dovevano essere devastati all’idea di poter suscitare
nei malati di Covid degli effetti collaterali ignoti, con prodotti in commercio
da decenni.
Curiosamente
invece per vaccini nuovi di zecca (con brevetti in vigore) prodotti con
tecnologie innovative, le approvazioni sono fioccate in capo a poche settimane
sulla base di dati dichiarati incompleti dalle stesse case farmaceutiche. Ecco,
qui tutti i dubbi delle nostre istituzioni sanitarie relativi a possibili
effetti collaterali di una somministrazione su individui sani si sono sciolti
come neve al sole, anzi – diciamolo - non si sono proprio mai affacciati.
Ma
naturalmente, visto il trionfo, visto lo strabiliante successo della nostra
politica sanitaria ad oggi, chiunque sollevasse dubbi o sospetti su queste
apparenti incongruenze sarebbe una malalingua, anzi un nemico della Razionalità
e della Scienza.
E noi mai e
poi mai vorremmo essere considerati nemici della Razionalità e della Scienza.
Così come
mai vorremmo credere alle parole del virologo Crisanti quando l’altro giorno si
è lasciato sfuggire che i membri del CTS sono “incompetenti e lottizzati”,
aggiungendo che «l’istituzione non è una religione», e che il fatto che i
componenti del Cts «rappresentino le istituzioni non significa che siano
depositari della verità.»
E in altri
momenti sarebbe suonato strano, ridondante, che un uomo di scienza debba
ribadire che il principio di autorità istituzionale non è la Scienza, e
tantomeno può essere considerato alla stregua di una religione, di un credo.
Sarebbe suonato strano, ma non suona strano oggi, perché l’esperimento sociale
dentro il quale stiamo nuotando come pesci rossi in una boccia ha davvero
trasformato l’appello ai verdetti delle istituzioni scientifiche nazionali in
articoli di fede da ripetere come l'Ave Maria e da ribadire in ogni sede
mediatica. E su cui crocifiggere per blasfemia i dissenzienti.
Ecco, è
forte l’impressione che il muro di questa narrazione sistematicamente
manipolatoria stia iniziando a sgretolarsi. Ma saranno tempi interessanti - nel
senso della maledizione cinese “Che tu possa vivere in tempi interessanti” -
perché è improbabile che i costruttori del muro lasceranno il campo senza
opporre strenua e feroce resistenza.
Note
[1] Sestili, et al., Paracetamol-Induced Glutathione
Consumption: Is There a Link With Severe COVID-19 Illness?
https://www.frontiersin.org/.../fphar.2020.579944/full
[2] https://www.thelancet.com/.../PIIS2665-9913(20.../fulltext
528 capestri per l’Italia – Alberto Capece
Un amico che si occupa di numeri e di
economia avverte che stiamo entrando dentro un programma di spoliazione senza
precedenti: il piano per la ripresa e la resilienza che suona quasi come una
pernacchia, Pnrr va ben oltre i soliti vincoli dell’austerità perché in questo
modo, il Governo ha appaltato alla Commissione Europea la politica economica
dell’Italia per un periodo ben superiore alla durata del suo mandato e
questo indipendentemente dalle scelte che gli italiani esprimeranno attraverso
le elezioni che prima o poi si faranno. Le condizioni imposte saranno
lacrime, sangue e taglio di quel che resta degli ultimi trent’anni di conquiste
sociali. Questo appare chiaramente dall’articolata analisi del documento nel
quale sono descritte le condizioni del Pnrr: il Next Generation
EU attribuisce all’Italia 191 miliardi di euro (69 a fondo perduto e
122 come prestiti da restituire) in varie rate, fino al 2026. Li attribuisce
però a patto che vengano rispettate 528 condizioni concordate tra
Italia e Commissione. Le condizioni si suddividono in 214
traguardi da raggiungere e 314 obiettivi quantitativi da
conseguire per il tramite di 63 riforme e 151
investimenti. Già da questi numeri allucinanti si trae una tragica impressione
di dove il Paese sia finito.
