Le critiche di un noto attore, Elio Germano, e di una brava conduttrice televisiva, Geppi Cucciari, al ministro della cultura Alessandro Giuli, accusato di fare poco o niente per la crisi del cinema, sono state dai media derubricate a gossip o, al massimo, a una questione di tax credit, uno strumento del tutto insufficiente, che serve a finanziare solo in parte i costi delle produzioni cinematografiche. Nei commenti di stampa non viene rilevato che la polemica si inserisce in un quadro grave di attacchi del governo in carica, a partire dalla presidente Meloni, alla nostra democrazia, alla libertà di espressione di giornalisti, magistrati, intellettuali, al diritto di manifestazione, all’equilibrio dei poteri. La reazione scomposta e nervosa del ministro Giuli è segno di una difficoltà a dare risposte, aprendo un tavolo di confronto, a una protesta che monta ed esprime un diffuso disagio dei lavoratori dell’industria cinematografica di fronte a pratiche discrezionali e clientelari nella gestione dei contributi e dei prestiti, alla compressione salariale, alle condizioni di precarietà, alla disoccupazione crescente.
Si sta
affermando la consapevolezza delle ricadute negative (finanziarie e sociali)
delle nuove tecnologie cognitive. La crisi di importanti settori della
produzione culturale – non solo scuola, università, ricerca, editoria,
ma anche teatro, musica, danza e i diversi campi delle performing arts – dipende
in gran parte dall’uso incontrollato e senza regole dei mutamenti tecnologici.
Storicamente la scienza e la sua applicazione tecnica hanno dato un impulso
formidabile al progresso umano, civile ed economico. Ma la particolarità
dell’informatica e dell’intelligenza artificiale (AI), basate sugli algoritmi e
sulla potenza di calcolo, è di essere tecnologie che, nel loro progredire,
sostituiscono il lavoro umano, distruggono interi settori dell’economia e del
commercio, desertificano i rapporti umani di intere comunità. Sta anche qui,
nell’incapacità di risolvere la contraddizione che si è determinata tra lo
straordinario avanzamento scientifico e tecnologico e lo spaventoso
arretramento sociale e civile che ci circonda, il fallimento del modello di
sviluppo capitalistico. Imprese tecnologiche che dovrebbero offrire
“servizi di interesse generale” e contribuire al benessere sociale sono piegate
alla logica privatistica del massimo profitto, gestite da signori tanto
attenti ad accumulare soldi e potere quanto incuranti delle pesanti ricadute
sulla società. Il grande tema della democrazia torna ancora nel suo rapporto
irrisolto con la tecnica.
Alle
proteste e al movimento d’opinione di questi giorni bisogna esprimere
solidarietà, ma indicare anche una strada percorribile. L’obiettivo potrebbe essere l’istituzione
di un fondo pubblico, ottenuto tramite un’adeguata tassazione
dei consistenti profitti aziendali derivanti dall’uso delle nuove
tecnologie. Le risorse sarebbero a disposizione sia di chi perde il lavoro,
garantendo un reddito dignitoso, e sia, soprattutto, di quegli imprenditori del
settore che intendono rimanere sul mercato. Ai soliti opinionisti di
regime che dovessero storcere il naso e tacciare questa proposta di ripercorre
vecchie strade assistenzialistiche, vorrei ricordare che è stato William Baumol, un grande
economista liberale – di origine polacca, vissuto negli Stati Uniti, purtroppo
poco conosciuto in Italia – a studiare per primo le cause dell’andamento
crescente dei costi di alcuni servizi e a indicare le possibili soluzioni.
Baumol ha elaborato un modello teorico, da lui definito della “malattia da
costi”, che ha spiegato in modo semplice e sorprendente: il tempo di
esecuzione di mezz’ora di Mozart del XVIII secolo richiede oggi
esattamente la stessa quantità di tempo e lo stesso numero di musicisti.
Un’ora di lavoro produce oggi cento volte più orologi che all’epoca di Mozart,
ma un’ora di arpeggio produce altrettanto Mozart di quando lui era vivo. Ciò
significa che un concerto di Mozart, ai giorni nostri, costa cento volte più
orologi che in quell’epoca. I concerti, la danza, il teatro, gli
spettacoli dal vivo, a differenza della produzione manifatturiera, richiedono
gli stessi addetti di un secolo fa, ma con costi molto più elevati. Il
differenziale di produttività tra le attività industriali e quelle
artistico-culturali è cresciuto in modo esponenziale, ma poiché i salari nel
settore artistico sono correlati a quelli del resto dell’economia, ne consegue
che il costo per spettacolo deve crescere ad un tasso più alto di quello
rilevabile in tutti gli altri settori a più alta produttività. Alcune attività
hanno la caratteristica di essere refrattarie alla crescita della produttività
e, dunque, per Baumol, spetta allo Stato intervenire con misure fiscali
che consentano di reperire risorse dai settori a più elevata produttività al
fine di coprire i maggiori costi di alcuni settori e servizi fondamentali della
vita pubblica. A meno che non si vogliano mantenere costanti i salari nei
settori stagnanti, eventualità questa certamente non proponibile.
