OSSIGENO PER GAZA
La
solidarietà di tutti è necessaria, se possibile.
Questa la
richiesta ricevuta da Gaza ( Dal dottor Baseem Naim, precedente Ministro della
salute e ora coordinatore dell'informazione).
Hanno
esaurito i loro mezzi per far fronte a quello che è un continuo aumento di casi
di Covid Dal 12 nov , l'aumento è stato rapido e da 4 giorni i dati riportano
un aumento costante di molti nuovi casi al giorno. Con urgenza oggi il MOH ha
comunicato di non avere ossigeno o mezzi per produrlo e nessun test, né fondi
per acquistarlo. Se i fondi arrivano, l'OMS coordinerà il passaggio degli
elementi più urgenti, ma per farlo devono essere forniti fondi.
Medical aid
for Palestine, UK con cui da molti anni collaboriamo per le emergenze mi
conferma che possono fare loro la logistica
con la
causale
OXYGEN for
GAZA
potete
donare attraverso noi o direttamente a loro
- NWRG
(NewWeapons Research Group) ONLUS
IBAN:
IT59Y0501801400000011670924
- Medical
Aid for Gaza
IBAN: GB72
CPBK 08022865218196
GRAZIE -
FATE GIRARE
GAZA. L’incubo è realtà. Il Covid travolge il sistema sanitario – Nena News
E mentre la pandemia fa sempre più paura nella Striscia, un
rapporto dell’Unctad (Onu) spiega come il blocco israeliano sia costato oltre
16 miliardi di dollari ai suoi abitanti, di cui un milione ora vive al di sotto
della soglia di povertà
«Entro una
settimana non saremo in grado di occuparci dei casi critici causati dal
coronavirus». Non lascia spazio alle interpretazioni l’allarme lanciato nei
giorni scorsi da Abdelnaser Soboh, responsabile per l’Organizzazione mondiale della
sanità dell’emergenza Covid-19 nella Striscia di Gaza. Il
rischio tanto temuto a marzo, all’inizio della pandemia, è diventato una
drammatica realtà in questo lembo di terra palestinese martoriato negli ultimi
anni dalle offensive militari israeliane, penalizzato dalla scarsità di acqua
potabile e di energia elettrica e che fa i conti con la precarietà delle
infrastrutture civili. Il numero dei contagi è in rapido aumento e la percentuale di
tamponi positivi è oltre il 20%. «Molto presto la nostra
sanità non sarà in grado di assorbire un tale aumento dei casi e potrebbero
esserci malati che non troveranno posto nelle terapia intensiva», avverte da
parte sua Abdel Raouf Elmanama, membro della task force pandemica
di Gaza.
Fino a
qualche settimana fa le conseguenze della pandemia erano state relativamente
lievi a Gaza, dove vivono poco più di due milioni di palestinesi: 65 decessi
sui circa 15mila contagi. Numeri nettamente più bassi rispetto ad altre zone
del mondo. I casi gravi però ora aumentano rapidamente. Settantanove dei 100
respiratori disponibili sono già occupati. L’ospedale
«Europeo» di Khan Yunis, il principale centro Covid di Gaza, è saturo e ogni
giorno davanti ad esso decine di sospetti positivi fanno code di ore il tampone
ed essere assistiti.
Israele ha consentito nei mesi
scorsi l’ingresso a Gaza di 60 respiratori e di una decina dispositivi per i
tamponi. Il fabbisogno però è più alto. E i palestinesi
puntano il dito proprio contro il blocco israeliano che, denunciano, non ha
permesso di riorganizzare in modo più efficiente il sistema sanitario della
Striscia. Nei giorni scorsi il movimento islamico Hamas – che controlla Gaza
dal 2007 – attraverso gli egiziani ha avvertito Israele che la situazione sta
per «andare fuori controllo». Stando a fonti ben informate
citate dal quotidiano Al Akhbar, i recenti razzi lanciati da Gaza
verso il territorio israeliano non sono altro che un segnale di allarme.
«Servono subito una decina di macchinari per l’analisi dei tamponi e altri 40
respiratori per coprire le necessità delle prossime settimane. Altrimenti il
fallimento del piano di assistenza ai malati sarà inevitabile, con conseguenze
drammatiche», ci dice il giornalista Aziz Kahlout di Gaza city.
Il messaggio è giunto
dall’altra parte delle linee armistiziali. Il ministro della
difesa Benny Gantz ha
fatto sapere che Israele è pronto «ad arrivare a una soluzione e a contribuire
a migliorare le condizioni di coloro che vivono a Gaza». A patto, ha poi
aggiunto, che si raggiunga un’intesa che preveda, tra l’altro, il rilascio di
due cittadini israeliani e la restituzione delle salme di due soldati morti in
combattimento nel 2014. Hamas ripete che lo scambio dovrà prevedere
necessariamente la liberazione di un certo numero di prigionieri politici
palestinesi da parte di Israele. Due posizioni che non si sono avvicinate negli
ultimi anni e difficilmente lo faranno ora, anche di fronte al Covid, con
rischi seri di una escalation militare. Qualche mese fa il capo di Hamas a
Gaza, Yahya Sinwar (anche lui
risultato positivo al coronavirus qualche giorno fa), a
proposito del numero insufficiente di respiratori, aveva avvertito che «se Gaza non potrà respirare,
allora non respiranno anche gli altri» (gli israeliani).
Ad
appesantire il clima è il rapporto presentato dall’Unctad (Onu) nei giorni
scorsi che spiega come il blocco israeliano di Gaza sia costato oltre 16 miliardi di
dollari ai suoi abitanti – sei volte il valore del
prodotto interno lordo di Gaza nel 2018, o il 107% del PIL totale palestinese,
compresa la Cisgiordania – e come abbia spinto, tra il 2007 e il 2018, più di un milione di
palestinesi al di sotto della soglia di povertà.
Intanto i
numeri sempre più elevati del contagio nei Territori palestinesi occupati
hanno spinto il premier dell’Autorità Nazionale, Mohammad Shtayyeh, a imporre
il lockdown totale in Cisgiordania durante i fine settimana (venerdì e sabato)
e il coprifuoco notturno dalle 19 alle 6 del mattino.
Embargo Militare contro Israele
Dossier
a cura di BDS Italia con il sostegno di PeaceLink e la collaborazione del
Collettivo A Foras Postfazione di Giorgio Beretta
E’ uscito ieri il
nuovo dossier sull’apartheid israeliana in Palestina, a cura di BDS
Italia. Un dossier che, con il sostegno di Peacelink e la
collaborazione del Collettivo AForas, descrive e documenta le continue
violazioni di diritti umani e politici di migliaia di Palestinesi nel completo
silenzio internazionale, la consistenza della forza militare di Israele e lo
stretto legame che intercorre fra la politica, gli armamenti e le complicità
che permettono a Israele di godere di totale impunità.
Il popolo palestinese
da anni chiede l’embargo militare per Israele, e il sostegno della comunità
internazionale alla campagna di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni per
mettere fine alle ingerenze militari e allo stato di apartheid portato avanti
da Israele.
Israele,
è bene ricordarlo, è l’ottavo maggiore esportatore militare al mondo.
Tra il 2015 e il
2019 le esportazioni del governo e delle società private israeliani si sono
attestate a livelli record, pari al 3% del totale delle esportazioni globali di
armi.
Ma è anche
notoriamente uno dei maggiori investitori nell’ambito delle tecnologie
informatiche in campo militare. Per le aziende private avere un rapporto con
l’apparato militare e della sicurezza di Israele è un punto di forza. Solo nel
2019, le società tecnologiche israeliane hanno raggiunto un record di 8,3
miliardi di dollari di finanziamenti in conto capitale.
La maggior parte
degli investimenti è andata alle società di intelligenza artificiale che hanno
raccolto 3,7 miliardi di dollari e alle società di sicurezza informatica (1,88
miliardi di dollari).
Uno stato che basa
la sua ricchezza sulla capacità di costruire ed esportare strumenti di guerra,
sull’occupazione illegittima di interi territori e sull’oppressione di un
popolo, deve essere condannato e fermato dalla comunità internazionale.
Il
dossier fa nomi e cognomi delle istituzioni, dei governi, degli enti di ricerca
e delle aziende private coinvolte
Oltre a spiegare e
dettagliare i vari aspetti dell’ingerenza israeliana, delle operazioni di
pulizia etnica ai “test di pratiche e strategie militari” sui palestinesi, nel
dossier si fanno nomi e cognomi delle istituzioni, dei governi, degli enti di
ricerca e delle aziende private che collaborano ai progetti criminali di
Israele.
Si fa il nome
anche dell’italiana Alenia Aermacchi (oggi Leonardo) che proprio mentre erano
in corso i bombardamenti su Gaza nel 2014 ha fornito due dei trenta
cacciabombardieri commissionati dallo stato ebraico.
Ma si ricorda
anche la Pizzarotti di Parma, che collabora alla costruzione della rete
stradale israeliana, i progetti di collaborazione nell’ambito dei sistemi di
sorveglianza sociale e cybersicurezza, e l’Accordo che il nostro MIUR ha
firmato con Israele nel 2000, per la collaborazione in ambito scientifico con
università e imprese in diversi settori scientifici.
Al volume hanno
collaborato diversi accademici, analisti ed attivisti pro palestina come Angelo
Baracca, Filippo Bianchetti, Rossana De Simone, Olivia Ferguglia, Ester Garau,
Ugo Giannangeli, Flavia Lepre, Antonio Mazzeo, Loretta Mussi, Charlotte Napoli,
Raffaele Spiga, Angelo Stefanini
E’ urgente attuare
l’embargo militare totale fino a quando Israele non riconoscerà uguali diritti
a tutti i cittadini che abitano la Palestina storica, si ritirerà da tutti i
territori arabi occupati, consentirà il ritorno dei profughi e libererà i
prigionieri politici.
A noi il compito
di diffondere questo dossier, e di sostenere la campagna BDS e il popolo
palestinese.
Il Comitato Nazionale Palestinese BDS risponde alla guerra
Trump-Netanyahu contro il movimento BDS.
È abbastanza ironico che l'amministrazione Trump,
sollecitata dal regime di apartheid di Israele, continui a permettere e ad
accettare come normale la supremazia bianca e l'antisemitismo negli Stati Uniti
e nel mondo, diffamando nello stesso tempo come "antisemita" il BDS,
un importante movimento per i diritti umani guidato dai palestinesi, e i suoi
milioni di sostenitori in tutto il mondo. Il BDS ha costantemente e
categoricamente rifiutato qualsiasi forma di razzismo, compreso il razzismo
antiebraico, per una questione di principio.
La fanatica alleanza Trump-Netanyahu sta intenzionalmente
metendo sullo stesso piano l'opposizione al regime israeliano di occupazione,
colonizzazione e apartheid contro i palestinesi e gli appelli per pressioni
nonviolente con lo scopo di porre fine a questo regime da un lato, con il
razzismo antiebraico dall'altro, al fine di sopprimere la difesa dei diritti
dei palestinesi nel quadro del diritto internazionale. Questa revisione
fraudolenta della definizione di antisemitismo è stata condannata da dozzine di
gruppi ebraici in tutto il mondo e da centinaia di importanti
studiosi ebrei e israeliani, comprese autorità mondiali
sull'antisemitismo e l'Olocausto.
Sulla base di questa definizione revisionista e
fraudolenta, perfino le organizzazioni per i diritti umani che non fanno parte
del movimento BDS, ma sostengono la messa al bando delle merci delle colonie,
ad esempio, così come il 22% degli ebrei americani
di età inferiore ai 40 anni, che sostengono il boicottaggio totale
di Israele secondo un recente sondaggio, sarebbero anche etichettati come
"antisemiti".
Il movimento BDS per la libertà, la giustizia e
l'uguaglianza dei palestinesi, sta a fianco di tutti coloro che lottano per un
mondo più dignitoso, giusto e bello. Con i nostri numerosi partner, resisteremo
a questi tentativi maccartisti di intimidire e costringere i difensori dei
diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali ad accettare l'apartheid
israeliana e il colonialismo di insediamento come destino.
Fonte: BNC
Traduzione
di BDS Italia
Un
appello dall’attore e regista Mohammad Bakri
Salve, sono
Mohammad Bakri.
Oggi vi rivolgo
una richiesta insolita, che normalmente non faccio. Voglio che facciate una
donazione, ma non a me. Voglio attirare la vostra attenzione su una delle ONG
più coraggiose della nostra cerchia, che sta attualmente avviando una campagna
di raccolta fondi. Sto parlando di Zochrot.
Io sono nato nel
villaggio di al-Bi’na in Galilea. Nel 1948, alcuni dei suoi abitanti furono
costretti a fuggire a causa di un attacco israeliano. Nonostante il villaggio
fosse stato occupato senza resistenza e sebbene la guerra fosse finita, Israele
non permise ai profughi di al-Bi’na di tornare alle loro case. Lo stesso fece
per le centinaia di migliaia di profughi palestinesi sradicati e costretti a
lasciare le loro case in quello stesso 1948. Quell’anno, centinaia di città e
villaggi palestinesi si spopolarono completamente, per poi essere distrutti
negli anni successivi dallo Stato di Israele.
Zochrot,
pioniere straordinario, lavora per far conoscere questo disastro palestinese,
la Nakba. Informa l’opinione pubblica israeliana sulla Nakba e sul destino dei
Palestinesi in questo paese, chiedendo che vengano riconosciute le ingiustizie
perpetrate contro il popolo palestinese da parte di Israele. Zochrot si impegna
affinché gli Israeliani si assumano la responsabilità della violenta espulsione
di oltre 750.000 persone dalla loro terra natale, trasformando loro –e i loro
discendenti– in rifugiati, dopo aver demolito le loro case e cancellato le loro
comunità. Riconoscere il diritto al ritorno è un passo necessario per un futuro
di pace e uguaglianza in questo paese.
Il pubblico di
destinazione di Zochrot sono gli Ebrei israeliani. Questo è a dir poco
sorprendente. Unico a farlo, la sua attività sfida e intacca le abituali
percezioni sioniste e israeliane. Rivela ciò che è nascosto alla vista di
Israele, portando alla luce coloro che sono oppressi, evocando ciò che molti
preferirebbero negare.
Zochrot è stata
la prima associazione ad organizzare, per gli Israeliani, tour educativi nelle
comunità palestinesi distrutte. Zochrot ha raccontato la loro storia, la vita
prima della Nakba e le circostanze dello sradicamento dei Palestinesi, aprendo gli
occhi a migliaia di Israeliani sulle storie che stanno dietro alle molteplici
rovine (in)visibili in tutto il paese, spesso non lontano dalle case dei
partecipanti al tour. Questo è un tipo di protesta politica profonda che
accresce la consapevolezza della realtà.
Zochrot offre
varie attività. Ha un ricco sito web trilingue con ampio materiale sulla Nakba,
i rifugiati, le comunità distrutte e il diritto al ritorno. Ha pubblicato la
mappa della Nakba con i nomi cancellati delle città e dei villaggi palestinesi
distrutti ed ha anche lanciato l’app iNakba. Provala. Offre un’esperienza
straordinaria. Include ricche informazioni in tre lingue su ogni comunità
distrutta, ma può anche essere utilizzata come programma di navigazione, un GPS
che ti porta direttamente in ogni comunità palestinese cancellata. È l’unica
applicazione al mondo che può portarti in un luogo che non c’è più, in una
comunità che vorremmo ricostruire.
Ho avuto l’onore
di partecipare personalmente più di una volta alle attività di Zochrot. Come
regista e attore, la ONG ha ospitato me e i film che ho interpretato o diretto
nel suo 48mm Film Festival Dalla Nakba al Ritorno,
un’iniziativa eccezionale per promuovere attraverso il cinema il discorso sulla
Nakba e il ritorno.
Plaudo di tutto
cuore a Zochrot e al suo attivismo. Vi invito a sostenerlo e a fare la vostra
parte nel rafforzare questa voce di verità, per il bene di tutti noi. Anche se
affronta questioni difficili –crimini, torti e violazioni dei diritti umani–
ciò che Zochrot ci offre è un messaggio di speranza.
A cura di AssopacePalestina
Blinken,
l'interventista complice della Clinton nei disatri in Libia e Siria - Alberto
Negri
Il Washington Post ci informa che il nuovo segretario di stato Antony
Blinken,come consigliere della Clinton sostenne con forza l’intervento in Libia
e anche quello in Siria. I media italiani lo incensano come
"europeista" e si fermano alle apparenze.
Politica estera: il “team da incubo” di Biden
I guai non finiscono con Trump. Il team di Biden con Blinken segretario
di stato e Sullivan alla sicurezza nazionale ha questa volta l’opportunità di
rimediare i devastanti errori commessi in Siria e Libia dall’ex segretario di
stato Hillary Clinton di cui entrambi i nuovi responsabili sono stati
consiglieri strategici.
Il “dream team” di Biden rimanda ai peggiori incubi del Mediterraneo.
Quando nel 2011 la signora Clinton convinse Obama ad attaccare la Libia di
Gheddafi insieme a Francia Gran Bretagna intenzionate a sbalzare il raìs
libico, il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo.
Il Washington Post ci informa che Antony Blinken, come vice della
Clinton, sostenne con forza l’intervento in Libia e anche quello in Siria,
differenziandosi in questo proprio dalle posizioni assunte allora da Biden. “E’
stato un’interventista convinto”, scrive il quotidiano americano. Forse ha
cambiato idea, visto i guai combinati dalla Clinton nel cortile di casa nostra.
Vale la pena ricordare che l’insurrezione popolare di Bengasi del 2011 è
stata soltanto in parte spontanea mentre in parte fu organizzata dai francesi
che, dopo avere perso la Tunisia di Ben Alì, spinsero verso una rivolta già
preparata mesi prima con Musa Kusa, il capo dei servizi gheddafiani che si
recato a Parigi a ottobre del 2010 per un mese e in seguito abbandonò Gheddafi
per auto-esiliarsi a Londra, dove per altro nel 1980 era stato espulso come
mandante di omicidi politici degli avversari del regime. Lo rivendicò persino
in un’intervista al Times.