Limitandosi alle condizioni per la prima
tranche di denaro erogata ad agosto (11,4 miliardi a fondo perduto e 12,6
miliardi di prestiti) -, si nota che l’erogazione è subordinata al rispetto
di 51 condizioni. che rappresentano un esempio del prezzo che
ci siamo impegnati a pagare per il piatto di lenticchie delle politiche UE –
che il Financial Times ha descritto come ampiamente insufficienti (“nane”)
rispetto a quelle attuate negli Stati Uniti. Dopo, oltre a queste prime 51 condizioni,
ce ne saranno altre 477. Dopo averle rispettate, l’Italia sarà
un’altra Grecia o forse peggio ancora. Salta agli occhi che i soldi del Pnrr
sono la parte meno rilevante del piano, anzi non sono che l’esca, mentre il
vero contenuto politico è racchiuso nelle clausole che stravolgeranno le regole
con cui è amministrato il Paese. E’ stato realizzato un capolavoro
mediatico – attraverso una comunicazione propagandistica, degna delle
dittature – secondo la quale i soldi della Commissione anche se fossero –
insufficienti a garantire qualsiasi ripresa sono comunque un contributo alla
crescita del Paese, ed un contributo libero dalle condizioni capestro che nel
decennio passato hanno messo in ginocchio la Grecia e tutti gli altri Paesi che
si sono imbattuti negli “aiuti” europei. Insomma, si fatto credere che il New
Generation EU fornisca finanziamenti incondizionati: niente austerità, solo
soldi, perché dunque avremmo dovuto rifiutarli come peraltro hanno fatto tutti
gli altri?
Invece sulla base della documentazione istituzionale disponibile, questi
soldi portano con sé la vecchia austerità, in una forma nuova e ancora più
pervasiva. Infatti, le risorse del PNRR arriveranno all’Italia in 10 rate
semestrali di prestiti e 10 rate semestrali di contributi a
fondo perduto e l’erogazione di ciascuna rata è subordinata, da un lato, alla
solita disciplina di bilancio (la vecchia austerità fatta di tagli alla spesa
pubblica e tasse), e dall’altro al dettagliatissimo piano di riforme –
illustrate nel Pnrr – che convergono sull’obiettivo di abbattere gli ultimi
residui di stato sociale e trasformare il nostro modello economico in una
economia di mercato al totale servizio del profitto privato. Dunque, ogni euro
del piano porterà probabilmente con sé decine e decine di euro di tagli alla
spesa sociale. Per poter rendersi conto di tutto questo basta dare all’ Allegato riveduto della Decisione
di esecuzione del Consiglio relativa all’approvazione della valutazione del
piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia, un documento che
illustra nel dettaglio le citate 528 condizioni negoziate tra
Italia e Commissione. Il documento riporta con precisione tutte le condizioni
suddivise per tranche di finanziamento.
Venendo ai dettagli, il primo pacchetto di condizioni riguarda alcune
riforme di contesto, in primis semplificazione delle procedure amministrative,
appalti pubblici e concessioni e giustizia. Ma questo che cosa significa,
concretamente? Significa eliminare una serie di controlli e verifiche
preliminari della fattibilità tecnica, ambientale e archeologica dei lavori
pubblici, in modo tale da rendere possibile uno sviluppo urbano che favorisca
gli investimenti edilizi, a discapito dei vincoli pubblici in fatto di
ambiente, paesaggio e cultura, beni di nuovo sacrificabili.
·
In tema di giustizia, riforma lampo del processo civile e del processo
penale. Per accelerare i tempi della giustizia, tempi oggettivamente troppo
dilatati, si è scelta la via della mera semplificazione delle procedure, una
scelta frettolosa e tutta politica in questioni estremamente delicate per la
vita del Paese.
La realizzazione di centinaia di progetti da parte della
amministrazioni pubbliche imporrebbe il rafforzamento della loro capacità
amministrativa., ma non sarà così, perché è fatto divieto di impiegare le
risorse del Pnrr per finanziare assunzioni a tempo indeterminato. Di
conseguenza, tutti i rinforzi chiamati a collaborare all’attuazione del Pnrr
saranno assunti nel pubblico impiego con contratti a tempo determinato,
realizzando la più grande operazione di precarizzazione del lavoro pubblico mai
vista che farà da apripista verso una più globale precarietà E pensare che
l’Italia ha un numero di dipendenti pubblici ben inferiore a Paesi come
Germania, Francia e Spagna.
Impegno a cancellare gli effetti del referendum per l’acqua
pubblica del 2011, quando fu sancita la natura pubblica di questo bene
e della sua gestione. Tra le condizioni da rispettare per il prossimo dicembre,
infatti, si legge di una “Riforma del quadro giuridico per una migliore
gestione e un uso sostenibile dell’acqua” Si noti come questa espropriazione di
un bene comuna venga sostenuto con la magica parolina sostenibilità che non
significa nulla.
