sabato 31 maggio 2025

Suonare Mozart costa, oggi più di ieri - Gaetano Lamanna

 

Le critiche di un noto attore, Elio Germano, e di una brava conduttrice televisiva, Geppi Cucciari, al ministro della cultura Alessandro Giuli, accusato di fare poco o niente per la crisi del cinema, sono state dai media derubricate a gossip o, al massimo, a una questione di tax credit, uno strumento del tutto insufficiente, che serve a finanziare solo in parte i costi delle produzioni cinematografiche. Nei commenti di stampa non viene rilevato che la polemica si inserisce in un quadro grave di attacchi del governo in carica, a partire dalla presidente Meloni, alla nostra democrazia, alla libertà di espressione di giornalisti, magistrati, intellettuali, al diritto di manifestazione, all’equilibrio dei poteri. La reazione scomposta e nervosa del ministro Giuli è segno di una difficoltà a dare risposte, aprendo un tavolo di confronto, a una protesta che monta ed esprime un diffuso disagio dei lavoratori dell’industria cinematografica di fronte a pratiche discrezionali e clientelari nella gestione dei contributi e dei prestiti, alla compressione salariale, alle condizioni di precarietà, alla disoccupazione crescente.

Si sta affermando la consapevolezza delle ricadute negative (finanziarie e sociali) delle nuove tecnologie cognitive. La crisi di importanti settori della produzione culturale – non solo scuola, università, ricerca, editoria, ma anche teatro, musica, danza e i diversi campi delle performing arts – dipende in gran parte dall’uso incontrollato e senza regole dei mutamenti tecnologici. Storicamente la scienza e la sua applicazione tecnica hanno dato un impulso formidabile al progresso umano, civile ed economico. Ma la particolarità dell’informatica e dell’intelligenza artificiale (AI), basate sugli algoritmi e sulla potenza di calcolo, è di essere tecnologie che, nel loro progredire, sostituiscono il lavoro umano, distruggono interi settori dell’economia e del commercio, desertificano i rapporti umani di intere comunità. Sta anche qui, nell’incapacità di risolvere la contraddizione che si è determinata tra lo straordinario avanzamento scientifico e tecnologico e lo spaventoso arretramento sociale e civile che ci circonda, il fallimento del modello di sviluppo capitalistico. Imprese tecnologiche che dovrebbero offrire “servizi di interesse generale” e contribuire al benessere sociale sono piegate alla logica privatistica del massimo profitto, gestite da signori tanto attenti ad accumulare soldi e potere quanto incuranti delle pesanti ricadute sulla società. Il grande tema della democrazia torna ancora nel suo rapporto irrisolto con la tecnica.

Alle proteste e al movimento d’opinione di questi giorni bisogna esprimere solidarietà, ma indicare anche una strada percorribile. L’obiettivo potrebbe essere l’istituzione di un fondo pubblico, ottenuto tramite un’adeguata tassazione dei consistenti profitti aziendali derivanti dall’uso delle nuove tecnologie. Le risorse sarebbero a disposizione sia di chi perde il lavoro, garantendo un reddito dignitoso, e sia, soprattutto, di quegli imprenditori del settore che intendono rimanere sul mercato. Ai soliti opinionisti di regime che dovessero storcere il naso e tacciare questa proposta di ripercorre vecchie strade assistenzialistiche, vorrei ricordare che è stato William Baumol, un grande economista liberale – di origine polacca, vissuto negli Stati Uniti, purtroppo poco conosciuto in Italia – a studiare per primo le cause dell’andamento crescente dei costi di alcuni servizi e a indicare le possibili soluzioni. Baumol ha elaborato un modello teorico, da lui definito della “malattia da costi”, che ha spiegato in modo semplice e sorprendente: il tempo di esecuzione di mezz’ora di Mozart del XVIII secolo richiede oggi esattamente la stessa quantità di tempo e lo stesso numero di musicisti. Un’ora di lavoro produce oggi cento volte più orologi che all’epoca di Mozart, ma un’ora di arpeggio produce altrettanto Mozart di quando lui era vivo. Ciò significa che un concerto di Mozart, ai giorni nostri, costa cento volte più orologi che in quell’epoca. I concerti, la danza, il teatro, gli spettacoli dal vivo, a differenza della produzione manifatturiera, richiedono gli stessi addetti di un secolo fa, ma con costi molto più elevati. Il differenziale di produttività tra le attività industriali e quelle artistico-culturali è cresciuto in modo esponenziale, ma poiché i salari nel settore artistico sono correlati a quelli del resto dell’economia, ne consegue che il costo per spettacolo deve crescere ad un tasso più alto di quello rilevabile in tutti gli altri settori a più alta produttività. Alcune attività hanno la caratteristica di essere refrattarie alla crescita della produttività e, dunque, per Baumol, spetta allo Stato intervenire con misure fiscali che consentano di reperire risorse dai settori a più elevata produttività al fine di coprire i maggiori costi di alcuni settori e servizi fondamentali della vita pubblica. A meno che non si vogliano mantenere costanti i salari nei settori stagnanti, eventualità questa certamente non proponibile.