I francesi, come è stato rivelato dai dispacci del dipartimento di stato
guidato allora dalla Clinton, furono spinti a bombardare Gheddafi dal piano del
raìs libico di creare una moneta africana che avrebbe messo fuori gioco o
seriamente minato il franco Cfa gestito da Parigi, che custodisce le riserve
valutarie di 13 Paesi africani.
Dopo avere liberato Bengasi, dove furono inventati massacri che non
c'erano mai stati come le famose fosse comuni sulla spiaggia, i ribelli ci
impiegarono mesi per arrivare a Tripoli. Io ero lì e l'ho visto con i miei
occhi: senza i bombardamenti a tappeto della Nato, cui la stessa Italia ha
partecipato, non ce l'avrebbero mai fatta. Ci fu allora anche l'intervento di
forze speciali britanniche: il nostro console a Bengasi le fece liberare dopo
che erano state fatte prigioniere da fazioni filo gheddafiane: a Tobruk infatti
la popolazione continuava a ricevere i sussidi del regime. Risultato: questi
interventi hanno lasciato che i jihadisti si impadronissero della Cirenaica
dividendo in due un Paese che non si è più ricomposto, come del resto era stato
scritto sin dal primo giorno. Lo stesso Obama in un'intervista a The Atlantic
ha ammesso di avere fatto un errore a intervenire in Libia perché gli
occidentali non avevano soluzioni politiche di ricambio al regime, come del
resto era avvenuto in Iraq nel 2003. Tanto è vero che poi in Siria Obama evitò
l'intervento diretto (ben prima che arrivassero i russi nel 2015).
Gli interventi “umanitari" dell'Occidente hanno creato più guai e
morti di quelli che avrebbero voluto evitare. La Clinton, insieme a Blinken, è
in buona parte responsabili dei disastri della Libia e del Mediterraneo. I
testimoni oculari degli incontri tra la Clinton e l’allora ministro degli
Esteri Frattini hanno raccontato che il segretario di stato ridacchiava mentre
illustrava al nostro rappresentante come avrebbero fatto fuori il raìs di
Tripoli. Lo stesso Obama nel suo ultimo libro, La Terra Promessa, cita un paio
di volte il nuovo segretario di stato Blinken come uno dei grandi esperti di
Medio Oriente della sua amministrazione. Del resto Obama, a parte l’accordo con
l’Iran, che lui stesso però non ha attuato come avrebbe dovuto, di politica
estera ha sempre capito poco.
E’ disarmante leggere in questo ultimo volume i brani dedicati ai capi
stranieri, (Putin, Sarkozy, Merkel, Cameron, Erdogan) che rivelano un leader
scadente nella comprensione del mondo, guidato da stereotipi e luoghi comuni.
Con Cameron e Sarkozy _ che Obama prende in giro definendolo “un gallo nano” _
ha pure distrutto la Libia di Gheddafi lasciando che la Clinton combinasse
disastri in Medio Oriente. In Siria è stata la Clinton, affiancata dai suoi
consiglieri, a volere a ogni costo la caduta del regime di Bashar Assad,
lasciando che Erdogan appoggiasse i tagliagole jihadisti di tutto il Medio
Oriente e anche europei, i famosi foreign fighters che hanno ispirato gli
attentati nel continente dei seguaci dell’Isis.
Se oggi Erdogan spadroneggia in Libia, nel Mediterraneo orientale, in
Siria e in Azerbaijan, lo dobbiamo anche a questa politica per altro sostenuta
all’epoca anche dagli europei. Vedremo cosa faranno adesso gli americani dove
in Libia c’è una lotta a coltello per il potere: useranno forse anche qui il
Sultano della Nato? E’ possibile, se non probabile. E a proposito di interventi
umanitari: come si comporterà l’amministrazione Biden con l’Egitto? Ci
lasceranno soli come ha già fatto l’America di Trump a chiedere invano giustizia
per Giulio Regeni? Evidentemente sì. Ci sono dittatori e dittatori. Gheddafi
era autonomo e lo hanno fatto fuori, Al Sisi dipende dalle monarchie del Golfo,
i maggiori clienti di armi degli americani, e può fare quello che vuole. E ora
baloccatevi con il “dream team” di Biden e una giustizia che dalle nostre parti
non arriverà mai, per noi, per i palestinesi, per i curdi, per i profughi, per
tutti coloro che credono, ingenuamente, come lo studente egiziano Zaki, in un
mondo diverso.
Il processo di pace è da sempre un vicolo cieco - Ilan Pappe
Vent'anni dopo Camp David,
molti guardano con nostalgia agli accordi di Oslo. Ma per lo storico Ilan Pappe
da quando il movimento sionista ha messo piede in Palestina un vero processo di
pace non ha mai avuto luogo
Il 13 settembre del 1993, Israele e l’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (Olp) siglarono in pompa magna gli Accordi di Oslo.
L’accordo era frutto dell’ingegno di un gruppo di israeliani del think tank
Mashov, guidato dall’allora ministro degli esteri Yossi Beilin.
Si basava sul presupposto che un insieme di fattori avevano
creato le condizioni storiche ideali per trovare una soluzione alla questione
palestinese: il successo delle colombe del Partito laburista nelle elezioni
israeliane del 1992 da un lato, e la drastica erosione della credibilità
internazionale dell’Olp seguita al supporto dato da Yasser Arafat all’invasione
del Kuwait di Saddam Hussein dall’altro.
Gli architetti degli accordi pensavano che i palestinesi
non fossero in condizione di resistere ai diktat di Israele, all’epoca il
massimo che lo stato ebraico era disposto a concedere. Il meglio che i
rappresentanti del peace camp israeliano potevano offrire
era composto da due zone di apartheid – un pezzo di Cisgiordania e un’enclave
nella Striscia di Gaza – che avrebbero goduto dello status di nazione a livello
simbolico, mentre nella pratica sarebbero rimaste sotto il controllo
israeliano.
Oltretutto, questo accordo avrebbe dichiarato la fine del
conflitto. Le richieste ulteriori, come il ritorno dei rifugiati palestinesi o
un cambiamento di status della minoranza palestinese all’interno di Israele,
erano state espunte dall’agenda di «pace».
Una ricetta
per il disastro
Questi diktat erano la versione aggiornata della vecchia
idea israeliana che ha dato forma ai «processi di pace» sin dal 1967. Il primo
era la cosiddetta «opzione giordana», che avrebbe significato la spartizione –
geografica o funzionale – del controllo sui territori occupati tra Israele e la
Giordania. Il movimento laburista israeliano appoggiava quest’opzione. La
seconda fu l’idea di un’autonomia limitata dei palestinesi in questi territori,
che fu al cuore dei negoziati di pace con l’Egitto nei tardi anni Settanta.
Queste idee – l’opzione giordana, l’autonomia palestinese e
la formula di Oslo – avevano una cosa in comune: tutte suggerivano di
suddividere la Cisgiordania tra Israele e le aree palestinesi, con l’intenzione
futura di integrare le parti ebraiche dentro Israele, e contemporaneamente
mantenere la Striscia di Gaza come un’enclave connessa alla Cisgiordania da una
striscia di terra sotto il controllo israeliano.
Oslo segnò per certi versi uno scarto con i tentativi
precedenti. La differenza più importante fu che stavolta l’Olp era a fianco di
Israele nella ricetta per il disastro. Bisogna dire, tuttavia, a merito
dell’organizzazione, che fino a oggi non ha ancora riconosciuto gli Accordi di
Oslo come parte di un processo concluso. La sua partecipazione, e il
riconoscimento internazionale che ricevette, fu uno degli aspetti positivi (o
almeno potenzialmente positivi) di Oslo. L’aspetto negativo della
partecipazione dell’Olp fu che la politica unilaterale di Israele di
progressiva annessione e spartizione dei territori aveva a quel punto ricevuto
legittimità da un accordo firmato dai leader dell’Olp.
Un’altra differenza fu il coinvolgimento di accademici
dalla presunta neutralità e professionalità nella facilitazione degli accordi.
La Norway’s Fafo Research Foundation si fece carico degli sforzi di mediazione.
Adottò una metodologia che andò a vantaggio degli israeliani e fu disastrosa
per i palestinesi. In sostanza, fu un modo per cercare di ottenere il meglio
che la parte più forte era disposta a concedere, seguito da un tentativo di
forzare la parte più debole ad accettarlo. Non ci fu nessun sostegno per la
parte definita come la più debole. L’intero processo diventò un processo di
imposizione.
Una pillola
amara
Ci eravamo già passati. Nel 1947-48, la Commissione
Speciale sulla Palestina delle Nazioni Unite (Unscop) adottò un approccio
simile. Il risultato fu catastrofico. I palestinesi, che erano la popolazione
indigena e rappresentavano la maggioranza in quelle terre, non ebbero voce in
capitolo nella soluzione proposta. Quando la rifiutarono, le Nazioni Unite
ignorarono la loro posizione. Il movimento sionista e i suoi alleati imposero
la spartizione con la forza.
Quando venne siglato Oslo I, il primo set di accordi più
che altro simbolici, la disastrosa mancanza di un contributo palestinese di
qualsiasi tipo non fu immediatamente chiara. Questi accordi includevano non
solo il mutuo riconoscimento tra Israele e l’Olp, ma anche il ritorno in
Palestina di Yasser Arafat e in generale della leadership dell’Olp. Questa
parte dell’accordo generò una comprensibile euforia tra i palestinesi,
mascherando i reali intenti del summit di Oslo.
Questo contentino pensato per indorare una pillola amara fu
presto cancellato dal successivo set di accordi, conosciuto come Accordo di
Oslo II, nel 1995. Persino un debole Arafat li trovò difficili da accettare, e
il presidente egiziano Hosni Mubarak lo costrinse letteralmente a firmare il
patto di fronte alle televisioni di tutto il mondo.
Ancora una volta, come nel 1947, la comunità internazionale
trovò una «soluzione» asservita agli scopi e alla visione ideologica di
Israele, ignorando completamente i diritti e le aspirazioni dei palestinesi. E
ancora una volta il principio alla base della «soluzione» fu quello della
spartizione.
Nel 1947, al movimento dei coloni sionisti venne offerto il
56 percento della Palestina, e il movimento stesso andò avanti fino a
conquistarne il 78 percento con la forza. L’Accordo di Oslo II offriva a
Israele un’ulteriore 12 percento della Palestina storica, consolidando lo
status di Israele sul 90 percento del paese e creando due zone di apartheid
nelle aree restanti. Nel 1947, la proposta era quella di dividere la Palestina
tra Israele e uno stato arabo. La narrativa intessuta da Israele, dalla Fafo e
dalla comunità internazionale coinvolta nelle mediazioni di Oslo ruotava
attorno al fatto che i palestinesi avevano perso l’opportunità di creare uno
stato per via della loro posizione irresponsabile e ostile nel 1947. E così, in
maniera didascalica, gli veniva ora offerto uno spazio molto più piccolo e un
ruolo di entità politica di serie B – certo non uno stato, nemmeno nella più
sfrenata delle immaginazioni.
La geografia
del disastro
Oslo II creò una geografia del disastro che permise a
Israele di allargarsi verso altre parti della Palestina storica, confinando i
palestinesi nelle due zone di apartheid; o, per dirla in altri termini, di
dividere la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in aree palestinesi e
israeliane. L’Area A era sotto il diretto controllo dell’Autorità nazionale
palestinese (Anp – che assomigliava a uno stato, senza averne i poteri); l’Area
B era governata in maniera congiunta da Israele e dalla Anp (ma in realtà
soltanto da Israele); e l’Area C era governata esclusivamente da Israele.
Recentemente, e sempre di più, questa zona è stata de facto annessa
a Israele.
Per completare l’annessione sono state necessarie
l’aggressione militare e coloniale degli abitanti palestinesi (alcuni dei quali
avevano già lasciato le loro abitazioni), la denominazione di vaste aree come
campi d’addestramento per l’esercito o per [la salvaguardia dei] «polmoni
verdi» ecologici [foreste piantate da Israele per nascondere le rovine dei
villaggi palestinesi distrutti, Ndt], dai quali i palestinesi
sono interdetti, e infine la modificazione costante del regime fondiario per
strappare sempre più terra per nuovi insediamenti o per l’espansione di quelli
vecchi.
Per quando Arafat arrivò a Camp David nel 2000, il disegno
di Oslo si era ormai completamente dispiegato e, sotto tanti aspetti, aveva già
creato dei precedenti irreversibili. La caratteristica principale della
cartografia post-Oslo fu la bantustanizzazione [creazione di
zone di apartheid; da bantustan, nome delle zone assegnate alle
etnie nere in Sudafrica e Namibia all’epoca dell’apartheid, Ndt]
della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, l’annessione ufficiale dell’area
della grande Gerusalemme, e la separazione fisica della Cisgiordania del nord
da quella del sud.
Ci furono anche altre conseguenze, non meno importanti: la
scomparsa del diritto al ritorno dall’agenda di «pace» e la continua
giudaizzazione della vita palestinese all’interno di Israele (attraverso
l’esproprio delle terre, l’accerchiamento di villaggi e città, il mantenimento
di insediamenti e città esclusivi per ebrei e l’approvazione di una serie di
leggi che istituzionalizzavano l’apartheid nello stato di Israele).
Più avanti, quando mantenere una presenza coloniale nel mezzo della Striscia di Gaza si rivelò troppo costoso, i leader di Israele rividero la mappa e la logica di Oslo per includere un nuovo metodo che ne assicurasse la sostenibilità: imposero il blocco della Striscia di Gaza via terra e via mare per il suo rifiuto a riconoscersi come Area A sotto il dominio dell’Anp.
Dopo Rabin
La geografia del disastro, proprio come nel 1948, è stato
il risultato del piano di pace. Sin dal 1995 e dalla firma dell’accordo Oslo
II, più di seicento checkpoint hanno privato la popolazione dei territori
occupati della loro libertà di movimento tra villaggi e città (e tra la
Striscia di Gaza e la Cisgiordania). La vita viene amministrata nella Aree A e
B dall’Amministrazione civile, un corpo para-militare che concede permessi solo
in cambio di una piena collaborazione con i servizi segreti.
I coloni hanno continuato i loro attacchi da vigilantes ai
palestinesi e l’espropriazione delle terre. L’esercito israeliano con le sue
unità speciali entra nell’Aree A e nella Striscia di Gaza a suo piacimento, arrestando,
ferendo e uccidendo i palestinesi. Anche la punizione collettiva fatta di
demolizioni, coprifuoco e chiusure è continuata sotto l’egida degli «accordi di
pace».
Poco dopo la firma di Oslo II, nel novembre del 1995, venne
assassinato il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Non sapremo mai se
avrebbe voluto – o potuto – influenzare gli sviluppi del processo di pace in
maniera positiva. I primi ministri che gli sono succeduti fino al 2000, Shimon
Peres, Benjamin Natanyahu e Ehud Barak, hanno supportato appieno la
trasformazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza in due prigioni
giganti, dove gli spostamenti tra dentro e fuori, le attività economiche, la
vita quotidiana e la sopravvivenza dipendono dalla buona volontà di Israele –
un lusso raro nel migliore dei casi.
La leadership palestinese sotto Yasser Arafat aveva
ingoiato questa pillola amara per molte ragioni. Era difficile rinunciare alle
apparenze di un potere presidenziale, al senso di indipendenza in alcuni
aspetti della vita, e soprattutto alla convinzione ingenua che questo fosse uno
stato delle cose temporaneo, e che sarebbe stato rimpiazzato da un accordo
finale che avrebbe portato alla sovranità palestinese (vale la pena notare che
questa leadership siglò un accordo che non menziona in nessuna parte dei
documenti ufficiali la creazione di uno stato palestinese indipendente).
Il miraggio
di Camp David
Per un breve momento, nel 1999, sembrò che questo ottimismo
fosse giustificato. Il governo di destra di Benjamin Netanyahu aveva ceduto il
passo a uno presieduto dal leader laburista Ehud Barak. Retoricamente, Barak
dichiarò il suo impegno per procedere con l’accordo e decidere gli ultimi
dettagli. Tuttavia, dopo la perdita della maggioranza nel Knesset [il
parlamento monocamerale israeliano, Ndt], lui e il presidente
Bill Clinton – invischiato all’epoca nello scandalo Monica Lewinsky – spinsero
Yasser Arafat in un summit raffazzonato e azzardato nell’estate del 2000.
Il governo israeliano reclutò un gran numero di esperti e
preparò montagne di documenti con l’unico scopo di imporre l’interpretazione di
Israele ad Arafat per un accordo definitivo. Secondo i loro esperti, la fine
del conflitto avrebbe significato l’annessione di Israele di blocchi
consistenti di insediamenti, la creazione della capitale palestinese nel
villaggio di Abu Dis e di uno stato demilitarizzato, soggetto al controllo
economico e alla dominazione militare di Israele. L’accordo finale non
includeva nessun riferimento serio al diritto al ritorno, e ovviamente – così
come negli Accordi di Oslo – ignorava completamente i palestinesi che vivevano
dentro Israele.
Il versante palestinese reclutò l’Adam Smith Institute di
London per farsi aiutare nella preparazione di un summit affrettato. Produsse
alcuni documenti, che in ogni caso non vennero considerati rilevanti né da
Barak né da Clinton. Questi due signori avevano fretta di concludere in un paio
di settimane, per il bene della loro sopravvivenza politica interna. Entrambi
avevano bisogno di una vittoria veloce di cui potersi vantare (e qui ci sono
delle somiglianze con la gestione catastrofica della crisi del Covid-19 da
parte di Trump e della pace di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e il
Bahrain, che l’amministrazione ha rivendicato come un grande trionfo). Dal momento
che il tempo era essenziale, impiegarono le due settimane del summit a
esercitare una pressione enorme su Arafat per fargli firmare un accordo già
chiuso, preparato prima da Israele.
Arafat supplicò i due di dargli qualcosa di concreto da
mostrare al suo ritorno a Ramallah. Sperava di poter annunciare almeno uno stop
agli insediamenti e/o il riconoscimento del diritto dell’Olp su Gerusalemme,
così come una sorta di principio di comprensione dell’importanza del diritto al
ritorno per la controparte palestinese. Barak e Clinton ignorarono
completamente le sue richieste. Prima del ritorno di Arafat in Palestina, i due
leader lo accusarono di essere un guerrafondaio.