Altre clausole prevedono il trasferimento della titolarità di
ponti, viadotti e cavalcavia sulle strade di secondo livello a quelle di primo
livello (autostrade e strade statali), da Comuni, Province e Regioni allo
Stato. Dal momento che, per effetto della riforma, “la manutenzione di ponti,
viadotti e cavalcavia sarà di competenza dell’ANAS e/o delle società
concessionarie autostradali”, questo significa di fatto poter regalare alle
società concessionarie autostradali anche la gestione della miriade di strade
di secondo livello (comunali, provinciali e regionali). Ma come saranno pagati
i concessionari, trattandosi di strutture non a pedaggio? Semplicemente con lo
spossessamento degli Enti locali di ogni potere sul sistema viario di loro
competenza ed i soldi statali e regionali, tolti a Comuni e Province.
Poi c’è il Gol, ossia il programma nazionale “Garanzia di
occupabilità dei lavoratori” una naturale evoluzione del ‘reddito di
cittadinanza che tuttavia subordina l’erogazione del reddito all’accettazione
di lavoretti precari. Poi c’è la semplificazione delle procedure nelle Zone
economiche speciali leggi Mezzogiorno con commissari che agiscono in deroga ai
contratti di appalto. Possiamo immaginarci.
Si tratta solo di alcuni punti anche per non fare un post monstre, ma
emerge che dietro alla promessa di infrastrutture per il Paese e un ritorno
alla crescita si cela un tessuto di riforme – a discapito del benessere
collettivo e dei diritti sociali – realizzate da un programma di
privatizzazioni e deregolamentazioni che si impone sull’agenda politica delle
forze parlamentari, proprio in virtù del loro meccanismo di condizionalità.
Queste riforme che ci siamo impegnati a varare entro il prossimo dicembre, qui
brevemente illustrate, non sono contenute nel programma politico di alcun
partito, non sono sottoposte ad alcun dibattito, sono la costituzione materiale
di una nuova forma di austerità, che sta determinando gli assetti fondamentali
della nostra organizzazione economica e sociale tranche dopo tranche di questo
“grandioso piano” di aiuti europei.
Senza dignità - lorenzo merlo
Siamo sul
fondo del barile a raschiare qualcosa che sia ancora vero, ma non si trovano
che tossiche croste di muffe
Senza
dignità 1.
La messe di
controinformazione, meglio, di giornalismo dal basso, internazionalmente e
nazionalmente disponibile, fatto salvo poche e rare eccezioni, è stata ignorata
dai grandi media d’informazione.
L’informazione
filogovernativa si è autoproclamata la sola attendibile. Lo stimolo al
dibattito che sarebbe potuto derivare da una loro più aperta, meglio,
giornalistica politica, avrebbe giovato alla cultura italiana, al giornalismo,
alla fiducia nelle istituzioni e negli uomini.
Non contenti
e sospinti dai ciclostili istituzionali non hanno esitato ad alzare il livello.
Se prima ignoravano le voci non allineati sono passati a censurarle e poi a
colpevolizzarle.
Non è dunque
frutto di se stesso se quelle voci che lamentavano emarginazione, che si
chiedevano perché venissero tanto ignorate, che si ponevano e pongono domande
elementari, giornalisticamente ineludibili, per i grandi media siano divenute
criminali e pericolose. Superfluo è ricordare quanto enfatizzino il malato
novax, che dal letto d’ospedale diviene paladino del vaccino; quanto siano
taciuti gli eventi avversi, quanto non sia dato spazio a medici e ospedali che
hanno avuto successo sul Covid, quanto di quelle voci si faccia solo un numero,
private di contenuti e argomenti, a seconda della strumentalizzazione
necessaria, definito tra il dieci e il trenta percento dei vaccinabili. E non
c’è premio Nobel che possa dire la sua senza divenire bersaglio di gentili ma
radical-contumelie.
L’intelligence
padronale avrà avuto il suo da fare per occultare chi desiderava solo capire le
ragioni delle bugie che sentiva, solo comprendere quelle delle contraddizioni
che osservava, solo spiegarsi i motivi di una politica tanto antidemocratica,
solo trovare una speranza che gli impedisse di vedere la voragine tra sé e le
istituzioni allargarsi sempre più.