Le
considerazioni finora svolte a proposito delle attività culturali e delle performing arts, valgono,
sia pure in termini diversi, per la sanità, per l’istruzione, per l’assistenza
agli anziani o all’infanzia, per i trasporti pubblici locali, per la manutenzione
urbana. Per tutti questi settori vengono richieste competenze e attenzione
personale, talento e creatività. Facoltà tipicamente umane, difficilmente
sostituibili dall’AI. Tuttavia è da prendere molto sul serio la
preoccupazione e l’allarme per la perdita di posti di lavoro nei settori legati
all’attività intellettuale perché si coglie già l’impatto negativo
dell’introduzione delle tecnologie cognitive nei processi di produzione. Il
rapporto con le nuove tecnologie è quindi lo scoglio da superare per le
attività a bassa produttività e ad alta intensità di lavoro.
Un fatto è
certo: i concerti, gli spettacoli, i lavori di cura e di assistenza,
richiedono tempi difficilmente comprimibili, checché ne pensino i cultori
dell’efficienza a tutti i costi. La diffusione dei sensori, della
telemedicina o dei videogiochi non potrà mai competere con la preparazione,
l’attenzione personale e l’attitudine specifica richieste agli operatori della
sanità, dell’assistenza agli anziani o all’infanzia. In alcuni settori,
quindi, il progresso tecnico non può determinare più di tanto la contrazione
dei costi. Per parlare di un caso limite, nelle scuole materne ed
elementari, dove si è passati da uno a più insegnanti per classe, la
produttività per addetto è addirittura diminuita. Purtroppo i governi hanno
commesso l’errore di finanziare alcuni servizi pensando che la loro efficienza
e produttività sia in relazione con i mutamenti tecnologici. Ma in
realtà, mentre il settore manifatturiero si avvantaggia della
tecnologia per ridurre la componente umana (e i costi che essa comporta), i
settori dello spettacolo, della cultura, della sanità, non possono ridurre il
numero di chi ci lavora e le loro retribuzioni, pena lo scadimento delle
prestazioni. E la stabilità degli stanziamenti, se non una loro riduzione o una
crescita in termini nominali, non costituisce quindi un segnale di buon
governo.
Le
difficoltà finanziarie del bilancio pubblico, insieme a un uso scriteriato dei
fondi disponibili, minacciano ormai la qualità della vita e suggeriscono
l’impressione che servizi d’importanza vitale siano preclusi alla maggior parte
della popolazione, eccezion fatta per le famiglie più facoltose. Se si accetta,
però, l’interpretazione basata sul divario di produttività e della crescita dei
costi nei servizi, la soluzione potrebbe consistere nell’assegnare parte della
crescita della produttività ottenuta nel settore dinamico dell’economia ai
servizi caratterizzati da produttività stagnante. Trasferire una certa
quantità di risorse dai settori a produttività crescente in quelli della
produzione dei “servizi stagnanti” è la condizione per avere più cure
sanitarie, più assistenza all’infanzia e alla terza e quarta età, più
manutenzione urbana, più cultura e arte. Ci possiamo insomma permettere il
costo degli stagnant services, che implicano processi di
produzione intrinsecamente non standardizzabili e che presuppongono lavoro
manuale e intellettuale, oltre che attenzione personale. La leva fiscale è lo
strumento di questo trasferimento di risorse, e sarebbe bene superare luoghi
comuni e vecchi schemi che portano a “premiare” fiscalmente i settori ad alta
tecnologia e ad alta produttività che poi, oltre a fare record di utili, sono
gli stessi che riducono forza-lavoro.
La lezione
di Baumal è più che mai attuale. Il caso della sanità pubblica mostra
chiaramente che il mancato aumento della spesa equivale a un
de-finanziamento del servizio, con una conseguente caduta qualitativa. In
Italia l’introduzione di logiche e criteri aziendalistici negli ospedali e
nelle attività legate alla cura delle persone, ha procurato danni
incalcolabili, ha coperto sprechi e disservizi, testimonia in concreto la débâcle dell’ideologia
liberista (“meno Stato più mercato”). Esistono certamente carenze gestionali da
superare, sapendo però che non sono queste a determinare l’esplosione dei costi
del servizio. Non c’è più tempo da perdere. Bisogna costruire e dare continuità
ad un movimento che lotti perché la leva fiscale colmi il differenziale dei
costi di alcuni settori, migliorandone la qualità. Dipende però dalla politica,
dai rapporti di forza, dai diversi interessi in campo, definire misure di
bilancio e modalità di spesa che sappiano rapportarsi al benessere collettivo e
alle mutevoli esigenze di una società moderna.
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