La seconda
Intifada
Al suo ritorno, Arafat – come lo descrisse in seguito il
senatore George Mitchell – fu abbastanza passivo e non pianificò nessuna mossa
drastica, come ad esempio una rivolta. I servizi segreti di Israele riportarono
ai loro capi politici che Arafat stava facendo tutto il possibile per calmare i
membri più militanti di Al-Fatah, e sperava ancora di trovare una soluzione
diplomatica.
Quelli intorno ad Arafat si sentirono traditi. C’era
un’atmosfera di impotenza, fino alla visita provocatoria ad Haram al-Sharif da
parte del leader dell’opposizione, Ariel Sharon. L’esercizio di settarismo di
Sharon innescò la miccia di un’ondata di manifestazioni, alle quali l’esercito
israeliano rispose con particolare brutalità. L’esercito era reduce da una
recente umiliazione per mano del movimento libanese di Hezbollah, che aveva
costretto le Forze di difesa di Israele a ritirarsi dal sud del Libano e aveva
così eroso il supposto potere di deterrenza di Israele.
I poliziotti palestinesi decisero che non potevano stare a
guardare, e la rivolta si fece sempre più militarizzata. Arrivò fin dentro Israele,
dove una polizia razzista e dal grilletto facile era ben felice di mostrare a
tutti quanto fosse facile uccidere manifestanti palestinesi cittadini dello
stato di Israele. Il tentativo di alcuni gruppi palestinesi come Al-Fatah e
Hamas di rispondere con attacchi kamikaze gli si ritorse contro dal momento che
le operazioni di rappresaglia israeliane – culminate nel 2002 con l’infame
Operazione Scudo difensivo – portarono alla distruzione di intere città e
villaggi, e a ulteriori espropri di terre da parte di Israele. Un’altra
risposta fu la costruzione di un muro di apartheid che separa i palestinesi
dagli affari, dai campi e dai centri di vita.
Israele rioccupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel
2007, vennero reintrodotte le zone A, B e C della Cisgiordania. Dopo il ritiro
di Israele da Gaza, Hamas prese il sopravvento, e il territorio fu messo sotto
un assedio che continua ancora oggi.
Dalle ceneri
Molti politici e strateghi israeliani sono certi di aver
abbattuto completamente lo spirito palestinese. Precisamente ventisette anni
dopo la firma degli Accordi di Oslo, il prato della Casa Bianca ha ospitato una
nuova cerimonia per gli Accordi di Abrahm, un accordo di pace e normalizzazione
tra Israele due stati arabi, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain.
I media mainstream statunitensi e israeliani ci assicurano
che questo è l’ultimo chiodo sulla bara dell’ostinazione palestinese. La
ragione è che l’Anp dovrà accettare qualsiasi condizione posta da Israele, dal
momento che non troverebbero nessun alleato in caso di rifiuto. Ma la società
palestinese è una delle più giovani e istruite del mondo. Il movimento
nazionale palestinese è sorto dalle ceneri della Nakba negli anni Cinquanta, e
può rinascere ancora. Non importa quanto è potente l’esercito israeliano, e non
importa quanti stati arabi sigleranno ancora accordi di pace con Israele: lo
stato ebraico continuerà a coesistere con milioni di palestinesi sotto il suo
dominio in un regime di apartheid.
Il fallimento di Camp David nel 2000 non fu la fine di un
genuino processo di pace. Un simile processo non ha mai avuto luogo, non da
quando il movimento sionista ha messo piede in Palestina alla fine del
Diciannovesimo secolo; ha rappresentato invece l’ufficializzazione
dell’apartheid della repubblica di Israele. Rimane ora da capire per quanto
tempo il mondo sarà disposto ad accettare questo stato di cose come legittimo e
sostenibile, o se invece deciderà che la de-sionizzazione di Israele, con la
creazione di uno stato democratico che include tutta la Palestina storica, è
l’unica soluzione equa a questo problema.
Otto attivisti per il
clima arrestati durante la protesta contro una nuova zona industriale in
Cisgiordania - Oren
Ziv
Attivisti per la giustizia
climatica e i diritti umani si incatenano all’ingresso di una cava
israeliana per protestare contro il furto della terra palestinese e la
distruzione dell’ecosistema locale.
Dozzine di attivisti per la giustizia
climatica e per i diritti umani hanno bloccato domenica mattina l’ingresso a
una cava israeliana nella Cisgiordania occupata per protestare contro il
progetto di costruzione di una nuova zona industriale nell’area. Secondo i
manifestanti, il piano di espansione della HeidelbergCement Quarry, che
includerà anche la costruzione di un nuovo cimitero israeliano, distruggerà il
corridoio ecologico del centro del Paese ed amplierà l’annessione della
Cisgiordania.
Gli attivisti, che fanno parte del
gruppo “One Climate”, si sono incatenati all’ingresso della cava e hanno
dispiegato un gigantesco cartello con la scritta “Stop the Destruction”,
impedendo l’entrata e l’uscita dei camion che trasportano cemento attraverso il
Paese. L’azione ha causato un grande ingorgo di camion fuori dalla cava, con un
autista che ha stimato che la protesta ha causato oltre 100.000 NIS di
perdita per l’azienda.
Nel frattempo, altri attivisti hanno
distribuito volantini ai passanti, compresi i camionisti palestinesi che si
sono schierati in solidarietà con i manifestanti. Dopo tre ore di protesta, gli
agenti di polizia giunti sul posto hanno chiesto ai lavoratori della cava di
tagliare le catene dei manifestanti. Otto sono stati arrestati.
Il progetto per espandere la cava
di HeidelbergCement e costruire una zona industriale collegherebbe gli
insediamenti israeliani di Elkana e Oranit (situati a est della cava) con la
città israeliana di Rosh HaAyin (a ovest della cava e all’interno della linea
verde ), creando così una contiguità territoriale tra Israele e la
Cisgiordania. La cava esistente – che è di proprietà e gestita da Hanson, una
filiale israeliana della società tedesca HeidelbergCement, il secondo più
grande produttore di cemento al mondo – è costruita su terreni appartenenti ai
villaggi palestinesi di Deir Balut e al-Zawiya, espropriati dall’esercito
israeliano negli anni ’80.
Poiché la cava si trova sul lato
“israeliano” del muro di separazione, di fronte a un checkpoint dell’IDF sulla
Route 5, gli attivisti palestinesi della Cisgiordania non hanno potuto prendere
parte alla protesta.
“Siamo
qui per fermare i responsabili dell’occupazione e della crisi climatica. Siamo
qui per chiedere giustizia climatica per tutti coloro che vivono in questa
terra, uomini e animali, palestinesi e israeliani, donne e uomini, dI ogni
gruppo, dI ogni identità “, ha detto Ya’ara Peretz, uno dei leader dell’azione.
Il piano di ampliamento della cava è in
attesa di approvazione da parte della commissione urbanistica del governo
militare nei territori occupati, sotto l’egida del ministro della Difesa Benny
Gantz.
I manifestanti hanno denunciato che il
furto di risorse naturali dal territorio occupato e il loro trasferimento in
territorio israeliano viola il diritto internazionale. “Queste colline
appartengono anche ai villaggi che si trovano ad est del muro di separazione”,
ha detto Peretz. “Secondo il diritto internazionale, le risorse qui
appartengono ai palestinesi, non a Israele. Quello che stiamo vedendo qui è un
doppio furto. Furto della natura e dell’ambiente e furto della [terra]
palestinese “. ha detto Peretz.
“Siamo qui per fermare la
distruzione, per stabilire il collegamento tra occupazione, annessione e
clima”, ha detto Mor Gilboa, uno dei leader di One Climate, che si è incatenato
all’ingresso della cava. “Il piano per espandere la cava non viene portato
avanti solo per ragioni economiche, ma anche per creare contiguità
dall’insediamento di Elkana a Rosh HaAyin”, ha detto.
I manifestanti hanno aggiunto che le
colline su cui si trova la cava fanno parte di un corridoio ecologico nel
centro del paese che si estende dalla Cisgiordania alla pianura costiera e
ospita molti animali tra cui cervi, iene, sciacalli e cinghiali selvatici .
Diverse organizzazioni ambientaliste israeliane, inclusa la Società per la
protezione della natura in Israele, si oppongono al piano.
Oren Ziv è fotoreporter, uno dei
membri fondatori del collettivo fotografico Activestills e scrittrice per
Local Call. Dal 2003, ha documentato una serie di questioni sociali e politiche
in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di
attivisti e le loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste
popolari contro il muro e gli insediamenti, alloggi a prezzi accessibili e
altre questioni socio-economiche, lotte contro il razzismo e la discriminazione
e la lotta per liberare gli animali.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni
specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org
Israele fornirà per 5
anni i sistemi di sicurezza alla missione dell’ONU in Mali - Antonio Mazzeo
Saranno i grandi gruppi
industriali-militari israeliani a fornire i sistemi di sicurezza e
d’intelligence per la “difesa” delle installazioni militari della missione
delle Nazioni Unite di stabiliIizzazione politica del Mali. Secondo un rapporto
pubblicato dal sito specializzato Africa Intelligence, IAI –
Israel Aerospace Industries, attraverso la controllata Advanced Technology
Systems con sede in Belgio, ha firmato un contratto con l’ONU per assicurare la
protezione esterna delle numerose basi utilizzate dalle forze di polizia e dai
reparti militari assegnati alla missione internazionale MINUSMA (Multidimensional
Integrated Stabilization Mission in Mali). La durata prevista del
contratto è di cinque anni.
IAI è il principale gruppo
industriale aerospaziale e missilistico israeliano. Con più di 15.000
dipendenti e un fatturato annuo superiore ai 3.300 milioni di dollari, IAI ha
il suo quartier generale nella città di Lod, a una quindicina di km. a sud-est
di Tel Aviv. Specie nell’ultima decade le Israel Aerospace Industries hanno
consolidato partnership strategiche con il colosso aerospaziale europeo Airbus
e con le statunitensi Boeing, Lockheed Martin, General Dynamics e
Raytheon. Tra le componenti belliche prodotte compaiono soprattutto i
recentissimi sistemi di difesa aerea “Iron Dome” e i sistemi
anti-missile a corto e medio raggio “David’s Sling”, “Arrow-2” e “Arrow-3”, ma
soprattutto i velivoli aerei a pilotaggio remoto “Heron”, in grado di
sorvolare i teatri operativi per lunghi periodi di tempo ad altitudini
medie. Con funzioni di sorveglianza, monitoraggio, rilevamento e assistenza
alle operazioni di combattimento, gli “Heron” sono stati utilizzati dalle forze
armate israeliane nelle operazioni d’attacco a Gaza, Libiano e Siria. Alcuni
velivoli sono stati acquistati anche dalle forze aeree di Australia,
Canada, Francia, India, Germania e Turchia; le agenzie europee Frontex ed EMSA
a cui è affidato il controllo e la “sicurezza” della frontiere esterne UE, si
sono affidate ai droni di IAI per le operazioni di “contenimento” dei flussi
migratori nel Mediterraneo.
Gli “Heron” israeliani sono pure
ben conosciuti in Mali: dall’1 novembre 2016 sono utilizzati infatti
dall’esercito tedesco per il supporto aereo alla missione MINUSMA. Sino ad
oggi questi droni hanno svolto nel martoriato paese africano più di 1.200
interventi con oltre 11.500 ore di volo. Qualche mese fa le forze armate della
Germania hanno rinnovato sino al giugno 2021 (con un’opzione per un altro anno
ancora) il contratto di servizio per i sistemi a pilotaggio remoto; il
contractor è Airbus Defence and Space, rappresentante in Europa del gruppo IAI.
Sempre secondo Africa
Intelligence, il contratto per la protezione delle installazioni militari
in Mali è stato preceduto nel mese di giugno da un accordo delle Nazioni Unite
con altre due importanti aziende militari israeliane, Elbit Systems e MER
Group, per la fornitura di sofisticati sistemi di individuazione ed
identificazione delle “minacce”, video-camere, apparecchiature di
telerilevamento e droni, più relativi servizi di manutenzione e formazione del
personale MINUSMA.
Elbit Systems, interamente in mano
alla finanza privata, è una delle maggiori aziende internazionali produttrici
di centri di telecomunicazione, sistemi di comando e controllo, tecnologie
di sorveglianza e per le guerre elettroniche e cyber. Uno dei “gioielli” di
morte più noto è il drone-spia e killer “Hermes”, utilizzato dall’esercito
israeliano durante il conflitto in Libano nel 2006 e contro obiettivi civili
palestinesi a Gaza e Cisgiordania tra il 2008 e il 2014. MER Group è
invece un’affermata azienda produttrice di sistemi d’intelligence con sede a
Holon e filiali e uffici di rappresentanza in mezzo mondo (ben quindici nel
continente africano).
La missione MINUSMA ha preso il via
a seguito della Risoluzione n. 2100 del 25 aprile 2013 del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU per sostenere il processo politico di transizione e aiutare
la stabilizzazione del Mali. Con la successiva Risoluzione n. 2164 del 25
giugno 2014, le Nazioni Unite hanno ampliato i compiti della missione
internazionale alla ricostruzione e stabilizzazione della sicurezza e alla
protezione dei civili; al sostegno del dialogo politico e della riconciliazione
nazionale; all’assistenza al ristabilimento dell’autorità statale e alla
“promozione e protezione dei diritti umani nel paese”.
Alla forza MINUSMA contribuiscono
con proprie unità militari e di polizia 57 Paesi, schierati nelle principali
città del Mali tra cui Kidal, Gao, Tomboctu, Mopti e la capitale
Bamako. Alla data del 20 ottobre 2020 erano schierati nel paese africano
1.421 civili, 25 “esperti”, 1.695 poliziotti, 443 ufficiali, 12.956 membri di
forze armate e 176 “volontari UN”, più 7 velivoli aerei (con e sena pilota) e
24 elicotteri. I paesi che più stanno contribuendo a MINUSMA in termini di
personale sono il Bangladesh 1.601; la Guinea (1.512); il Ciad (1.456); il
Burkina Faso: (1.255); l’ Egitto (1.208); il Togo (1.206); il Senegal (999); il
Niger (867); la Costa d’Avorio (816); la Germania (429). L’Italia, invece,
assegna annualmente alla missione internazionale sette ufficiali
dell’Esercito, impiegati quale personale di staff nel Quartier Generale
militare a Bamako.
(Articolo
pubblicato in Africa ExPress il
26 novembre 2020)
Facciamo
come Hallel - Tonio
Dell'Olio
Nella
giornata di riflessione sulla violenza sulle donne mi piace accendere una luce
sulla "nonviolenza delle donne". Ci sono gesti di coraggio e prese di
posizione determinate, che solo le donne riescono a compiere. Nei giorni scorsi
è stata scarcerata dopo 56 giorni di detenzione in un programma di rieducazione
Hallel Rabin, una ragazza di 19 anni che per motivi di coscienza si è rifiutata
al servizio militare in Israele. Col suo gesto chiede che il suo Paese metta
fine alle violenze quotidiane perpetrate ai danni delle popolazioni palestinesi
e riconosca il diritto al servizio alternativo a quello militare per le
obiettrici e gli obiettori di coscienza. Nella lettera di motivazioni inviata a
suo tempo alle autorità israeliane scrive tra l'altro: "L'uccisione, la
violenza e la distruzione sono diventate così comuni che il cuore si indurisce
e lo ignora. (…) Il male è diventato per noi parte della famiglia, lo
difendiamo e lo giustifichiamo o chiudiamo gli occhi di fronte ad esso ed
evitiamo la responsabilità. (…) Non sono preparata a mantenere e alimentare una
realtà violenta. Non sono preparata a far parte di un esercito soggetto alla
politica di un governo che va contro i miei valori (…)". Digitate il nome
di questa ragazza in YouTube e troverete qualche video che vale una meditazione
sul significato di sicurezza, difesa, rispetto e, soprattutto, nonviolenza.
Hallel è cresciuta nel Kibbutz di Harduf e i suoi genitori sono fieri di lei.
Anche noi.
I cineasti boicottano
il pinkwashing israeliano del TLVFest - Tamara Nassar
Più di una dozzina di registi hanno
sostenuto l’appello palestinese volto a boicottare il TLVFest, il Festival
Internazionale del Film LGBTQ di Tel Aviv sostenuto dal governo.
Sei dei registi si sono anche uniti a
170 altri artisti da tutto il mondo che hanno firmato un impegno lanciato
all’inizio di quest’anno per boicottare il festival.
Il TLVFest, che si terrà nel mese
corrente, quest’anno ha rafforzato il suo abbraccio al governo israeliano di
estrema destra, in particolare al ministero degli affari strategici.
Il ministero è l’agenzia principale
nello sforzo globale di Israele per diffamare e sabotare il movimento per i
diritti dei palestinesi nel mondo.
Il TLVFest è una pietra angolare della
strategia di propaganda israeliana nota come pinkwashing.
Questo schiera la presunta apertura di Israele verso le questioni LGBTQ
per deviare le critiche dai suoi abusi dei diritti umani e dai crimini di
guerra contro i palestinesi.
Il pinkwashing mira anche a presentare
falsamente Tel Aviv come un luogo sicuro per i palestinesi che cercano
relazioni omosessuali, mentre esagerano o mentono sui pericoli che essi devono
affrontare nella loro stessa società.
La strategia è tipicamente rivolta al
pubblico liberale occidentale.
Sponsorizzazione del Ministero
Il multimilionario Ministero degli
Affari Strategici è uno dei principali sponsor del Festival.
Gestito da ufficiali delle agenzie di
spionaggio israeliane, intraprende una guerra globale contro il BDS – il
movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni.
Quando i primi registi hanno iniziato a
ritirarsi, il TLVFest ha cercato di nascondere la sua partnership con il
Ministero oscurando il suo logo sul sito web del Festival.
“Ha prima sostituito la versione
inglese del logo del ministero con una versione ebraica, poi l’ha rimossa del
tutto solo per sostituirla di nuovo con un logo senza marchio”, ha detto la
Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI).
Ma il sostegno del Ministero al
festival è ancora in corso, nonostante gli sforzi per nasconderlo.