Penso che in
buona misura (sarebbe bello conoscere il pensiero di altri) il popolo privato
di dignità sia tendenzialmente depoliticizzato in quanto emancipato dalle
tradizionali e ormai svuotate ideologie contrapposte. Un popolo che osserva il
dominio dell’economia e della tecnocrazia sulla politica. Che vede quanto
questa non abbia proposte ma solo guinzagli. Che vede tutte le sovranità
nazionali sul banco del mercato, nonostante la facciata istituzionale, gestito
da commercianti privati, extranazionali. Le sovranità, dalla militare
all’economica, dalla monetaria alla nazionale, dall’istruzione alla sanitaria
non sono più beni degli italiani. E quel popolo quantificato tra il 10 e il 30
per cento di un qualche totale conteggiato dal contabile di stato lo sa. Per
questo si allarma quando qualcuno con mascherina e finestrini su corre a votare
per una delega della democrazia in avaria pesante. Per questo il suo
mayday-mayday è un urlo nella burrasca in cui non si è trovato per merito suo.
È un popolo
che vede liquefarsi la propria identità, sempre più omeopaticamente dispersa
nella società dello spettacolo unico. Essere come qualcuno visto in tv, in
youtube, in facebook, in twitter, è più importante che essere se stesso. Ma è
un modo di dire: quando mai lungo questa china schiavistica qualcuno avrà più
modo di riconoscere la farsa in cui, come gli altri, vuole recitare la sua
parte?
Senza
dignità 2.
Se così non
fosse, ovvero, se i media e le istituzioni non avessero ignorato le voci
indipendenti e alternative alla loro ma semplicemente non le avessero sentite,
né, per distrazione, cercate, non ne avessero indagato il gradiente di
attendibilità ovvero, se alle loro intelligence fossero sfuggite, le avessero
sottostimate, e se, in sostanza i passacarte, vantando buona fede,
semplicemente si fossero attenuti al compitino redazionale, allora è a questi
che forse manca la dignità deontologica.
Senza
dignità 1 e 2.
In ambo i
casi, si tratta di quelli che nei loro giornali scrivono “solo noi siamo
l’informazione”, quelli che le fake news riguardano solo gli altri. Quelli che
pur di avere un click tengono on line gossip e paperissime. Quelli
che “potrebbero urtare la nostra sensibilità” per immagini che non disturbano
nessuno. Che pur di stare a galla sono però disposti a sbatterti in faccia
qualunque pubblicità in modi sempre più invadenti e obbligati. Che per la
privacy nascondono i volti dei bimbi e omettono i nomi purché, come segnala
Andrea Zhok, l’argomento non sia il Covid e l’abietta campagna vaccinale.
Quelli che, lo so per informazione diretta, si occupano dei temi di esclusivo
interesse per la proprietà. Quelli che a qualunque informazione di rilievo non
viene dato spazio o viene trattata con il minimo trafiletto, senza alcuna ripresa,
solo per sottrarsi dalla responsabilità deontologica. Quelli che davanti a
questi dati di fatto senza incertezze, invece di piangere vincoli, censure e
autocensure si alzeranno altezzosi e con sarcastico sorrisetto ci diranno
che in una proprietà privata ognuno fa ciò che vuole.
Esatto.
Informazione e proprietà privata. Spero tutto sia chiaro in merito alla
questione della dignità non data, la numero 1, e non in essere, la 2.
L’ombra del neoliberismo - Francesco Marabotti and L'Indispensabile
«Com’è potuto avvenire che un intero
paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a
una malattia?».[1]
Questa è la
domanda che poneva, lucidamente, Giorgio Agamben in un articolo datato 14
aprile 2020, alla quale a mio avviso non è stata ancora data una risposta
adeguata.
Come è
potuto avvenire – aggiungo io – che si sia passati, a partire
dalla proclamazione dello stato di emergenza (il 31 gennaio 2020), in modo così
repentino e convulso dalla open society al lockdown?
Come è potuto avvenire che dalla libera circolazione delle persone e dei
capitali siamo giunti al divieto di spostamento al di fuori del proprio comune
e alla certificazione di ogni movimento sul suolo nazionale?
Come siamo
potuti passare, chiedo ancora, da “quella gioiosa spensieratezza che sembra
divenuta d’obbligo”[2] dell’era pre-covid, al clima
di paura, terrore quotidiano e distanziamento sociale che ha reso le nostre
esistenze un campo di guerra con “un nemico invisibile”?
Un così
radicale capovolgimento è un fenomeno che, a mio avviso, va oltre le sole
ragioni medico-scientifiche o tecnico-amministrative. È qualcosa che ci
coinvolge in quanto società e direi come civiltà occidentale in toto.