Le considerazioni finora svolte a proposito delle attività culturali e delle performing arts, valgono, sia pure in termini diversi, per la sanità, per l’istruzione, per l’assistenza agli anziani o all’infanzia, per i trasporti pubblici locali, per la manutenzione urbana. Per tutti questi settori vengono richieste competenze e attenzione personale, talento e creatività. Facoltà tipicamente umane, difficilmente sostituibili dall’AI. Tuttavia è da prendere molto sul serio la preoccupazione e l’allarme per la perdita di posti di lavoro nei settori legati all’attività intellettuale perché si coglie già l’impatto negativo dell’introduzione delle tecnologie cognitive nei processi di produzione. Il rapporto con le nuove tecnologie è quindi lo scoglio da superare per le attività a bassa produttività e ad alta intensità di lavoro.

Un fatto è certo: i concerti, gli spettacoli, i lavori di cura e di assistenza, richiedono tempi difficilmente comprimibili, checché ne pensino i cultori dell’efficienza a tutti i costi. La diffusione dei sensori, della telemedicina o dei videogiochi non potrà mai competere con la preparazione, l’attenzione personale e l’attitudine specifica richieste agli operatori della sanità, dell’assistenza agli anziani o all’infanzia. In alcuni settori, quindi, il progresso tecnico non può determinare più di tanto la contrazione dei costi. Per parlare di un caso limite, nelle scuole materne ed elementari, dove si è passati da uno a più insegnanti per classe, la produttività per addetto è addirittura diminuita. Purtroppo i governi hanno commesso l’errore di finanziare alcuni servizi pensando che la loro efficienza e produttività sia in relazione con i mutamenti tecnologici. Ma in realtà, mentre il settore manifatturiero si avvantaggia della tecnologia per ridurre la componente umana (e i costi che essa comporta), i settori dello spettacolo, della cultura, della sanità, non possono ridurre il numero di chi ci lavora e le loro retribuzioni, pena lo scadimento delle prestazioni. E la stabilità degli stanziamenti, se non una loro riduzione o una crescita in termini nominali, non costituisce quindi un segnale di buon governo.

Le difficoltà finanziarie del bilancio pubblico, insieme a un uso scriteriato dei fondi disponibili, minacciano ormai la qualità della vita e suggeriscono l’impressione che servizi d’importanza vitale siano preclusi alla maggior parte della popolazione, eccezion fatta per le famiglie più facoltose. Se si accetta, però, l’interpretazione basata sul divario di produttività e della crescita dei costi nei servizi, la soluzione potrebbe consistere nell’assegnare parte della crescita della produttività ottenuta nel settore dinamico dell’economia ai servizi caratterizzati da produttività stagnante. Trasferire una certa quantità di risorse dai settori a produttività crescente in quelli della produzione dei “servizi stagnanti” è la condizione per avere più cure sanitarie, più assistenza all’infanzia e alla terza e quarta età, più manutenzione urbana, più cultura e arte. Ci possiamo insomma permettere il costo degli stagnant services, che implicano processi di produzione intrinsecamente non standardizzabili e che presuppongono lavoro manuale e intellettuale, oltre che attenzione personale. La leva fiscale è lo strumento di questo trasferimento di risorse, e sarebbe bene superare luoghi comuni e vecchi schemi che portano a “premiare” fiscalmente i settori ad alta tecnologia e ad alta produttività che poi, oltre a fare record di utili, sono gli stessi che riducono forza-lavoro.

La lezione di Baumal è più che mai attuale. Il caso della sanità pubblica mostra chiaramente che il mancato aumento della spesa equivale a un de-finanziamento del servizio, con una conseguente caduta qualitativa. In Italia l’introduzione di logiche e criteri aziendalistici negli ospedali e nelle attività legate alla cura delle persone, ha procurato danni incalcolabili, ha coperto sprechi e disservizi, testimonia in concreto la débâcle dell’ideologia liberista (“meno Stato più mercato”). Esistono certamente carenze gestionali da superare, sapendo però che non sono queste a determinare l’esplosione dei costi del servizio. Non c’è più tempo da perdere. Bisogna costruire e dare continuità ad un movimento che lotti perché la leva fiscale colmi il differenziale dei costi di alcuni settori, migliorandone la qualità. Dipende però dalla politica, dai rapporti di forza, dai diversi interessi in campo, definire misure di bilancio e modalità di spesa che sappiano rapportarsi al benessere collettivo e alle mutevoli esigenze di una società moderna.

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