Il ministero, ad esempio, sta ancora
caricando video teaser del festival sul suo canale YouTube.
Partnership
Diversi governi europei stanno
sponsorizzando il Festival.
Le ambasciate europee solitamente
partecipano anche all’altro grande evento di pinkwashing di Israele, l’annuale
Pride Parade di Tel Aviv.
TLVFest collabora anche con Creative
Community for Peace, un gruppo di facciata dell’organizzazione di lobby
israeliana di estrema destra StandWithUs.
Il suo scopo è minare l’appello della
società civile palestinese al BDS, soprattutto tra coloro che si identificano
come LGBTQ.
In un’e-mail vista da The Electronic
Intifada, Creative Community for Peace ringrazia i registi rimasti nel
Festival.
Il direttore del gruppo, Ari Ingel,
sostiene che il movimento BDS “sta diffondendo bugie su di noi”.
“Posso assicurarvi che non siamo
allineati con nessuna di quelle organizzazioni citate”, ha aggiunto Ingel,
senza nominare le organizzazioni a cui si riferiva.
“Siamo più che felici di chattare e
rispondere a qualsiasi domanda voi possiate avere”, ha detto Ingel agli
artisti.
Tuttavia, questo atteggiamento
amichevole non viene mostrato agli artisti che si sono ritirati dal Festival.
Gli organizzatori del TLVFest si sono
rifiutati di onorare le richieste di sette registi che hanno chiesto il ritiro
dei loro film.
L’email di Ingel menziona che un film
che il festival sta proiettando è The Polygraph, realizzato da Samira Saraya,
una cittadina palestinese di Israele.
Non è la prima volta che Saraya
partecipa al TLVFest e ad altri festival cinematografici israeliani.
Così Saraya ha descritto se stessa:
“una palestinese-israeliana che vive in un luogo che nega la mia esistenza, e
una donna lesbica araba in una società conservatrice e omofobica”.
Saraya contribuisce alla falsa
narrativa israeliana secondo cui la società palestinese è intollerante nei
confronti delle relazioni omosessuali o LGBT, mentre la società israeliana non
lo è.
Al di fuori della presunta Tel Aviv
liberale, gran parte della società ebraica israeliana considera l’omosessualità
un tabù. Essa è condannata anche da rabbini israeliani di alto livello.
Anche la comunità LGBTQ di Israele è
stata bersaglio di attacchi violenti.
Nel 2014, i riservisti della famigerata
unità militare di sorveglianza 8200 di Israele hanno ammesso di aver utilizzato
i dati privati più intimi dei palestinesi, comprese le informazioni sulle
loro attività sessuali, per ricattarli e farli diventare informatori di
conoscenti e familiari ricercati da Israele.
È anche degno di nota il fatto che la
stragrande maggioranza dei palestinesi e degli arabi che intrattengono
relazioni omosessuali non si identifichi secondo il binario euro-americano
omosessuale-eterosessuale, come ha ampiamente scritto il professore della
Columbia University Joseph Massad.
Inoltre, i rapporti sessuali tra
persone dello stesso sesso non sono illegali secondo la legge palestinese.
Trad: Lorenzo Poli “siamo realisti,
esigiamo l’impossibile” – Invictapalestina.org
Morire di Covid o di fame: il terribile
dilemma nell'inferno di Gaza - Umberto De Giovannangeli
Morire di Covid o morire di fame. E’ l’inferno di
Gaza. Una prigione a cielo aperto, isolata dal mondo per l’assedio israeliano
che dura da oltre tredici anni. E ora anche una prigione “infetta”. La
Striscia di Gaza ha subito un numero record di nuovi casi di coronavirus ogni
giorno, e il ministero della Salute di Gaza del governo di Hamas, ha
dichiarato che sabato ci sono stati 891 nuovi casi nell'ultimo giorno.
Il numero di casi è salito a 5.036, con 332 in ospedale e 78
in gravi condizioni, e i decessi sono saliti a 62, la maggior parte negli
ultimi due mesi. Il ministero non pubblica i dati sul numero di pazienti che
utilizzano i ventilatori, ma secondo stime non ufficiali, tra il 40 e il 50 per
cento dei ventilatori è utilizzato.
"Stiamo raggiungendo una situazione critica e non c'è
dubbio che la Striscia avrà bisogno di un intervento esterno sul fronte medico
e umanitario", ha detto ad Haaretz un membro del
sistema sanitario di Gaza. La fonte ha aggiunto che gli operatori sanitari e i politici non erano d'accordo
su questioni chiave, mentre le autorità erano in ritardo nell'imporre un
blocco. Nel frattempo, la stragrande maggioranza dei residenti di Gaza viveva
con un reddito di poche decine di shekel al giorno, quindi un isolamento
significherebbe una fame diffusa. “Immaginate che un padre
di sette o otto figli non possa permettersi nemmeno le maschere per i suoi
figli, e le maschere costino uno shekel a testa", dice.
Senza speranza
Il Centro Al Mezan per i diritti umani di Gaza ha riferito
che migliaia di lavoratori giornalieri della Striscia hanno perso il lavoro
negli ultimi mesi a causa del peggioramento dell'economia, e che l'80 per cento
delle famiglie riceve aiuti per poter sfamare i propri figli. I funzionari
della sicurezza di Gaza stanno cercando di imporre restrizioni per impedire gli
incontri, soprattutto la sera. Cercano anche di assicurare che le persone
indossino le maschere nei grandi centri commerciali, ma durante il giorno la
maggior parte dei cittadini di Gaza non indossa maschere.
Inferno in terra
La situazione nella Striscia è molto grave, sia a causa
dell’embargo imposto da Israele fin dal 2007, sia per i conflitti combattuti
negli ultimi anni tra le forze israeliane e i gruppi palestinesi. La chiusura
della centrale elettrica sta peggiorando ulteriormente le cose, soprattutto in
un momento in cui questi territori stavano già soffrendo frequenti e diffusi
blackout. Mohammed Thabet, uno dei portavoce della compagnia di distribuzione
dell’elettricità di Gaza, ha detto all’Associated Press che
“molti servizi rischiano il collasso, se la crisi non verrà risolta», mentre il
ministro della Salute della Striscia ha parlato di «pericolose conseguenze per
i pazienti che si trovano nei reparti di terapia intensiva”. Oggi le uniche
linee che forniscono elettricità nella Striscia sono quelle che partono da
Israele. Il 97% di tutta l'acqua di Gaza non è adatta al consumo umano,
secondo l'Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il che pone un
interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza
affrontare l'epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l'acqua pulita non
è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza? Anche
nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale
sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima
qualità di quest’ultima. Il gel disinfettante per le mani è sempre stato
quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause
di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali
quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale
il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di
settimane.
Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari
per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva,
l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della
popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una
mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo. A questo si
aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle
famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di
carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti
casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si
trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.
Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i
giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non
possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Siamo all’annientamento di
una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa
(l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro
a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi
di disoccupazione.
Bambini, le prime vittime
In un documentato report, Save the Children, chiede a Israele
di interrompere subito il blocco di Gaza, dove quasi la metà della popolazione
non ha lavoro e l’80% sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, e chiede
alle autorità palestinesi e israeliane di fornire i servizi di base
indispensabili agli abitanti dell’area. I 13 anni di isolamento hanno ridotto
progressivamente la disponibilità di energia elettrica per le case che ora si
limita a due ore al giorno o è totalmente assente per troppe persone. La
mancanza di energia elettrica sta penalizzando un’infrastruttura già
paralizzata dal blocco e dal conflitto, costringendo a frequenti e lunghe
sospensioni del trattamento delle acque reflue che hanno causato l’inquinamento
e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, non sono più
utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza. Ogni giorno si
riversano infatti nel mare 108 milioni di litri di acque reflue non trattate,
l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche. “I bambini di Gaza
sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la
comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro
sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership
palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza
hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di
Gaza hanno già sofferto 13 anni di blocco e di minacce continue a causa del
conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha
conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo
assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività,”
rimarca Jennifer Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori
Palestinesi Occupati.
La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto
sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile
sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e
di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per
mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte
per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i
compiti o giocare a causa dell’oscurità. “Qui è diverso dagli altri paesi che
hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la
loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono
in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità,” dice agli operatori di Save the
Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.
Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E
le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età. Il primo
dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza
dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto
cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente
all'uccisione di persone. I sintomi rilevati durante lo studio includevano:
continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o
di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i
disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei,
digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e
stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo,
difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di
colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. La conseguenza
più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (Dpts), ovvero
l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta
dell’individuo a eventi traumatici o violenti. Si tratta di sintomi frequenti
in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di
Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale
di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio
tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia
perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare
perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico.
Fuga nella morte
Le guerre, l'assedio israeliano e lo scisma politico hanno
apparentemente normalizzato la morte, dice Samah Jaber, direttore dell'unità di
salute mentale del Ministero della Salute palestinese. La morte è diventata
così naturale agli occhi di molti che ora vale più della vita stessa, che ha
perso ogni valore, ha detto Jaber in un rapporto di Al Jazeera del
9 luglio sull'ondata di suicidi che sta investendo Gaza, e che riguarda
soprattutto i giovani.
Nelle ultime settimane, diverse persone che in passato
avevano tentato il suicidio hanno raccontato ai giornalisti le loro
motivazioni: difficoltà economiche causate dalla perdita di un reddito
regolare, l'accumulo di debiti, pegni e persino l'arresto per essere rimasto
indietro con i pagamenti bancari.
La Banca Mondiale prevede che il 64% delle famiglie di Gaza
vivrà al di sotto della soglia di povertà (rispetto al 53% prima della
pandemia). Anche la disoccupazione (42 per cento nell'enclave alla fine del
2019) dovrebbe aumentare. Tra i giovani, ha già da tempo superato il 50 per
cento.
Alcune delle organizzazioni non governative che lavorano nel
settore sanitario a Gaza hanno scelto di non essere coinvolte nella recente
discussione sui suicidi, per non dare l'impressione che ci sia stato un aumento
significativo del loro numero. Il suicidio è ancora considerato tabù e
socialmente vergognoso nella società musulmana palestinese.
Diversi siti di notizie hanno pubblicato le statistiche dei
suicidi e dei tentativi di suicidio nella Striscia di Gaza negli ultimi anni.
Secondo Al-Araby Al-Jadeed, nel 2015, su 553 tentativi di
suicidio, 10 si sono conclusi con la morte; nel 2016, sono stati 16 su 626
tentativi. Le cifre per il 2017 sono state 566 e 23; per il 2018, 504 e 20; e
nel 2019 ci sono stati 133 tentativi, di cui 22 "riusciti". Come già
notato, nei primi sette mesi di quest'anno, 12 palestinesi della Striscia si
sono suicidati, e l'87 per cento di loro aveva meno di 30 anni. Poco più della
metà dei tentativi di suicidio sono stati compiuti da donne, ma tra le persone
che si sono suicidate, gli uomini sono la maggioranza.
Questa è la “normalità” a Gaza. Una tragedia che si consuma
nel silenzio della comunità internazionale. Un silenzio assordante. Colpevole.
Un silenzio di morte.
(ha collaborato Hosama Hamdan)
“Un’estetica provocatoria”: il
marchio di moda palestinese che rifiuta gli stereotipi - Samar Hazboun
Il termine “moda” evoca solitamente
immagini di stoffe srotolate su tavoli da taglio, matassine
di filato, aghi, fili e, naturalmente, modelle. Ma in un mondo in cui
l’accessibilità e gli spostamenti sono determinati da una forza occupante,
il fashion design assume una nuova forma.
Un nuovo collettivo di moda palestinese
chiamato tRASHY cerca di sfidare questi limiti trasformando gli atteggiamenti
culturali, sia all’interno della società palestinese che nel modo in cui
l’Occidente interagisce con le comunità di lingua araba. I suoi fondatori,
quattro palestinesi sulla ventina sparsi in tutto il Medio Oriente, vogliono
capovolgere la narrazione, a cominciare dal modo in cui il marchio viene
scritto.
Dalla sua fondazione, avvenuta tre anni
fa, tRASHY è diventato molto di più di un marchio di moda; è un microcosmo
delle molte sfide che i giovani palestinesi devono affrontare in Palestina e
nel mondo, e una piattaforma per coloro che per generazioni sono stati
svantaggiati politicamente, economicamente e socialmente.
Nell’estate del 2017, il membro
fondatore e regista Shukri Lawrence iniziò a disegnare t-shirt che
mescolavano caratteri arabi con loghi internazionali, “per mostrare
all’Occidente qualcosa che è abituato a vedere, ma non dalla Palestina”, dice.
Sei mesi dopo, i suoi amici di liceo Reem Kawasmi e Luai Al-Shuaibi si
unirono a lui e il gruppo ampliò i propri prodotti includendo
abiti, gioielli e altro ancora.
Avevo intenzione di incontrare Lawrence
a Gerusalemme Est, dove vive, e intervistarlo di persona. Ma era ad Amman a
prepararsi per una sfilata di moda quando a marzo è scoppiato il coronavirus e
da allora non è più potuto tornare.
Siamo quindi ricorsi a Zoom, una
pratica a cui Lawrence era abituato anche prima della pandemia. Le piattaforme
di chat online sono diventate l ‘”ufficio” del team, ha spiegato, poiché questo
è l’unico modo in cui possono riunirsi. Come molti palestinesi, i membri del
team vivono in luoghi differenti e hanno documenti diversi che
determinano dove possono viaggiare. Sebbene Kawasmi e Al-Shuaibi risiedano a
Gerusalemme est, il quarto membro, Omar Braika, vive ad Amman. Internet è
il luogo in cui possono sfuggire agli ostacoli imposti da Israeele come la
barriera di separazione, i posti di blocco e i controlli di sicurezza
arbitrari.
In un periodo di blocchi e
restrizioni di viaggio, è anche il modo in cui qualcuno come me, un fotografo
di Betlemme, ha potuto documentare la loro storia. Cercare di scattare
foto su un supporto virtuale è stata per me una nuova sfida: una buona
narrazione visiva spesso richiede la creazione di un rapporto di fiducia
di un senso di intimità. Ma questa modalità mi ha anche permesso di capire
meglio gli ostacoli che la squadra deve affrontare regolarmente. Progettare
capi di abbigliamento è un lavoro fisico che richiede di toccare, drappeggiare
e tagliare il tessuto; solo artisti determinati e fantasiosi possono svolgere
un tale compito comunicando solo digitalmente.
Oltre alle restrizioni di
movimento, il team deve affrontare difficoltà nel processo di produzione,
spiega Lawrence. Non tutti i tessuti sono prontamente disponibili in Palestina,
e i sarti con cui lavorano hanno sede principalmente nella Cisgiordania
occupata. Per raggiungerli, i progettisti devono attraversare i posti di
blocco.
L’estetica visiva di tRASHY è per lo
più ispirata a immagini apparse in Palestina, e talvolta in tutta la più ampia
regione di lingua araba, con l’introduzione di Internet negli anni ’90. Molte
di queste immagini kitsch vengono trovate in ambienti sha’bi, “folk” o
online. TRASHY le incorpora nelle sue creazioni utilizzando la satira, un
modo di rompere gli stereotipi, spiega Lawrence.
“Quello che chiamiamo kitsch, o
lowbrow, o sha’bi , è di solito solo un’altra parola per definire i poveri o la
classe operaia”, spiega lo stilista palestinese Omar Jospeh Nasser,
specializzato in tessuti storici rurali della Palestina. Alcuni marchi
feticizzano la povertà con il pretesto fuorviante di anti-moda, aggiunge. “Non
credo che questo sia lo scopo di TRASHY.”
“L’anti-moda è l’inflessione della moda;
rifiuta consapevolmente gli ideali di bellezza e di lusso fissati dalla moda e
abbraccia ciò che la moda non proporrebbe mai : gli abiti dei poveri e
dei diseredati “, continua Nasser. “L’estetica provocatoria di tRASHY è
decisamente palestinese, anche tradizionalmente; non capovolge ciò che
qualcuno pensa sia bello. Sappiamo di essere belli. ”
Secondo Lawrence, “TRASHY è
un’esperienza. Ogni collezione e sfilata di moda ha un messaggio “. Il marchio
mira ad affrontare argomenti come i diritti delle donne, i diritti delle
minoranze e il genere. Recentemente, tRASHY ha donato i proventi del proprio
lavoro a Rainbow Street, un’organizzazione LGBTQ con sede in Giordania,
per aiutare gli arabi queer in Medio Oriente durante la pandemia COVID-19.
“Per noi è molto importante
rappresentare tutti questi gruppi, non solo come palestinesi, ma come popolo
del Medio Oriente”, osserva Al-Shuaibi, studente del terzo anno di diritto
internazionale e criminologia presso l’Università ebraica di Gerusalemme, dove
è anche assistente didattico. “Vogliamo sfidare gli stereotipi secondo i
quali siamo accusati di essere motivati da ideologie radicali e mostrare chi
siamo e quanto siamo diversi”.
Questo viaggio ha incoraggiato il team
ad abbracciare le proprie identità individuali e le prospettive sociopolitiche,
spiega Kawasmi. È proprio questa aspirazione all’autoespressione, insieme
all’attenzione per le questioni di giustizia sociale, che ha unito il gruppo.
Quando si parla di Palestina, anche
l’arte e la moda diventano politiche. Con la costante cancellazione da parte
del comune di Gerusalemme dell’identità visiva della città – attraverso azioni
come la giudaizzazione dei nomi delle strade, la demolizione di case, la
costruzione di moderne strutture capitaliste (come il Mamilla Mall) al posto di
siti storici e di un programma scolastico che ignora la narrativa palestinese –
molte organizzazioni artistiche palestinesi della città si sentono obbligate a
sostenere soprattutto quegli artisti che lavorano per resistere a questa
cancellazione.
Di conseguenza, tuttavia, ci sono pochi
spazi per l’espressione artistica che cerca di spingersi oltre questo tema.