La tesi che cercherò di argomentare in questo articolo è che ad essere venuta
in luce è l’ombra stessa del neoliberismo o se volete della
post-modernità.
I. Il
ritorno del rimosso
L’opera
letteraria che più di tutte ci ha fatto capire il concetto di ombra è il
capolavoro di Stevenson, “Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor
Hyde”. Hyde in inglesevuol dire “nascosto”, e costituisce
tutto ciò che Jekyll rifiuta di vedere di sé, tutto ciò che lo ripugna della
propria anima. Jekyll incarna cioè quella che Jung chiama l’unilateralità
della coscienza, identificatasi con un modello di razionalità scientifica e
di moralità puritana che è incompatibile con la brutalità e la violenza di
Hyde, con i suoi bassi istinti, ma anche con una certa vitalità e immediatezza
che la sua parte nascosta esprime.
Hyde è
dunque l’ombra di Jekyll, rimossa e repressa per tutta la vita, che prende
progressivamente il sopravvento e porta ad un esito catastrofico, con la morte
stessa del protagonista.
Anche il
grande drammaturgo norvegese Henrik Ibsen ci stava profeticamente avvertendo,
in quegli anni di fine ‘800, che il mondo della maschera borghese, poggiato su
quelli che lui chiamava “I pilastri della società”, stava crollando. Le sue
opere raccontano come da questo sfaldamento emergano i giochi meschini delle
“personalità encomiabili” e le menzogne che permeano sia le relazioni sociali
che familiari.
L’ombra
della modernità illuminista, borghese, positivista e liberale è esplosa poi
infatti drammaticamente nel ‘900, come hanno compreso, tra gli altri, Adorno,
Horkheimer e Wilhelm Reich. In “Dialettica dell’Illuminismo”, pubblicato nel
1944, i primi due scrivono:
«Mentre
attitudini e conoscenze dell’umanità vanno differenziandosi con la divisione del
lavoro, essa è risospinta verso fasi antropologicamente più primitive; poiché
la durata del dominio comporta, con la facilitazione tecnica dell’esistenza, la
fissazione degli istinti ad opera di una repressione più forte. Dove
l’evoluzione della macchina si è già rovesciata in quella del meccanismo del
dominio, e la tendenza tecnica e sociale, strettamente connesse da sempre,
convergono nella presa di possesso totale dell’uomo, gli arretrati non
rappresentano solo la falsità. La maledizione del progresso incessante è
l’incessante regressione»[3].
Wilhelm
Reich, nel suo “Psicologia di massa del Fascismo”, del 1933, vedeva molto bene
che «negli ideali etici e sociali del liberalismo si possono riconoscere i
tratti dello strato caratteriale superficiale, caratterizzato
dall’autocontrollo e dalla tolleranza. Questo liberalismo accentua la propria
etica al fine di soffocare “il mostro nell’uomo”, il secondo strato delle
“pulsioni secondarie”, “l’inconscio” di Freud. Il liberale deplora e combatte
il pervertimento caratteriale umano con norme etiche, ma le catastrofi del XX
secolo hanno insegnato che non ha combinato gran che»[4].
II. La
società dei consumi
Dopo la fine
della seconda guerra mondiale abbiamo assistito, in Occidente, decennio dopo
decennio, a un passaggio decisivo da una società di tipo repressivo/coercitivo,
centrata sulla dicotomia permesso/vietato, a una di tipo
permissivo, la cui dialettica fondamentale è quella invece fra possibile
e impossibile, fra funzionale e disfunzionale.
I valori e i
modelli ritenuti fondamentali nelle società di tipo repressivo/coercitivo,
quali appunto l’autocontrollo, la sobrietà, la razionalità e l’ordine, hanno
lasciato il campo a quelli della società dei consumi: individualismo,
godimento, performance, emotività, spontaneità, laissez faire. È
tutta una logica dell’illimitato a divenire egemone, qualificata dalla
possibilità continua di migliorarsi e di crescere; è come se la terra fosse
divenuta una sorta di giardino delle delizie, che a margine però,
già dagli anni ’80, inizia a far emergere quei mostri che Hieronymus Bosch
dipinge ai lati della sua opera. Scrive a tal proposito Massimo Recalcati:
«In questo
universo senza Dio non c’è salvezza, non c’è orizzonte, non c’è desiderio.
Tutto si consuma nel chiuso claustrofobico della volontà di godimento. Il culto
del godimento e la logica del suo puro dispendio sono divenuti un regime di
amministrazione e manipolazione biopolitica dei corpi sotto la nuova Legge
dettata dal discorso del capitalista: il sesso compulsivo, l’affermazione di
una Libertà senza Legge, la ripetizione eternizzante di tutti gli scenari
sadiani mostrano che il nostro tempo ha fatto del godimento un imperativo che
anziché liberare la vita la opprime rendendola schiava». [5]
L’energia
libidinale non viene più repressa né castrata, ma diventa l’elemento capace di
oliare l’ingranaggio del consumo inesausto dei beni e dei servizi, e al
contempo della spinta continua all’auto-miglioramento degli individui, mediante
l’ideologia del successo e dell’immagine; mentre permane invincibile, come una
coltre invisibile, quella che Heidegger chiamava la Machenshaft, la
macchinazione universale, la gabbia d’acciaio di Weber, ovvero il mondo e la
nostra mente ridotti, in definitiva, a un foglio di calcolo excel.
Paradossalmente
il neoliberismo porta a quella omologazione tirannica (non solo per esempio nel
modo di vestire, ma anche delle scelte alimentari, dell’architettura urbana,
dei format televisivi, dei comportamenti) che originariamente
era il contrappunto dell’emancipazione individuale.
La società
dello spettacolo, dove ognuno è al contempo attore e spettatore, in realtà
trasmette un film muto perché sordo, ab-surdus, se è vero, come ci
ha insegnato Heidegger, che “ogni dire è un udire”. La cena al ristorante
subito fotografata, o il panorama mozzafiato, o ciò che stai pensando o
sentendo divengono istantanee di un film senza più trama e senza più
protagonisti, ma solo comparse, sempre più simili le une alle altre.
Nel momento
in cui tutto diventa desiderabile perciò, è il soggetto in quanto tale a non essere
più oggetto di desiderio, e quindi a svuotarsi di significato. Scrive Mark
Fisher:
«Questa
combinazione di obiettivi di mercato e quelli che burocraticamente vengono
chiamati target è un tipico tratto dello “stalinismo di mercato” che
attualmente regola i servizi pubblici. Ad aver proliferato è una nuova
burocrazia fatta di “obiettivi” e di “target”, di “mission” e di “risultati”, e
questo nonostante tutta la retorica neoliberale sulla fine della gestione top-down».
A tutto
questo sistema, prosegue Fisher, «gli studenti in genere reagiscono cedendo a
un’inerzia edonistica (o anedonica): e cioè a uno stato di soffice narcosi, al
confortevole oblio della Playstation, alle maratone notturne davanti alla
televisione, alla marijuana». [6]
III. L’età
dell’immaturità
Uno dei
maggiori scrittori polacchi del secolo scorso, Witold Gombrowicz, nel suo
romanzo più celebre, dal titolo alquanto bizzarro, “Ferdydurke” (pubblicato nel
1937), ha coniato un’espressione a mio avviso perfetta per comprendere il
nostro tempo, ovvero “l’età dell’immaturità”.
«Il
protagonista di Ferdydurke è un trentenne che, nel mezzo del
cammino della sua vita, si trova, come in un incubo, sbalzato indietro nel
mondo dell’infanzia; alunno di una ridicola classe scolastica. Gingio(Józek)
cerca di ribellarsi a questa degradazione, ma poco alla volta si accorge che
essere un bambino non è poi tanto spiacevole. L’immaturità ha i suoi vantaggi
e, del resto, in un mondo che sta andando a pezzi, sembra essere un rifugio,
una nuova grottesca identità.
Inoltre
essere infantile a tutti gli effetti mette in luce l’infantilità degli adulti,
la loro penosa e ridicola voglia di apparire giovani, nonostante la decadenza
fisica e mentale. La crisi della cultura europea e dei suoi valori, alla
vigilia della seconda guerra mondiale, trova in Ferdydurke una
rappresentazione ironicamente spietata».[7]
La cosa
interessante del romanzo è che, in un crescendo di entropia, la condizione
surreale e caotica di questo trentenne immaturo, che non vuole crescere, si
trasforma in una violenza arbitraria e quasi giocosa, improvvisata direi.
L’intuizione
fondamentale di questa opera, così come fu prima ancora di J.M Barrie, autore
di quello che all’inizio era un testo teatrale, ovvero Peter Pan or The
Boy Who Would Not Grow Up, è che l’immaturità viene a caratterizzarsi come
una condizione sempre più endemica, come una sindrome del nostro mondo
civilizzato, industrializzato e politicamente avanzato.