“L’arte palestinese spesso si isola e si fissa sul nostro rapporto con il
sionismo / colonialismo occidentale, e ignora la moltitudine di ingiustizie
intersezionali e di oppressione presenti anche nella nostra società e nel mondo
in generale”, spiega Nassar, l’esperto di moda. “La maggior parte
dell’espressione creativa palestinese è sicura, romantica, priva di autocritica
e rimane legata alla narrativa riduttiva di ‘loro’ e ‘noi’. Se siamo
davvero seri riguardo al nostro rifiuto del colonialismo, dell’occupazione, e
ingiustizia, dobbiamo andare oltre questa dicotomia. L’occupazione non può e
non deve diventare una comodità: un soggetto sicuro e una fonte infinita di
ispirazione “.
Con poche istituzioni disponibili
a supportare la visione e il lavoro di tRASHY, il team ha dovuto “far
accadere le cose da soli”, afferma Kawasmi. Ancora una volta, il collettivo si
è rivolto a Internet per raccogliere sostegno e diffondere i propri progetti.
Kawasmi non è ottimista, tuttavia, e
non crede che nella sua vita avverrà un cambiamento significativo. Ma
mantiene la speranza che ogni punto e ogni nuovo disegno possa creare
una nuova possibilità.
L’Alta
Corte conferma: tre mesi di lavori socialmente utili per l’omicidio di un
palestinese - Michele Giorgio
AGGIORNAMENTO
L’Alta
Corte di Giustizia israeliana nei giorni scorsi ha respinto la una petizione
che chiedeva la revoca del patteggiamento. Durante le indagini il
militare ha confessato di aver aperto il fuoco, da lontano, su entrambi
ritenendoli dei «terroristi» intenzionati a lanciare pietre contro auto
israeliane. Invece i due palestinesi erano coinvolti in un banale incidente
stradale. I giudici hanno accolto la tesi della «buona fede» del militare,
convinto di trovarsi di fronte al «pericolo di un attacco terroristico» e hanno
confermato la «pena».
Pubblichiamo
l’articolo scritto il mese scorso su questa vicenda da Michele Giorgio per il
quotidiano Il Manifesto
«Ahmad
aveva 22 anni quando è stato ucciso da quel soldato israeliano. Era il primo
dei miei figli. Dopo la sua nascita abbiamo aspettato qualche anno prima di
allargare la famiglia. Per questo gli altri miei figli lo consideravano un
secondo padre». Wafaa Manasrah, la mamma di Ahmad
Manasrah, ha la voce rotta dall’emozione mentre parla di quel
figlio che, ci ripete, gli aveva portato solo gioia e mai un dispiacere. «Si
mostrava quasi sempre felice, era socievole, a scuola non aveva mai avuto
difficoltà nello studio e nei rapporti con i compagni di classe. E si era
iscritto all’università, alla facoltà di economia e commercio, perché voleva
diventare un esperto di marketing…invece è stato ucciso, così, senza motivo. Mi
hanno strappato mio figlio senza motivo», aggiunge schiarendosi la voce.
La
vita di Ahmad Manasrah è terminata il 20 marzo del 2019, poco
dopo le 21, mentre tra risate e battute scherzose, con tre amici il giovane
rientrava in auto a Wadi Fukin. Indossava l’abito
buono perché nel pomeriggio a Betlemme aveva partecipato alla festa di nozze di
una coppia di amici. Nei pressi di un posto di blocco dell’esercito israeliano
a sud del villaggio di Al Khader, non lontano dall’insediamento
coloniale di Efrat, è stato colpito – al petto e alle braccia –
da tre dei sei proiettili sparati da un soldato. Del suo caso si parlò
parecchio l’anno scorso. Ed è ritornato di attualità nei giorni scorsi perché
il militare coinvolto, di cui non è nota l’identità, dopo essersi dichiarato
«addolorato» per l’accaduto, ha patteggiato la pena con la procura militare:
sarà condannato per «omicidio colposo» causato da «negligenza» ma riceverà una
pena detentiva di appena tre mesi, sospesa, che sconterà svolgendo lavori utili
in una caserma.
Il
procuratore non ha preso in considerazione il ferimento grave, causato dagli
spari dello stesso soldato, ad un altro palestinese, Alaa Raayada, 38 anni e
padre di due bambine. L’Alta Corte di giustizia, su
ricorso di Shlomo Lecker, avvocato della famiglia Manasrah, ha congelato per
ora l’accordo. Non è detto che questa azione preluda all’annullamento
dell’accordo. «Il giudice Noam Sohlberg ha accolto la richiesta della famiglia
di riesaminare il patteggiamento ma non è possibile fare previsione sulle sue
decisioni, potrebbe pronunciarsi contro l’accordo proposto dalla procura
militare o prendere la direzione opposta. Meglio non illudersi, quando di mezzo
c’è l’operato di soldati in servizio, ottenere giustizia per i
palestinesi è una impresa eccezionale», ci dice Roy
Yellin, di B’Tselem, ong israeliana per la difesa dei
diritti umani nei Territori occupati che sta seguendo la vicenda. Wafaa
Manasrah non riesce a farsene una ragione: «Per gli israeliani la vita dei
palestinesi non vale nulla, la vita di mio figlio vale tre mesi di lavori per
la comunità».
Quanto
accaduto la sera del 20 marzo dello scorso anno, non è un fatto
insolito nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione. Tutto ebbe inizio
con un banale alterco tra due automobilisti. Alaa Raayada accostò a destra la
sua auto, con a bordo la moglie e le figlie. Voleva dirne quattro a un altro
automobilista palestinese dalla guida un po’ scorretta. A 50 metri di distanza
c’era il posto di blocco israeliano. L’altro automobilista invece non si fermò
e proseguì il suo tragitto. Quando Alaa fece per tornare al volante, da una
torre di sorveglianza del posto di blocco israeliano partirono alcuni colpi di
arma automatica. Uno lo raggiunse all’addome. Tra le grida di dolore dell’uomo,
la moglie chiese soccorso ai quattro giovani sull’auto dietro di loro. I
ragazzi chiamarono un’ambulanza. Poi di fronte all’abbondante sanguinamento del
ferito decisero di portarlo subito all’ospedale.
Ahmad
Manasra restò con la moglie e le bambine di Raayada. Voleva mettere in moto
l’auto e portarle a casa. Dal posto di blocco spararono
ancora, tre colpi. Ahmad fu centrato in pieno petto. Inutile il tentativo di
rianimarlo effettuato dai sanitari giunti con l’ambulanza chiamata in
precedenza. Il giovane arrivò morto all’ospedale di Beit Jala. «Qualcuno ci
avvisò che Ahmad aveva avuto un problema, senza darci particolari», ricorda la
mamma «quando mio marito ed io arrivammo all’ospedale c’erano tante persone
davanti all’ingresso, ero confusa non sapevo che pensare. Poi qualcuno disse
‘lasciateli passare, c’è la mamma dello shahid’ (martire) mi si gelò il sangue
addosso, capii che Ahmad era morto. La fitta di dolore che provai in quel
momento resterà incisa nel mio cuore per sempre».
Il soldato
coinvolto, durante le indagini, ha dichiarato di aver sparato perché credeva
che «quei palestinesi stessero lanciando sassi contro automobili di cittadini
israeliani» e di aver esploso in aria in precedenza colpi
di avvertimento. Il portavoce dell’esercito ha aggiunto che quel giorno «era
stato diffuso l’allerta su un possibile attacco terroristico». Per i
palestinesi si tratta di motivazioni volte a giustificare in qualche modo
l’uccisione di Ahmad ed evitare al militare una condanna vera. Ricordano
il caso di Elor Azaria, un soldato israeliano che a Hebron
nel 2016 uccise a sangue freddo un accoltellatore palestinese a terra
gravemente ferito e non in condizione di nuocere. Condannato a 18 mesi di
detenzione, Azaria fu graziato dopo aver scontato metà della pena.
Questi
patteggiamenti però sono rari, sottolinea B’Tselem. In
quasi tutti i casi in cui i soldati uccidono palestinesi senza ragioni, le
indagini si chiudono senza un rinvio a giudizio. Solo
occasionalmente la procura incrimina i militari e, aggiunge l’ong, poi propone
dei patteggiamenti con pene irrisorie. Di fronte a ciò B’Tselem qualche anno fa
ha deciso di non seguire più queste indagini militari perché, ha spiegato, il
suo operato oltre a non produrre risultati utili per le famiglie delle vittime
palestinesi offriva indirettamente una sorta di copertura alle uccisioni.
Per lo Stato ebraico,
l’Olocausto è uno strumento da manipolare - Orly Noy
Qualcosa di straordinario è accaduto
nella stessa settimana in cui un comitato governativo israeliano interno ha
approvato la nomina di Effi Eitam, un ex generale delle Forze di Difesa
Israeliane e politico di estrema destra, a presidente dello Yad Vashem, il
museo israeliano dell’Olocausto. In un incontro con il primo ministro Benjamin
Netanyahu, il Segretario di Stato uscente degli Stati Uniti Mike Pompeo ha
annunciato che il presidente Donald Trump intende dichiarare antisemita il
Movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).
La vicinanza tra i due annunci
simboleggia la fase finale della metamorfosi manipolativa che l’antisemitismo e
l’Olocausto hanno subito nelle mani del sionismo.
Effi Eitam, un falco di destra e un
dichiarato razzista, ha fatto le seguenti osservazioni nel 2006 durante il
servizio funebre per il tenente Amichai Merhavia, ucciso nella seconda guerra
del Libano:
“Dovremo fare tre cose:
espellere la maggior parte degli arabi di Giudea e Samaria (Cisgiordania) da
qui. È impossibile con tutti questi arabi ed è impossibile rinunciare al
territorio, perché abbiamo già visto quello che stanno facendo lì. Alcuni
possono essere in grado di rimanere in determinate condizioni, ma la maggior
parte dovrà andarsene. Dovremo prendere un’altra decisione, ovvero cacciare gli
arabi israeliani dal sistema politico. Anche qui le cose sono chiare come il
giorno: abbiamo creato una quinta colonna, un gruppo di traditori di primo
grado, quindi non possiamo continuare a consentire una presenza così ostile e
ampia nel sistema politico israeliano. Terzo, di fronte alla minaccia iraniana,
dovremo agire diversamente da come abbiamo fatto fino ad oggi. Queste sono tre
cose che richiederanno un cambiamento nella nostra etica di guerra”.
L’espulsione di un popolo nativo
occupato dalla propria terra da parte della forza occupante è un crimine di
guerra. Impedire la partecipazione dei cittadini al sistema politico basato
sull’appartenenza etnica o nazionale è simile al fascismo. Il nuovo presidente
dello Yad Vashem non ha esitato ad esprimere opinioni che equivalgono a crimini
di guerra al fine di promuovere le sue ambizioni politiche.
Trump, come ha scritto Libby Lenkinski
in queste pagine, è l’uomo che ha riportato in auge il classico antisemitismo
negli Stati Uniti mentre veniva calorosamente abbracciato dal primo ministro
dello Stato ebraico.
Anche la predilezione dello Yad Vashem
per i fascisti e i criminali di guerra non è un segreto. Da quando il primo
ministro dell’Apartheid sudafricano John Worster, membro di un’organizzazione
filo-nazista durante la seconda guerra mondiale, ha visitato lo Yad Vashem nel
1976, il museo ha ospitato anche una delegazione della giunta militare del
Myanmar responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Ha aperto le sue porte al presidente
brasiliano Jair Bolsonaro, l’uomo che ha lodato Hitler e sostiene apertamente
l’eliminazione fisica delle persone LGBTQ, della popolazione indigena del
Brasile e di una serie di altre atrocità, tra cui stupri, torture e dittatura
militare. Ha anche ospitato il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che ha
espresso sostegno a Miklós Horthy, leader antisemita ungherese durante la
seconda guerra mondiale; e Anthony Lino Makana del Sud Sudan, un alto
funzionario di un governo responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Se in precedenza il sionismo
giustificava i suoi crimini contro il popolo palestinese in nome
dell’Olocausto, oggi usa l’Olocausto come strumento per giustificare
l’antisemitismo stesso in cambio di profitto politico. Inoltre: permette ad un
antisemita di definire cos’è l’antisemitismo. Questa è l’amara verità che
affrontiamo oggi: per lo Stato ufficiale di Israele, il concetto di Olocausto e
antisemitismo sono mezzi puramente politici e come tali possono essere
manipolati, distorti e aggirati, proprio come qualsiasi altro strumento
politico.
Dopo aver espropriato i palestinesi con
il pretesto dell’Olocausto, i leader israeliani stanno ora adottando un
antisemita come Trump che perseguiterà i discendenti di quegli stessi
palestinesi espropriati in nome della lotta all’antisemitismo. E non solo loro,
ma anche gli innumerevoli ebrei che mostrano solidarietà per la lotta
palestinese per la giustizia. Tuttavia, finché ci saranno persone di coscienza
che rabbrividiranno alla vista di questo odioso sfruttamento della memoria
dell’Olocausto, sarà difficile farlo.
Questo è il motivo per cui Effi Eitam,
razzista e sostenitore dei crimini di guerra, è stato incaricato di custodire
la memoria della tragedia ebraica, in modo che l’Olocausto rimanga per sempre
soggetto a manipolazioni opportunistiche e politiche. È così che Israele onora
i morti nel 2020.
(Orly Noy è un editore di Local Call,
un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa farsi. È membro del
consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. La sua
scrittura affronta le linee che intersecano e definiscono la sua identità di
Mizrahi, una donna di sinistra, una donna, una migrante temporanea che vive
all’interno di un immigrazione perpetua, e il dialogo costante tra loro)
Trad:
Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
STATI UNITI: L’ATTACCO DEL DIPARTIMENTO DI
STATO AL MOVIMENTO BDS VIOLA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE
In risposta
al Dipartimento di Stato statunitense che stamane ha definito il movimento per
il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) antisemita, Bob Goodfellow,
direttore esecutivo ad interim di Amnesty International USA, ha detto:
“Questo è semplicemente l’ultimo di una
serie di attacchi da parte del governo statunitense, che rappresentano una
minaccia per l’universalità dei diritti umani e per la lotta globale contro
tutte le forme di razzismo e discriminazione, incluso l’antisemitismo.
Sostenere il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni è una
forma di sostegno non violento e di libertà di espressione che va tutelata.
Definire antisemiti gruppi che usano mezzi pacifici- come il boicottaggio- per
chiedere di porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i Palestinesi
viola la libertà di espressione, ed è un atteggiamento che va a favorire coloro
i quali intendono silenziare, minacciare, intimidire e opprimere i difensori
dei diritti umani nel mondo.
L’amministrazione statunitense sta seguendo l’approccio del governo israeliano
nel muovere accuse di antisemitismo infondate e dettate da motivazioni politici
contro attivisti pacifici – incluso difensori dei diritti umani- proteggendo
coloro che mettono in pericolo la vita di persone in Israele, Territori
Palestinesi Occupati e qui a casa dall’obbligo di rispondere delle loro azioni
illegali.
Il processo suona particolarmente ipocrita e poco onesto provenendo da
un’amministrazione che ha appoggiato i neo-Nazisti, suprematisti bianchi, e
altri gruppi che supportano la violenza e la discriminazione, dimostrando
una profonda non curanza verso il diritto internazionale, e favorendo le
politiche israeliane che si traducono in discriminazione
istituzionalizzata e violazione sistematica dei diritti umani di milioni di
Palestinesi.
Questo processo, promuovendo l’idea che Israele e l’Ebraismo siano la stessa
cosa e, mettendo sullo stesso piano le critiche contro le politiche del governo
israeliano e le pratiche di antisemitismo, rappresenta anche un insulto verso
gli stessi Ebrei. Rappresenta una minaccia verso il nostro lavoro di tutela dei
diritti delle minoranze religiose e altre minoranze in Medio-Oriente e
altre regioni.
Continueremo a sostenere i nostri colleghi israeliani e palestinesi, incluso
gli attivisti del BDS, che – in qualità di difensori dei diritti umani nel
mondo- si fanno sentire quando la giustizia, la libertà, la verità, e la
dignità vengono negate”.
La
visita all’insediamento
Stamattina Mike Pompeo ha visitato
l’insediamento israeliano di Psagot, e si tratta della prima visita nella
storia da parte di un Segretario di Stato statunitense in servizio a un
insediamento israeliano illegale.
Lo scorso Novembre gli Stati Uniti avevano dichiarato che non avrebbe considerato
illegali gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, una dichiarazione che è
in netto contrasto con molte risoluzioni delle Nazioni Unite e la posizione di
quasi tutti gli altri governi del mondo.
Trad. Rossella Tisci –
Invictapalestina.org
Come l’uccisione di un
giovane palestinese è diventata un’opera teatrale recitata dagli afroamericani
- Nada Elia
Il mese scorso ha segnato il ventesimo anniversario
dell’uccisione da parte di Israele del diciassettenne Asel Asleh, un cittadino
palestinese di Israele il cui idealismo giovanile lo aveva spinto a
frequentare il campo organizzato da “Seeds of Peace” con
altri palestinesi, israeliani e americani.
Asleh era uno dei 13 palestinesi disarmati uccisi in
Israele dalle forze di sicurezza israeliane durante quel mese,
insieme a dozzine di altri palestinesi nella Cisgiordania occupata, a
Gerusalemme est e a Gaza, mentre le proteste scoppiavano nella storica
Palestina in quella che divenne poi nota come la Seconda Intifada. È morto
indossando ancora la sua maglietta verde dei “Semi di Pace”.
Marlowe utilizza la storia del suo
amico per lanciare un dibattito internazionale tra tutte le famiglie,
dalla Palestina agli Stati Uniti, che hanno perso i propri cari a causa della
violenza di Stato
Nel 2016, dopo anni di interviste con la sorella di
Asleh, Nardeen, e con altri, la drammaturga e attivista americana Jen Marlowe,
che era una consulente del campo “Seeds of Peace”, ha prodotto un’opera
teatrale intitolata “There is a Field” sull’omicidio del suo amico e sui
tentativi falliti della famiglia Asleh per ottenere giustizia.