L’isola che
non c’è cattura
simbolicamente l’oggetto del desiderio di una generazione crescente di
immaturi, sia esso il mondo del virtuale, dei paradisi artificiali, o il
turismo di massa. È questa la dolce vita della civiltà
occidentale degli ultimi decenni, ipnotizzata da un’esistenza plasmata sempre
più come una sit-com (situation comedy), i cui modelli
sono in fondo personaggi dello spettacolo o “sportivi di successo”.
Ma che cosa
nascondeva questa euforia collettiva, questa grande cecità? «Tanta allegria»-
scrive sempre Fisher- «può essere conservata solo in un’assenza pressoché
totale di riflessività critica, e solo se si è capaci di assecondare in maniera
cinica ogni singola disposizione proveniente dall’autorità burocratica».[8]
«Ogni
sistema totalitario è una macchina che bambinizza gli adulti. Ciò che viene
proposto al popolo è dimenticare la libertà, la propria individualità, tornare
bambini, smettere di occuparsi delle grandi questioni politiche. Soddisfazione
dei bisogni materiali in cambio del sacrificio della libertà».[9]
Per tornare
all’inizio, è come se a poco a poco l’ombra, Hyde, fosse divenuta
la maschera, sempre meno trasgressiva e quindi sempre più violenta e acefala; e
viceversa la maschera fosse divenuta l’ombra della società neoliberale, in
realtà totalitaria, stalinista appunto. Il rigore, la sobrietà, l’austerità, il
dogmatismo scientifico prendono di nuovo il sopravvento.
IV. L’ombra
del neoliberismo
La società
neoliberale, volendo rimuovere il principio di realtà che connota l’esistenza
umana, lo ha fatto ritornare a poco a poco in modo onnipervasivo in ogni ambito
della vita. Ci siamo illusi di avere costruito il migliore dei mondi possibili,
il più progredito dal punto di vista tecno-scientifico, economico e
democratico. Ci siamo illusi che l’essere umano fosse un agente razionale che
massimizza il profitto e il piacere, e che bastasse comprendere
intellettualmente i principi morali e costituzionali di una società equa per
realizzarli efficacemente.
L’ombra del
neoliberismo è l’autoritarismo, l’intervento statale in ogni dimensione
dell’esistenza, a patto sempre che non contrasti l’ordine oligarchico dei
mercati, la paura e il terrore irrazionali, l’interruzione coatta di ogni
attività economica locale. Ciò che è puntualmente avvenuto. Dalla perdizione
asinesca del Paese dei Balocchi siamo passati, senza soluzione di continuità, a
qualcosa di simile alla “Repubblica dei Santi”, ovvero la Ginevra riformata da
Calvino nel 1541, dove vennero emanate delle ordinanze che comportavano “la
proibizione delle osterie, dei balli. (..) E prevedeva pene severe per ogni
infrazione alla dottrina e alla morale”.[10]
La
democrazia neoliberale a poco a poco è caduta in un immanentismo senza più
direzione teleologica, con l’unica narrazione di non avere più narrazioni. Alla
fine della storia ha sostituito la storia(infinita) della fine, dove l’infanta
imperatrice, come nel racconto di Michael Ende, è afflitta da un male
sconosciuto e rischia di morire, perché un’entità informe chiamata Nulla ha
incominciato a espandersi nel regno, inghiottendo intere regioni e facendole
sparire del tutto.
Il nostro
mondo, dominato dall’archetipo di Dioniso, nel quale, come ci ha detto
Nietzsche, “Nulla è vero e tutto è lecito”, ha fatto esperienza anche della sua
natura ambivalente. Dioniso infatti, paradossalmente, è un Dio che non
ama l’empietà[11], e le Baccanti al suo seguito sono in realtà caste.
Dioniso dice
di sé di essere un dio assennato, in un dialogo con Penteo, mentre ad essere
dissennato è quest’ultimo, l’unico che scorge il pericolo di un dissolvimento
di ogni forma e legalità nel flusso indifferenziato della vita, e che alla fine
della tragedia viene sbranato dalle donne tebane invasate. Dioniso è cioè un
Dio della morte, del sacrificio, non della vita.
La lezione
che ancora non vogliamo ascoltare è perciò che, come scrive Alain Ehrenberg,
«all’interno della persona esiste, oggi come ieri, un lembo di inconoscibile,
un lembo che magari può riplasmarsi ma non può sparire del tutto – perché fa
parte, costitutivamente, dell’uomo»[12].
Un intero
paese è crollato eticamente e politicamente di fronte a una malattia perché
poggiava su fondamenta di argilla, costruite illudendosi che fosse sufficiente
educare intellettualmente i cittadini affinché si edificasse una democrazia.
Perché parallelamente la società neoliberale è ha dato forma a quello che molti
ritengono essere il più potente sistema di totalitarismo della storia umana,
capace di plasmare e cambiare le coscienze a livelli di profondità inauditi.
Questa fase drammatica della storia umana ci provoca perciò ad un cambio di
sguardo radicale, e ad una rivoluzione democratica che abbia come fondamento
una visione non riduzionistica dell’essere umano. Stiamo forse comprendendo,
drammaticamente, che esiste qualcosa che scavalca, volenti o nolenti, la nostra
ragione?
Note
[1] https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda
[2] Z.Baumann, Le
sorgenti del male, a cura di Yong-June Park, p.20.
[3] Max Horkheimer,
T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, p.43.
[4] W. Reich, Psicologia
di massa del Fascismo, p.13.
[5] M.
Recalcati, Il complesso di Telemaco, P.24.
[6] Mark Fisher,
Realismo Capitalista, p.61/3
[7] Francesco
Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, p.97.
[8] M. Fisher, Realismo
Capitalista, p.111.
[9] F.
Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, p.161.
[10] C. Capra, Storia
moderna, P.121
[11] Euripide, Le
Baccanti.
[12] A.
Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, Depressione e
società, p.319.
https://www.sinistrainrete.info/societa/21260-francesco-marabotti-l-ombra-del-neoliberismo.html
La recita - Andrea Zhok
A breve si riunirà, in forma ormai
consuetudinariamente clandestina, la cabina di regia per l’attuazione del Piano
nazionale di ripresa e resilienza.
Per poter presentare il primo rendiconto e ricevere i primi
fondi nel 2022, l'Italia dovrà soddisfare 42 delle 51 condizioni previste negli
accordi.
Sono riforme che vanno da una riforma della giustizia, a una
revisione delle politiche del lavoro, a una riforma dell'università, ecc..
In tempi normali avrei cercato di approfondire le questioni in
oggetto, per vedere cosa si sta preparando, visto che impatterà sul futuro
nostro e delle generazioni a venire in maniera potentissima.
Ma oggi, mi chiedo, che senso ha occuparsene?
Che senso ha continuare nella finzione di essere in una
democrazia, in un luogo dove esiste un libero dibattito pubblico,
giornalistico, accademico, civile?
Che senso ha affaticarsi a studiare e approfondire, quando quasi
tutti (incluse persone che dovrebbero fare dell'approfondimento intellettuale
la loro professione) desiderano solo che si inserisca il pilota automatico, che
si deleghi ai competenti, che li si lasci in pace?
In queste settimane chi ha cercato di attivare qualche residuo
di spirito critico ha percepito che gli spazi per dibattere fuori dal cerchio
di gesso che delimita le credenze ortodosse (così stabilite dall'alto) sono
nulla.
Radio, televisioni, parlamento, magistratura possono allinearsi
in un baleno quando le pressioni giuste sono esercitate.
In questo contesto la verità pubblica si definisce attraverso il
grado di ridondanza, di ripetizione di qualunque sia la menzogna più utile,
utile ad una manciata di attori fuori scena.
Anche chi poteva sembrare maggiormente animato da spirito
critico si attesta sull'ultima banalità del tiggì, e poi la ripete, e la
ripete, e la ripete.
Abusi, coazioni, forzature, ricatti, discriminazioni, omissioni,
bastonature mediatiche, distorsioni della Costituzione, censure, macchine del
fango, ecc. tutto è passato in cavalleria, senza sentire neanche il bisogno di
verificarne i presupposti, senza che un sussulto di indignazione (prepolitica)
metta in allerta.
Per alcuni la scusa è che di fronte all'urgenza, all'emergenza,
all'allarme sanitario, non ci si può mica mettere di traverso!
E' uno sforzo di salute pubblica, vivaddio!
(Che Dio li perdoni).
Per altri, però, per i più, non c'è bisogno neanche di giocare
al gioco del "vincolo esterno", della necessità pressante e
inderogabile.
No, gli sta semplicemente bene così.
Che decidano lassù, ed io speriamo che me la cavo.
E allora di cosa vogliamo parlare?
Del PNRR?
Di magistratura, fisco, finanza, università?
Come se fossimo nelle condizioni di toccare palla?
Per me basta così.
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