Quest’anno, Marlowe ha completato un documentario basato
su quella commedia. È stato presentato per la prima volta in Palestina il 2
ottobre, l’anniversario dell’uccisione di Asleh, e negli Stati Uniti il
18 ottobre, con ulteriori proiezioni virtuali durante tutto il mese e dibattiti
con attivisti, organizzatori e membri della famiglia Asleh. La premiere
statunitense è stata caratterizzata da interventi potenti e
stimolanti tenuti, tra gli altri, dal fratello della vittima, Baraa Asleh, e da
Gwen Carr, la madre di Eric Garner, le cui ultime parole, “Non riesco a
respirare”, sono diventate un grido di battaglia contro la brutalità della
polizia.
Il documentario riprende una lettura dell’opera
teatrale, eseguita in New Mexico da organizzatori e attivisti di Black Lives
Matter, e intervallata da filmati d’archivio di quel fatidico giorno
dell’ottobre 2000 e delle sue conseguenze. Include commenti sulle molte
somiglianze tra la situazione dei cittadini palestinesi di Israele e i
neri americani, poiché entrambe le comunità affrontano il razzismo sistemico e
un apparato statale che li considera indesiderabili e “usa e getta”.
Questo non significa che il film, o i dibattiti sulle
forze dell’ordine, sulla violenza e sul razzismo sistemico, siano astrazioni
intellettuali. Marlowe eccelle nel dettagliare il personale, l’intimo, l’umano.
Il suo lavoro, in questo film e altrove, è una sottile critica al fatto che i
movimenti politici possono oscurare la tragedia personale ai fini di una
mobilitazione su larga scala: figli, fratelli e amici intimi assassinati
diventano spesso martiri simbolici appartenenti alla comunità, con poche
opportunità, per i loro parenti più stretti, di piangerli.
In una scena straziante, mentre la processione per il
funerale di Asleh attraversa il loro villaggio, la folla blocca la vista del
suo amato fratello a Nardeen, mentre Baraa non può nemmeno intravedere la bara
e deve invece guardare la processione in televisione.
Sistemi suprematisti
Marlowe usa questi dettagli privati per avviare
un dibattito tra gli attori-attivisti e il pubblico, in grado di
riconoscere, nella difficile situazione della famiglia Asleh, aspetti del
proprio dolore e della propria perdita, poiché anche loro devono confrontarsi
con un sistema suprematista deciso a eliminarli.
L’autrice utilizza la storia del suo amico per
lanciare un dibattito internazionale tra tutte le famiglie, dalla Palestina
agli Stati Uniti, che hanno perso i propri cari a causa della violenza di stato
e su tutte le persone le cui vite sono state sconvolte dal razzismo insensibile
e omicida e dall’indifferenza del sistema giudiziario rispetto alla loro
situazione.
Il film ci offre uno sguardo intimo su una famiglia in
lutto, umanizzando individui il cui dolore è regolarmente mascherato dai media
occidentali. Ma “There is a Field” è molto più di un documentario, più della
storia di un martire e della sua famiglia. È un ottimo esempio di “artivismo” –
arte per la giustizia sociale e per costruire la solidarietà attraverso la
narrazione.
Il commento degli attivisti Black Lives Matter è
toccante, poiché articolano le ragioni fondamentali della solidarietà
transnazionale e della lotta congiunta. Un attore lo ha espresso al meglio
quando ha spiegato che, da adolescente nera negli Stati Uniti, ha sempre
sentito di avere un bersaglio sulla schiena – e si è resa conto, attraverso la
storia di Asleh, che i palestinesi si sentono allo stesso modo.
“There is a Field” è stato prodotto da Donkeysaddle
Projects, che Marlowe ha fondato, e che – fino alla pandemia Covid-19 e al
conseguente blocco – aveva supportato una serie di rappresentazioni
e spettacoli comunitari intensivi basati sul teatro, utilizzando lo
spettacolo come cornice per un’educazione politica e per la costruzione del
movimento. Il sito web del progetto spiega che esso mira a “costruire la
solidarietà nero-palestinese e rafforzare l’organizzazione locale in
Palestina e la costruzione trasversale del movimento”.
Battaglie interconnesse
La storia di Asleh, raccontata da Marlowe, è subito
collegata alla lotta per la liberazione palestinese, alla sovranità indigena su
Turtle Island e al movimento Black Lives Matter. È una forte denuncia di quel
modello di giovani disarmati – neri, mulatti e arabi – uccisi impunemente da
una forza di polizia iper-militarizzata che li vede come minacce o criminali,
non come giovani idealisti o adolescenti che stanno semplicemente tornando a
casa.
Lo spettacolo critica anche Seeds of Peace e simili
programmi di incontro tra giovani palestinesi e israeliani. Il commento
frustrato di Nardeen al suo collega israeliano “non mi sono trasferita in
Israele, Israele si è trasferita da me” ricorda il colonialismo verso gli
indigeni del Nord America, così come l’affermazione di Malcolm X che “non
siamo atterrati su Plymouth Rock, Plymouth Rock è atterrato su di noi ”.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono
all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle
East Eye.
Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica
palestinese della diaspora. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro,
“Who You Callin ‘”Demographic Threat?” Notes from the Global Intifada” .
Professoressa di Gender and Global Studies (in pensione) è membro dello
Steering Collective della US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of
Israel (USACBI)
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni
schiavitù” – Invictapalestina.corg
L’ASSASSINIO «PREVENTIVO»
DI OGNI PACE – Alberto Negri
Trump-Netanyahu
. Il premier israeliano dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere
le sanzioni a Teheran e vendergli il patto di Abramo con le monarchie dl Golfo,
esteso dal Medio Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande
obiettivo strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la
Turchia e frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente
Siamo ormai
arrivati all’assassinio «preventivo», con la solita licenza di uccidere
incorporata nel Mossad. L’anno si chiude – almeno per il momento – come si era
aperto, quando il 3 gennaio gli Usa ammazzarono a Baghdad con un drone il
generale iraniano Qassem Soleimani.
Con l’uccisione in Iran di Mohsen Fakhrizadeh, definito sui nostri media il
«padre dell’atomica iraniana» – una bomba che Teheran non ha mai avuto ma
Israele sì – in Occidente si incrociano pericolosamente false notizie come
questa, con la politica della terra bruciata intorno alla repubblica islamica
voluta da Trump e Netanyahu.
In realtà Trump ce lo
siamo meritato scrivendo scempiaggini che rischiano di fare apparire
giustificato un eventuale attacco diretto all’Iran. Ed ecco che Netanyahu e il
Mossad hanno anticipato Trump e dato il via libera a far fuori un altro
scienziato iraniano, antica specialità dei servizi israeliani. Colpire
direttamente l’Iran, come vorrebbe Trump per uscire dalla Casa Bianca da
effimero trionfatore e non da sconfitto qual è, potrebbe causare una reazione
troppo pericolosa anche per Israele.
Trump, che ha
riconosciuto Gerusalemme capitale, l’annessione del Golan e gli insediamenti
illegali in territorio palestinese con l’ultimo viaggio di Mike Pompeo, ha dato
molto a Israele ma una guerra aperta contro l’Iran è troppo anche per
Netanyahu: con dei processi sulle spalle e al governo in condominio con
l’ineffabile Gantz (per altro mai al corrente di nulla) non può permetterselo.
Il premier israeliano
dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere le sanzioni a Teheran e
vendergli il patto di Abramo con le monarchie dl Golfo, esteso dal Medio
Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande obiettivo
strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la Turchia e
frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente.
È la vecchia
strategia del «doppio contenimento», un tempo applicata a Iran e Iraq, che fa
leva sui conflitti regionali. Ma con delle varianti. Tra i democratici di oggi
alla segreteria di Stato c’è Blinken, legato a filo doppio a Israele,
favorevole nel 2011 ai bombardamenti in Libia e Siria, uno dei complici del
disastri di Hillary Clinton, e che negli omicidi mirati troverà appoggio nella
nuova capa dei servizi, la signora Avril Haines, specialista in droni. Con loro
c’è pure Jake Sullivan, nuovo consigliere della sicurezza nazionale,
clintoniano e consulente di Obama sul nucleare iraniano. Questa è la prima
linea di Biden, definita dalla stampa Usa quella degli gli «interventisti
liberali»: sono loro che dirigeranno eventuali negoziati con Teheran.
Ma l’agenda di Biden
per la ripresa delle trattative sull’accordo abbandonato e stracciato da Trump
nel 2018 deve fare i conti con la tattica della terra bruciata e il pericoloso
avventurismo del presidente uscente, oltre che con la diffidenza dell’Iran dove
il presidente Hassan Rohani è alle strette con la Guida Suprema Ali Khamenei e
l’ala dura dei pasdaran. Trump è diventato un cane sciolto. Due settimane fa ha
fatto fuori il capo del Pentagono Mark Exper, contrario a uno «strike» contro
Teheran, mentre un portavoce della Difesa esprimeva la preoccupazione che il
presidente potesse avviare «operazioni coperte», espressione orwelliana per
dire che il presidente potrebbe colpire direttamente l’Iran.
Poi Washington ha
tirato fuori la notizia che il 9 agosto scorso agenti israeliani avrebbero
ucciso a Teheran Al Masri, storico capo di Al Qaeda: la «pistola fumante» che
l’Iran appoggia il terrorismo. Quindi Trump ha inviato in Medio Oriente Abram
Elliot, consigliere negli anni’80 dei governi massacratori del Salvador e del
Guatemala, per definire nuove sanzioni a Teheran e accordo con Israele e le
monarchie del Golfo. Sanzioni puntualmente arrivate con il viaggio del
segretario di stato Pompeo in Medio Oriente e che hanno colpito la Fondazione
degli Oppressi, il maggiore conglomerato economico che risponde direttamente
alla Guida Suprema.
A questo punto
l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh era già stato programmato. La testa dello
scienziato iraniano con ogni probabilità è stata gettata sul tavolo del
principe saudita Mohammed bin Salman (MBS) che a Noem sul Mar Rosso qualche
giorno fa ha incontrato Pompeo e Netanyahu accompagnato dal capo del Mossad
Yossi Cohen. Gli israeliani stanno facendo di tutto per invogliare Riad a
entrare nel Patto di Abramo con Emirati e Bahrain. Ma sia il principe che suo
padre, il declinante re Salman, si tengono stretta la carta della
normalizzazione con Israele per giocarsela con l’amministrazione Biden,
insistendo su un improbabile accordo di pace con palestinesi ma soprattutto
sulla fine delle pressioni negli ambienti liberali di Washington per una
democratizzazione del regno saudita che si è distinto per la repressione
brutale di ogni dissenso e il macabro assassinio del giornalista Jamal
Khashoggi. Ma, perdinci, 450 miliardi di dollari di commesse saudite di armi
agli Usa valgono pure qualche omicidio. Sarà Biden a rinunciarci?
Ecco a che servono
gli assassini preventivi: è l’eredità del duo Trump-Netanyahu, sono le «linee
guida» per la nuova amministrazione. Tutto questo aspettando Biden. O forse Godot.
tratto da: https://ilmanifesto.it/lassassinio-preventivo-di-ogni-pace
AMIRA HASS – LE ULTIME
NOVITÀ IN FATTO DI MORALITÀ ISRAELIANA: DEMOLIZIONE DI CASE, SFOLLAMENTI E
COSTRUZIONE DI NUOVI INSEDIAMENTI COLONICI
tratto da: Beniamino Benjio
Rocchetto
Mercoledì
scorso un’unità dell’Amministrazione Civile e delle Forze di Difesa Israeliane
ha distrutto una condotta idrica di 1,5 chilometri e così facendo ha estromesso
i villaggi di Mughayer al-Abid e Khirbet Al-Majaz nel Masafer Yatta, nel
distretto di Hebron, dal loro approvvigionamento idrico.
Gli esecutori hanno
ignorato il fatto che gli abitanti del villaggio di Masafer Yatta hanno
presentato un ricorso all’Alta Corte di giustizia contro i danni alle tubature
che portano loro l’acqua dalla condotta centrale nel villaggio di Al-Tawani.
L’udienza è prevista per marzo.
I discendenti dei
profeti sono convinti che i palestinesi non abbiano bisogno dell’acqua come noi
ebrei. I discendenti dei sopravvissuti hanno deciso che fornire acqua potabile
ai palestinesi nel 62% della Cisgiordania contraddice la legge e la tradizione
dei nostri antenati.
Masafer Yatta è
l’area storica di pascolo e coltivazione dei residenti del villaggio di Yatta
(oggi una città), in cui alcuni di loro si stabilirono e radicarono in comunità
separate anche prima della creazione dello Stato di Israele.
Israele afferma di avere
il diritto di espellere i residenti dai loro villaggi in modo che l’esercito
possa condurre esercitazioni di addestramento con fuoco vivo nell’area. Ecco
perché proibisce loro di collegarsi alle infrastrutture e distrugge le strade
che hanno ampliato e ripulito dalle rocce. Lo stato ebraico sa che non tutti
potranno continuare a vivere così e se ne andranno. In altre parole, gli
israeliani costringono i Palestinesi a fuggire facendo credere che sia una loro
libera scelta.
Nel 2001 a Masafer
Yatta è stato istituito l’avamposto illegale e non autorizzato di Avigayil. I
coloni israeliani si sono impossessati di due sorgenti che sono sempre state
utilizzate dai contadini e dai pastori palestinesi. L’avamposto sta subendo un
processo accelerato di regolarizzazione. È collegato alle infrastrutture
elettriche e idriche ed è servito da una strada asfaltata. Come gli altri
avamposti della regione e gli altri insediamenti.
Il 27 ottobre, una
forza dell’Amministrazione Civile scortata dall’esercito ha demolito una casa
in pietra appartenente a una famiglia di cinque persone (genitori e tre figli)
nella comunità di Birin a nord-est di Yatta. Le nostre forze hanno anche
distrutto la cisterna dell’acqua della famiglia. Non è una piattaforma
petrolifera o un tentativo di raggiungere le falde sotterranee. È una cisterna
per la raccolta dell’acqua piovana o per l’acqua acquistata e consegnata con le
autobotti.
Le scarse notizie
comunicate dall’emittente radiofonica Voce della Palestina (Voice of Palestine)
e le dichiarazioni di B’Tselem ai media, quasi quotidianamente, sono molto
simili tra loro. In quel momento un’unità dell’Amministrazione Civile arrivò
con l’esercito o una scorta della Polizia di Frontiera in questa o quella
comunità e demolì la residenza di una famiglia di cinque o sette persone, o
confiscò uno scavatore che spianava la strada a un frutteto, o ha emesso un
ordine di demolizione per una struttura adibita a scuola. Tali atti si ripetono
e stufano noi, gli scrittori, gli editori, e voi lettori. Ecco perché non
vengono titolati ogni giorno con: per la gloria della moralità israeliana.
Dal 2006 fino alla
fine di settembre 2020 Israele ha demolito almeno 1.623 strutture residenziali
palestinesi (solitamente tende, capanne, roulotte, ecc.) in Cisgiordania,
esclusa Gerusalemme Est, e 7.068 persone, inclusi 3.543 bambini, ridotti a
senzatetto. E il lavoro e il denaro che hanno investito sono andati perduti, e
con essi i loro sogni e speranze.
Israele ha demolito
più di una volta le misere case di almeno 1.100 palestinesi, inclusi 527
bambini, in comunità la cui esistenza ha deciso di non riconoscere.
Dal 2012 fino alla
fine di settembre di quest’anno, Israele ha demolito 1.804 strutture non
residenziali: come cisterne d’acqua, recinzioni, recinti per animali, magazzini
e così via.
Non sono incluse nei
calcoli tutte quelle case che dovrebbero essere edificate ma non vengono
costruite, a causa dei divieti israeliani e della paura delle conseguenze e dei
costi della demolizione.
Nei primi nove mesi
di quest’anno Israele ha demolito le residenze di 418 palestinesi in
Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), inclusi 208 bambini. Il numero più alto
dal 2016, secondo i calcoli di B’Tselem.
Il 2020 è stato un
anno da record, negli ultimi due decenni, per quanto riguarda lo sviluppo degli
insediamenti colonici. L’ONG Peace Now stima che il Consiglio Supremo di
Pianificazione dell’Amministrazione Civile abbia approvato quest’anno la
costruzione di 12.159 unità abitative per israeliani in Cisgiordania. Di
questi, 4.948 sono stati approvati il 14 e 15 ottobre.
Nei primi nove mesi
di quest’anno sono state demolite 100 abitazioni palestinesi a Gerusalemme Est
(68 sono state demolite dai loro proprietari, in modo che il comune della città
unita non li obbligasse a pagare le spese di demolizione). Vittime della
demolizione: 323 persone, di cui 167 bambini.
Dal 1967, Israele, il
rappresentante del popolo ebraico attraverso le generazioni, ha adottato una
politica di limitazione della costruzione per i palestinesi nell’area annessa a
Gerusalemme. Questo oltre ad una massiccia confisca di terra privata
palestinese e il suo trasferimento agli ebrei, cittadini di Israele e della
diaspora. Il popolo eletto.
Traduzione: Beniamino Rocchetto
Etichettare come ‘Made in Israel’ i
prodotti degli insediamenti significa approvare furti di terra e saccheggi - Hanan Ashrawi
La visita del Segretario degli Stati Uniti nella
Cisgiordania occupata è un ultimo disperato tentativo dell’amministrazione
statunitense uscente per rafforzare il suo modello di criminalità, illegalità e
complicità diretta nella colonizzazione della Palestina e nell’espropriazione
del nostro popolo. È anche un cinico sfruttamento da parte di Pompeo per
promuovere i propri obiettivi politici personali come nuovo volto degli
ideologi di estrema destra negli Stati Uniti.
Etichettare i
prodotti fabbricati all’interno degli insediamenti israeliani illegali come
“fatti in Israele” o “prodotti di Israele” è una politica oltraggiosa e
illegale che equivale di fatto al riconoscimento dell’annessione a Israele
della maggior parte della Cisgiordania. È un tentativo di legittimare il furto
della terra palestinese e il saccheggio delle risorse palestinesi che va contro
i principi fondamentali del diritto internazionale e del consenso globale.
Inoltre, la
dichiarazione di ostilità di Pompeo contro gli stati e le organizzazioni
internazionali che etichettano correttamente i prodotti degli insediamenti
israeliani è un affronto agli obblighi della comunità internazionale verso la
legge, inclusa la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite. Questi prodotti sono il prodotto di un furto. Devono essere boicottati,
non supportati.
Aggiungendo la
beffa al danno, Pompeo ha anche annunciato il disaccoppiamento dei Territori
Palestinesi Occupati, etichettando i prodotti palestinesi dalla Cisgiordania e
da Gaza come entità separate. Questa è un’altra misura che conferma che
l’agenda di Trump è sempre stata la privazione dei diritti del popolo
palestinese e la sua sottomissione permanente al controllo illegale di Israele.
È anche in linea con l’agenda dell’amministrazione Trump che cerca di mantenere
i Palestinesi divisi e di mantenere la loro spaccatura interna.
Questa
amministrazione statunitense uscente ha speso grandi sforzi per normalizzare le
violazioni israeliane del diritto internazionale, combattendo i diritti più
elementari del popolo palestinese, oltre a intimidire e ricattare gli altri
paesi perché accettino questi crimini. Queste dichiarazioni di Pompeo sono
un’estensione di questa complicità e di questa conflittualità.
Misure dannose
di questo tipo hanno lo scopo di mettere all’angolo la prossima amministrazione
statunitense con una serie di misure legali e amministrative che mantengano
l’eredità distruttiva di Trump anche oltre il suo disgregante mandato. Queste politiche
non sono solo oltraggiose, ma hanno conseguenze molto reali sulla vita e sui
diritti dei Palestinesi e devono essere annullate.
Il mondo intero
ha bisogno di riprendersi dall’eredità di Trump e dal caos che ha creato. La
leadership palestinese attende con impazienza di lavorare con tutti gli Stati
responsabili, per forgiare un nuovo percorso verso la giustizia e la pace,
basato sul rispetto reciproco e sull’impegno per lo stato di diritto.
Hanan Ashrawi è membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (OLP).
Traduzione di Donato Cioli –
AssopacePalestina
‘La Supremazia Bianca è un principio presente
in profondità nella società americana- e gli Ebrei ne sanno qualcosa’ - Noam
Chomsky
Noam Chomsky prima delle elezioni americane ha dichiarato
più volte che avrebbe votato per Joe Biden e che i progressisti americani
avrebbero dovuto fare lo stesso. In una intervista precedente al 3 di novembre
il leggendario intellettuale e linguista ha detto a Salon: “La mia posizione è votare contro [il Presidente
Donald] Trump. Nel nostro sistema bipartitico è un fatto tecnico per cui, se
vuoi votare contro Trump, devi schiacciare il pulsante per i Democratici.”
Concluse le
elezioni e con Biden nuovo
presidente eletto, Chomsky ha detto ad Haaretz la scorsa settimana che il
lavoro dei progressisti americani è solo all’inizio. In una intervista via
Zoom, Chomsky, che compie 92 anni il mese prossimo, sembra scettico sulla
possibilità che i democratici producano quel cambiamento che milioni di
americani sperano.
“Che cosa farà
Biden? Il Senato è nelle mani del leader della maggioranza Mitch McConnell, che
sa fare solo due cose: bloccare tutto ciò che i democratici cercano di fare e,
l’altra cosa, dare ai ricchi tutto quello che vogliono,” dice.
Chomsky
continua: “Biden è un contenitore vuoto. Non credo che abbia principi saldi. È
in conflitto con il DNC (Democratic National Committee) che gestisce il partito
ed rappresenta fondamentalmente l’ala di Wall Street. Se cercherà di fare
qualcosa di progressista, La Corte Suprema è lì pronta a fermarlo. Trump e
McConnell sono responsabili di aver riempito l’intero sistema giudiziario, da
cima a fondo, di giudici di estrema destra che possono bloccare qualsiasi
iniziativa progressista si presenti”, accusa.
Biden ha vinto
sia il voto popolare che quello elettorale, ma più di settanta milioni di
americani hanno votato per Trump (che ha rifiutato di accettare il risultato e
sta lanciando la falsa accusa che le elezioni siano state “rubate”). Questo
preoccupa Chomsky. “Nonostante Biden abbia vinto, Trump ha riportato un’enorme
affermazione. È incredibile che uno che ha appena ucciso centinaia di migliaia
di Americani possa anche solo concorrere per la presidenza. Il solo fatto che
le elezioni siano state contestate è una immensa vittoria repubblicana. Trump è un abile politico che capisce la
mentalità americana,” commenta Chomsky.
La vittoria di
Biden ha visto i Newyorkesi e tanti altri nelle grandi città riversarsi in
strada spontaneamente a ballare, mentre esperti e giornalisti festeggiavano il
ritorno alla decenza e al rispetto della costituzione. Biden promette di curare
e unire la nazione. Chomsky pensa che questo possa realmente accadere?
“Andiamo in
entrambe le direzioni,” risponde. “C’è molta più sensibilità oggi sulla
questione razziale di quanta ce ne sia stata in passato. Prendiamo la risposta
all’assassinio di George Floyd [nel maggio scorso]. Da
sempre ci sono stati assassinii di neri da parte della polizia, ma questo è
stato un caso unico. In pochi giorni abbiamo visto enormi proteste di massa,
grande solidarietà tra bianchi e neri in tutto il paese, insieme a un
immenso sostegno popolare, tanto quanto Martin Luther King Jr. non aveva mai
ottenuto. Questo è un segnale di cambiamento,” dice.
Ma Chomsky crede
anche che in altri Americani ci sia una feroce reazione che non deve essere
ignorata. “Hai il partito repubblicano e i suoi elettori, che sono in gran
parte bianchi, cristiani e tradizionalmente dell’America rurale. E qual è la
loro maggiore preoccupazione?Che il loro tradizionale modo di vivere sia
sotto attacco. E qual è il loro tradizionale modo di vivere? Tenere i piedi sul
collo dei neri”, afferma.
“Se guardiamo il
tasso di natalità negli Stati Uniti oggi, vediamo che la maggioranza dei nati
sono non-bianchi,” aggiunge. “Non c’è bisogno di conoscere la statistica per
capire che cosa significa questo. Perderanno la supremazia bianca. Il concetto
dell’essere bianchi non è razziale, ma è piuttosto una concezione sociologica.
Se si torna indietro, non di molto, gli Ebrei non erano considerati bianchi. E
neppure gli Irlandesi. Alla fine del diciannovesimo secolo, a Boston potevi
trovare cartelli sulle porte dei ristoranti che dicevano: “Niente cani ne’
Irlandesi”. Gradualmente anche loro sono diventati bianchi, man mano che
venivano assimilati nella cultura, soprattutto quando raggiungevano benessere e
potere politico. Questo sta succedendo ora con la popolazione ispanica,”
sostiene Chomsky.
Ogni quattro
anni, si discute accanitamente sull’adeguatezza del Collegio Elettorale.
Chomsky è tra i molti che credono che il sistema sia antiquato e difettoso.
“Siamo di fronte a una crisi costituzionale. Si può vedere in queste elezioni.
Biden sta vincendo per più di tre milioni di voti, [attualmente più di 5
milioni] ma nessuno neppure lo nota. Viviamo ancora con un sistema che è stato
creato da ricchi bianchi proprietari di schiavi,” afferma.
Sulla politica
estera, Chomsky è ben lontano dal credere che Biden porterà quel cambiamento
radicale che i progressisti cercano. Pensa che Biden riattiverà l’accordo nucleare iraniano da cui Trump si era
ritirato nel maggio del 2018. Ma non si aspetta che promuova un Medio Oriente
libero da armi nucleari, cosa che richiederebbe un conflitto con Israele.
“È molto
semplice: non devi fare altro che unirti al resto del mondo. Se fai questo
ricostruisci l’accordo”, dice Chomsky riferendosi all’Iran. “Anche se gli Stati
Uniti non sono un partner affidabile, l’Iran farà bene ad accettare l’accordo.
Ma attenzione: c’è un altra soluzione che però è un tabù e nessuno è disposto a
discuterne: imporre una zona libera da armi nucleari nel Medio Oriente con
frequenti ispezioni.”
“Gli Stati Uniti
non riconoscono che Israele possieda armi nucleari, anche se tutti sanno che le
ha. E c’è una ragione anche per questo: è la legge americana che proibisce
aiuti economici o militari agli stati che hanno sviluppato armi nucleari al di
fuori del Trattato di Non Proliferazione,” afferma Chomsky.
L’ambiguità
della politica israeliana riguardo alle supposte armi nucleari è considerata
una componente chiave della sua dottrina di sicurezza nazionale.
Netanyahu,
d’altra parte, è preoccupato che, dopo aver beneficiato politicamente negli
ultimi quattro anni della sua stretta relazione con Trump, ora potrebbe pagare
un prezzo in patria per ogni eventuale tensione con la prossima amministrazione
Biden. Chomsky, ancora una volta, è scettico sulla possibilità che si
verifichino cambiamenti su vasta scala nella politica americana in Medio
Oriente.
I Palestinesi,
d’altra parte sono ansiosi di porre fine a quattro anni di ostilità tra
Ramallah e Washington.
” C’è speranza
per i Palestinesi, ma non viene da Biden,” dice Chomsky. “Viene dall’opinione
pubblica degli Stati Uniti che non può essere messa a tacere per sempre. Se si
va indietro di venti anni, il sostegno a Israele lo si trovava tra i
democratici liberali. Ora sta passando agli evangelici e agli
ultranazionalisti, mentre il sostegno ai Palestinesi sta crescendo tra i
liberali, soprattutto tra i giovani. Prima o poi questo potrebbe avere
un’influenza sulla politica.”
Traduzione di Gabriella
Rossetti – AssopacePalestina
Come si può prevenire il terrore - Amira Hass
Non si tratta
solo di Givat Hamatos: Israele pianifica e realizza continuamente
infrastrutture e costruzioni su larga scala a Gerusalemme Est e in tutta la
Cisgiordania, tutte progettate per sabotare la possibilità di uno stato
palestinese. Ma, con nostra gioia, questa gara d’appalto per la costruzione di
unità residenziali sulle riserve fondiarie di Beit Safafa e Betlemme, sta
facendo un po’ di rumore, perché viene interpretata come una losca manovra
prima che il presidente eletto Joe Biden entri alla Casa Bianca.
Ieri diplomatici
europei hanno visitato il sito dell’insediamento. Le condanne, o per
essere più precisi le riserve, al bando di appalto saranno probabilmente
pubblicate a breve dai ministeri degli Esteri dell’UE e di diversi stati
europei. Il coordinatore speciale delle Nazioni Unite Nickolay Mladenov ha già espresso la sua preoccupazione. Ha ricordato per
la milionesima volta che la costruzione di insediamenti viola il diritto
internazionale.
Non è stato solo
il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a incoraggiare il progetto
israeliano di furto di terra. Durante due decenni di negoziati con
l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, le espressioni rituali di
rammarico e le condanne dell’Unione Europea e dei suoi paesi membri hanno
insegnato a Israele che non ha nulla da temere. Se quei paesi, che sostengono
la strada disegnata dagli Accordi di Oslo più di chiunque altro, non prendono
provvedimenti concreti contro i crimini seriali di Israele, perché quest’ultimo
dovrebbe preoccuparsi? Può continuare a rapinare e calpestare e, quando
necessario, a tirare fuori l’arma dell’ “antisemitismo” e dell’ “Olocausto”,
per bloccare qualsiasi iniziativa volta a fermare la follia israeliana di
espropriazione immobiliare.
Quindi, per
favore: Givat Hamatos è un’occasione per quei paesi di convertire il rituale in
azioni concrete, che essi possono e devono intraprendere. Innanzitutto devono
pubblicare i seguenti chiarimenti:
• La costruzione
di insediamenti in un territorio occupato è vietata dal diritto internazionale.
• L’apartheid è
un crimine per il quale i suoi autori, esecutori e coloro che vi partecipano
consapevolmente devono essere puniti.
• Una
dichiarazione di “terra dello stato” sostenuta da armi e ordini militari, e il
trasferimento di questa terra a un gruppo etnico a scapito di un altro,
significa praticare il terrore.
• La costruzione
di insediamenti sul territorio palestinese occupato nasce dalla visione del
mondo e dalle pratiche di un regime di apartheid che considera gli Ebrei
superiori, e quindi potrebbe ancora una volta compiere atti di espulsione in
massa dei Palestinesi.
Sulla base di
questi chiarimenti, i paesi contrari al terrore di stato e all’apartheid
pubblicheranno anche i seguenti avvertimenti:
• Qualsiasi
appaltatore che partecipa alla gara di Givat Hamatos non sarà autorizzato a
partecipare a progetti in cui sono coinvolte società europee, e ai suoi
proprietari e manager non sarà permesso entrare in Europa.
• Se i
proprietari e i gestori sono cittadini europei, saranno perseguiti nei loro
paesi per aver partecipato a un crimine di apartheid.
• Il divieto di
ingresso e di attività commerciale in Europa e il perseguimento di autori del
reato si applicano anche ai progettisti e agli architetti.
• Tutto quanto
sopra si applica ai dirigenti senior della Israel Land Authority.
• Tutto quanto
sopra si applica agli acquirenti delle unità residenziali così costruite.
• Proprietari e
dirigenti di società operanti in Europa che trattano affari con quei
subappaltatori e architetti saranno perseguiti per favoreggiamento nella
commissione di un crimine.
• Così come
vengono confiscati i conti bancari di persone sospettate di coinvolgimento nel
terrorismo, verranno confiscati i conti bancari di tutte le persone menzionate
sopra.
• La vendita di
residenze ai Palestinesi come una eventuale “foglia di fico” non renderà il
progetto legale, a meno che anche i Palestinesi residenti in Cisgiordania
vivano in quelle residenze.
Questo sarà
l’inizio. Successivamente le stesse avvertenze si applicheranno ad altri piani
di costruzione meno pubblicizzati e agli insediamenti esistenti.
Non definire
“delirante” questa proposta se ti opponi davvero all’apartheid e se ti rendi
conto che i pianificatori e beneficiari di queste costruzioni sono disposti e
sono in grado di espellere ancor più Palestinesi dalla loro terra.
Traduzione di Donato Cioli –
AssopacePalestina
I rabbini di T’ruah condannano
l’annuncio di Pompeo sul BDS e l’identificazione della Cisgiordania con Israele
T’ruah,
un’organizzazione rabbinica americana per i diritti umani che rappresenta oltre
2.000 rabbini e cantori e le loro comunità, ha rilasciato oggi una dichiarazione
in cui condanna le recenti azioni del Segretario di Stato Mike Pompeo che ha
classificato il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS ) come
antisemita e ha identificato la Cisgiordania con Israele. Questa è la
dichiarazione del rabbino Jill Jacobs, direttore esecutivo di T’ruah.
“Nella stessa
settimana in cui l’amministrazione Trump ha nominato un simpatizzante
nazionalista bianco, Darren Beattie, per una commissione che preserva i siti
dell’Olocausto, il segretario Pompeo non ha il diritto di far lezione al mondo
su ciò che costituisce l’antisemitismo. Pompeo, identificando gli insediamenti
come parte di Israele e dichiarando antisemita il movimento BDS, ha ora
dichiarato antisemita chiunque boicotta solo gli insediamenti, inclusi molti
Ebrei israeliani.
“T’ruah non
partecipa al movimento BDS. Ma la libertà di parola –compreso il diritto al
boicottaggio– costituisce una componente essenziale della democrazia, un
diritto umano fondamentale e un valore fondamentale del giudaismo. Il modo per
combattere un discorso che non ci piace è fare un discorso diverso, e non
semplicemente mettere a tacere l’altra parte. Lo apprendiamo dal Talmud, dove i
rabbini usano spesso un linguaggio colorito per contestare e respingere le
opinioni degli altri, lasciando però nel testo anche le opinioni rifiutate, per
poterle studiare successivamente.
“Il segretario
Pompeo ha inoltre dichiarato che i prodotti dell’Area C della Cisgiordania
possono essere etichettati come ‘Made in Israel’. Con questa dichiarazione,
cancella decenni di politica statunitense, ignorando anche il diritto
internazionale e quello israeliano, che riconoscono entrambi la Cisgiordania
come un territorio occupato che non fa legalmente parte di Israele.
“Negli ultimi
anni, alcuni membri del movimento BDS e del movimento estremista
pro-insediamenti hanno tentato di offuscare la distinzione tra gli insediamenti
e Israele vero e proprio. Questa posizione, da entrambi i lati, delegittima lo
Stato di Israele come riconosciuto dalle Nazioni Unite nel 1948.
“Inoltre, la
dichiarazione del segretario Pompeo getta le basi per attaccare e screditare le
organizzazioni per i diritti umani, sulla base fallace dell’antisemitismo.
Questo tentativo di mettere a tacere i critici è una pagina del manuale
dell’autocrate. Calunniando falsamente le organizzazioni per i diritti umani
come antisemite, l’amministrazione Trump renderà più difficile contrastare i
veri atti di antisemitismo quando si verificano, danneggiando allo stesso tempo
l’efficacia di queste organizzazioni nel denunciare le violazioni dei diritti
umani di tutti i paesi, comprese quelle degli Stati Uniti.
“Il governo
americano deve riaffermare un reale impegno a creare un accordo a lungo termine
che protegga i diritti umani e la sicurezza sia degli Israeliani che dei
Palestinesi, stabilendo uno stato palestinese accanto a Israele, entrambi entro
confini internazionalmente riconosciuti. Azioni come la dichiarazione del
segretario Pompeo rischiano di provocare un contraccolpo contro Israele e
contro la comunità ebraica americana, la maggior parte della quale sostiene una
soluzione a due stati e diritti umani sia per gli Israeliani che per i
Palestinesi”.
T’ruah, The Rabbinic Call for Human Rights mobilita
una rete di oltre 2.000 rabbini e cantori di tutte le correnti del giudaismo
che, insieme alla comunità ebraica, agiscono secondo l’imperativo ebraico di
rispettare e promuovere i diritti umani di tutte le persone. Radicati nella
Torah e nella nostra esperienza storica ebraica e guidati dalla Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani, chiediamo agli Ebrei di affermare i valori
ebraici alzando la nostra voce e adottando misure concrete per proteggere ed
espandere i diritti umani in Nord America, in Israele e nei Territori Occupati
Palestinesi.
Una verità sgradevole - Roberto Savio
Lettera di
Roberto Savio agli amici sulla pace in Medio Oriente – La creazione di uno stato palestinese rimane
una chimera
Ma il conflitto è
molto più antico. Sono già passati 30 secoli dai primi scontri tra filistei ed
ebrei e l’accordo di pace promosso dal presidente USA Donald Trump tra Israele
e le due piccole dittature monarchiche arcaiche nel Golfo non sarà certo la
soluzione alla rivalità millenaria.
I Filistei si
stabilirono in quella zona intorno al 1200 a.C..
Alla fine dell’XI
secolo a.C., gli israeliti riuscirono a espellerli da gran parte del loro
territorio, ma rimasero indipendenti sulla fascia costiera. E, sebbene non
abbiano mai dominato completamente l’intera area, il nome del popolo (demonimo)
deriva proprio, dalla parola Peleset (Filisteo) e dal territorio Filasṭin,
Falasṭn o Filisṭin (Palestina).
Tremila anni dopo,
il conflitto sembra essere irreparabile. Gli israeliani non accettano
l’esistenza di uno stato palestinese.
Da parte loro, i
leader palestinesi vivono usando una retorica impossibile, che li ha portati a
perdere molte occasioni. La corruzione di cui sono accusati è vera, ma Israele
ha una storia piuttosto oscura.
I sultani e gli
sceicchi arabi sono persone con una mentalità di mezza età, l’unica cosa che
conta per loro è il fanatismo religioso e il denaro. A Trump piace, perché in
qualche modo gli somiglia. Gli israeliani hanno potuto approfittare di tutto
questo ed eliminare la possibilità di uno Stato palestinese.
Risultato: i
palestinesi dovranno vivere sotto il controllo israeliano. Diventeranno
cittadini di seconda classe e la composizione di Israele cambierà poiché gli
ultraortodossi Haredin hanno un tasso di crescita più alto di arabi ed ebrei.
Gli arabi sono il
20% della popolazione, mentre gli haredin costituiscono già il 12% della
popolazione. Al momento della creazione dello Stato di Israele, erano solo lo
0,2%. Sono clan medievali, che vivono in un mondo speciale. Ad esempio, hanno
ottenuto il diritto di non andare a scuola, poiché studiano solo le Sacre
Scritture. Non fanno il servizio militare e di diritto non lavorano, in fondo
sono sostenuti dallo Stato.
Benjamin Netanyahu
sopravvive grazie ai partiti ultraortodossi. Il futuro di Israele non è un
futuro di pace. È un paese che girerà sempre più a destra, che dovrà continuare
a usare la forza contro i palestinesi, che diventeranno esclusivamente un
problema interno, poiché saranno abbandonati dagli altri arabi. Vivranno in
condizioni economiche e sociali spaventose e vedremo Israele adottare sempre
più la via dell’apartheid.
Queste brevi
vittorie per Netanyahu fanno presagire un futuro nero. Ho visitato la regione
troppe volte per avere una prognosi positiva. In tutto questo Trump sta
spingendo alleanze con i fondamentalisti religiosi sunniti guidati dall’Arabia
Saudita, uniti contro gli sciiti, guidati dall’Iran.
L’Iran, l’antica
civiltà persiana, è molto più tollerante dei sunniti. Il problema è che è stato
catturato da un gruppo di fanatici, che ha approfittato dell’impopolarità dello
Scià, Mohammad Reza Pahlaví, per prendere il potere nel 1979. Non sono
popolari, ma rimangono al potere.
Va ricordato che
il regime teocratico è stato installato con l’aiuto decisivo dell’Occidente.
L’ayatollah
Ruhollah Khomeini è tornato dal suo esilio in Francia in Iran su un aereo messo
a disposizione dal governo conservatore del presidente francese Valéry Giscard
d’Estaing. L’Iran fa parte degli errori di lettura della realtà degli Stati
Uniti, la cui politica estera è sempre a breve termine.
Scatenare
un’escalation per rimuovere lo Scià, usando il clero, creò un regime che alla
fine si è ribaltato contro di loro, qualcosa che Reza Pahlaví non avrebbe mai
fatto. È lo stesso errore commesso in Afghanistan, quando hanno finanziato un
movimento contro l’occupazione russa, creando fenomeni come Bin Laden, che è
finito nella direzione opposta.
Per inciso, è lo
stesso errore che Israele ha commesso quando ha sostenuto Fatah all’inizio, per
indebolire l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di Yassir
Arafat.
I mullah non sono
affatto popolari, ma rimangono al potere grazie al sostegno dei contadini e a
un forte apparato repressivo. Senza dubbio a un certo punto verranno estromessi
dopo una sanguinosa crisi interna e l’Iran tornerà alla normalità.
A questo
proposito, desidero sottolineare tre questioni: a) L’Iran ha università di alto
livello, ottimo cinema, eccellente architettura, buono status scientifico –
tutte realtà sconosciute nel mondo sunnita. b) A Teheran ci sono sinagoghe e
chiese, cosa inesistente nel mondo sunnita. c) In tutti gli attacchi
terroristici in Europa e negli Stati Uniti, non c’è un solo terrorista sciita.
E tieni presente che l’Iran ha subito sanzioni per 40 anni.
Morale:
il disastro politico del Medio Oriente è un disastro della governance,
in cui l’Occidente e Trump hanno molte responsabilità. E anche gli europei, che
hanno insediarono re, principi, emiri e sceicchi quando l’Impero ottomano fu
diviso.
E Trump, con il
genero, che pur essendo ebreo sa ragionare in termini arabi, ha rafforzato il
mondo dei petrodollari e del pensiero medievale.
In tutto questo
panorama, i palestinesi continuano come un popolo senza paese e senza
nazionalità, e gli israeliani hanno pronta la risposta: non accettano il piano
di pace, e non hanno leader che vogliono la pace.
Tuttavia,
persistere nel mantenere milioni di persone risentite e in povertà non è una
ricetta intelligente. Ed è evidente che il livello intellettuale e artistico
del popolo israelita ha poco a che fare con questa formula.
Pertanto, cadere
in questa trappola può essere spiegato solo dallo sforzo di Netanyahu di
rimanere al potere, ad ogni costo, vendendo la sua anima all’estrema destra,
con una sinistra che è diventata una forza simbolica.
Il "banale" trauma delle
incursioni notturne di Israele sui bambini palestinesi
Nonostante le riforme apparenti della legge militare
israeliana in Cisgiordania, i bambini palestinesi e le loro famiglie subiscono
regolarmente abusi
Un rumore improvviso squarciò il silenzio di una
notte buia. I colpi inferociti sul cancello della casa dipinta di blu
terrorizzavano non solo la famiglia che dormiva ma l'intero vicinato. Le grida
dei bambini allarmate dal rumore acuto si fondevano con il suono dei pugni che
sbattevano sul ferro.
Questa non è la banale apertura di una misteriosa
storia di fantasia. È la vita quotidiana delle famiglie palestinesi in
centinaia di villaggi in tutti i territori occupati: i soldati israeliani
compaiono sulla soglia delle famiglie nel sonno profondo, tra le 22:00 e le
5:00, per cercare, arrestare un parente.
A volte, vengono senza un motivo particolare. Troppo
spesso se ne vanno accompagnati da un ragazzo bendato e ammanettato strappato
dal letto, seguito da lontano dal pianto , dalle urla dolorose e dalle voci
smorzate di disperazione della famiglia.
Secondo un rapporto pubblicato mercoledì dal gruppo
israeliano per i diritti umani HaMoked, centinaia di adolescenti palestinesi
vengono arrestati dai militari israeliani ogni anno in raid notturni, violando
i regolamenti dei militari per quanto riguarda le convocazioni per
l'interrogatorio prima della detenzione.Il rapporto sottolinea che la
convocazione permetterebbe ai ragazzi di venire interrogati senza la traumatica
esperienza delle incursioni notturne.
I risultati si basano su 81 testimonianze di ragazzi
di età compresa tra 14 e 17 anni, che sono stati arrestati in vari momenti nel
2018 e nel 2019.
'Trauma cumulativo'
La scorsa settimana, il mondo colpito dal
coronavirus,ha trovato modi alternativi per celebrare la Giornata
internazionale dei bambini. In Israele,
con il titolo: "Di notte, mentre tutti dormono",
diverse organizzazioni israeliane per i diritti umani, tra cui Breaking the
Silence e Parents Against Child Detention, si sono riunite per leggere
le testimonianze dei soldati che hanno partecipato a quelle azioni notturne,
nonché di bambini e famiglie palestinesi che hanno sofferto di questa pratica e
ne sono state vittime .
Parents Against Child Detention è
l'ultima di queste organizzazioni, formata solo due anni fa da due madri e
attiviste israeliane, Moria Shlomot e Nirith Ben-Horin, che si sono impegnate a
documentare e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla portata allarmante
delle violazioni dei diritti di quei bambini.
Secondo Parents
Against Child Detention e Military Court Watch, da
150 a 200 bambini palestinesi della Cisgiordania occupata e di Gerusalemme Est
sono detenuti dalle autorità israeliane . Ogni
anno, Israele detiene circa 1.800 minori per periodi di tempo variabili. Il
fatto che Israele abbia firmato convenzioni internazionali sui diritti dei
bambini viene ignorato.
La legge israeliana sulla giustizia penale relativa
ai minori che impone : "l'uso dell'autorità deve essere effettuato
proteggendo la dignità del minore" - non si applica ai bambini
palestinesi in Cisgiordania, che vengono arrestati in base al codice militare. Questo
codice non considera la salute mentale e lo sviluppo dei bambini. Molti aspetti
di questa pratica e routine sono semplicemente illegali. Le conseguenze sono
inevitabili. Secondo gli operatori di salute mentale affiliati a Parents
Against Child Detention: “I bambini palestinesi in detenzione sperimentano
disorientamento, paura, vergogna e senso di colpa. In molti casi, a causa di
gravi minacce, provano anche paura per la sicurezza della loro famiglia ".
Testimonianze
Ascoltando le testimonianze dei bambini e delle loro
famiglie, sembra inevitabile. Avner Gvaryahu, direttore esecutivo di Breaking
the Silence, chiama questa pratica
"trauma cumulativo". Testimonianze di bambini confermano
ulteriormente questa valutazione.
Un ragazzo di 14 anni del campo profughi di
al-Arroub nella Cisgiordania meridionale ha raccontato la notte del suo
arresto:
“Mi sono svegliato alle 2.30 del mattino, quando 15
soldati israeliani hanno fatto irruzione in casa nostra… Alcuni erano
mascherati… Il comandante mi ha detto che ero in arresto. Hanno ammanettato
forte, le mie mani dietro la schiena ... è stato doloroso. Mi sono lamentato,
ma mi hanno detto di stare zitto ... Sono stato arrestato. Poi è arrivato
l'interrogatorio ... Hanno detto che ho lanciato una bottiglia Molotov contro
un autobus dei coloni ... Non l'ho fatto. Erano molto aggressivi ... Dopo poche
ore ho scelto di ammetterlo, solo per farla finita. Fino a notte fonda un
membro della famiglia mi ha aspettato ad ogni possibile posto di blocco ,poiché
non poteva sapere quando e da dove mi sarebbe stato permesso di entrare ...
"
Un altro minore la cui testimonianza è stata
condivisa durante la Giornata internazionale dei bambini ,ha raccontato una
storia molto simile con leggere variazioni.
“Il mio interrogatore mi ha fatto firmare un
documento ... Non leggo né scrivo in ebraico ma lui ha insistito, così l'ho
fatto. Sono stato rilasciato a tarda notte. Faceva un freddo gelido e pioveva
... avevo paura. "
Ecco un'altra testimonianza di una madre di tre
figli di 40 anni di un villaggio nel sud della Cisgiordania, Beit Ummar:
“Urla forti in ebraico e colpi alla porta ci hanno
svegliati alle 5 del mattino. Ho aperto la porta. Sei soldati ,accompagnati da
cani ,sono entrati in casa. Ho detto al soldato che mio marito aveva appena
subito un intervento a cuore aperto. Non faceva differenza. Il mio bambino di
10 anni ha reagito con un grave attacco d'asma; il bambino di otto anni bagna
il letto da quando i soldati sono entrati in casa due anni fa. Ora l'ha fatto
di nuovo ... I soldati ci hanno spinto tutti in una stanza. Ho cercato di
trovare una coperta per coprire i bambini , ma i soldati mi hanno minacciato e
non mi hanno permesso di farlo ... Sono andati via circa tre ore dopo, non
hanno detto niente, non hanno spiegato niente ".Tutte le storie sembrano simili, ma ognuna racchiude un trauma diverso.
Vicinanza agli insediamenti
Tuttavia, condividono un sorprendente denominatore
comune: secondo un rapporto del Military Court Watch, “le prove suggeriscono un
forte legame geografico tra gli insediamenti della Cisgiordania (e la loro rete
stradale associata) e la detenzione militare dei bambini nelle vicinanze. Nel
2019, i bambini che sono stati detenuti vivevano in media entro 900 metri da un
insediamento in Cisgiordania ".
Shlomot, il direttore esecutivo di Parents Against
Child Detention, aggiunge :
"A causa della vicinanza degli insediamenti ai
villaggi palestinesi, i militari impongono misure di protezione extra, comprese
le intimidazioni per usare la paura tra i palestinesi come deterrenza Da qui il numero di minori detenuti all'interno di questa area
geografica ".
L'ex parlamentare israeliano e attivista Mossi Raz è
stato uno dei tanti che si è offerto come volontario per leggere le
testimonianze nella Giornata internazionale dei
bambini. Niente di eccezionale nella storia che ha presentato. Nessuno è
morto.
“Questo è esattamente ciò che mi ha colpito”, ha
detto Raz, parlando a MEE, “la banalità di tutto questo. Il viavai dei soldati
ogni volta che vogliono ed è diventata una banale routine. Questa è l'essenza
stessa dell'occupazione: l'intimidazione e l'umiliazione quotidiana e notturna."
" Deve esserci una distinzione totale tra
detenzione di adulti e detenzione di minori. Sfortunatamente, queste pratiche
sono profondamente radicate e cambieranno solo quando finirà l'occupazione . Il
nostro obiettivo immediato è garantire che la detenzione di minori sia l'ultima
risorsa e duri il minor tempo possibile", afferma Shlomot. “Anche questa
piccola aspettativa non si concretizza. La brutalità della detenzione di minori
non si esaurisce con l'invasione notturna nella loro casa di famiglia. Continua
con il minore che viene condotto in una base militare, bendato e umiliato dai
soldati a bordo del veicolo; continua con l'attesa che arrivi un interrogatore
di lingua araba, a volte senza cibo e senza accesso alla toilette.
Alcuni bambini riferiscono di pressioni manipolative
imposte loro usando le loro famiglie come : minacciare di revocare il permesso
di lavoro del padre o il permesso della zia per ottenere cure mediche in
Israele", ha aggiunto.
"Oltre a tutto il resto, i bambini sono ossessionati
dal senso di colpa e tendono a riconoscersi colpevoli anche quando non lo sono
affatto Il più delle volte, vengono detenuti per lancio di pietre, considerato
un reato per la sicurezza anche quando non viene causato alcun danno".
Nonostante alcune riforme apparenti alla legge
militare in Cisgiordania, rimane un numero abbondante di arresti e detenzioni
di minori.
"Il benessere di un bambino", come
principio guida delle convenzioni internazionali sui bambini, certamente non si
applica qui.
Ultimi colpi di coda di un baro
e dei suoi complici? - Amedeo Rossi
Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia
costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al
momento imprevedibili.
Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di
amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei
mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non si
possono certo definire nel quadro della “amministrazione ordinaria”, come
sarebbe previsto dalle regole di correttezza e dalla legalità istituzionale. Lo
dimostra anche lo scenario disegnato in questi giorni dal viaggio in Medio
Oriente del segretario di stato Mike Pompeo.
Rottura della tradizione
diplomatica Usa
Lo scenario regionale, in particolare il conflitto
israelo-palestinese, è stato il contesto in cui più attiva e dirompente è stata
la politica estera dell’amministrazione Trump. Interrompendo una tradizione
consolidata di equidistanza, formale quanto fittizia, dei governi statunitensi
tra le parti in conflitto, il presidente Usa e i suoi consiglieri si sono
apertamente schierati a favore delle pretese israeliane: riconoscimento
dell’annessione delle alture del Golan, spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme,
affermazione del diritto di esercitare la sovranità israeliana su gran parte
dei territori palestinesi occupati, attacco esplicito al diritto al ritorno dei
profughi palestinesi, imposizione di un piano di pace (il cosiddetto “accordo
del secolo”) che recepisce quasi tutte le richieste di Israele, senza peraltro
preoccuparsi neppure di consultare l’altra parte in conflitto. Non che gli Usa
siano mai stati mediatori imparziali e abbiano imposto a Israele il rispetto
degli accordi firmati. Persino Obama, il presidente che è stato considerato il
più ostile e a cui il governo israeliano ha fatto sgarbi diplomatici e una
sorda guerra di posizione, alla fine del suo mandato ha firmato la concessione
di aiuti militari più generosa da sempre. Ma nessuno era mai intervenuto in un
contesto così delicato ignorando leggi internazionali, risoluzioni Onu, cautela
diplomatica. Non a caso Trump si è circondato di personaggi direttamente
implicati nel progetto di colonizzazione israeliana della Cisgiordania, e
costoro si sono comportati di conseguenza.
Pompeo: l’uomo del secondo
mandato a Trump
Almeno in Medio Oriente, gli uomini di Trump si comportano
come se quest’ultimo avesse vinto le elezioni. Dopo aver affermato che «ci
sarà una facile transizione verso un secondo mandato di
Trump», il segretario di Stato ha intrapreso un devastante
viaggio “diplomatico” in Medio Oriente. Benché l’obiettivo più ambizioso di
questa iniziativa riguardi un possibile attacco contro l’Iran (che
pare Trump intendesse intraprendere qualche giorno fa), arrivato in Israele
Pompeo ha espresso le sue convinzioni riguardo ai presunti diritti israeliani e
ha inanellato una serie di esternazioni, visite di grande significato simbolico
e iniziative molto concrete. Non è sembrato il viaggio di commiato di un
segretario di stato che stesse per lasciare il proprio incarico, quanto
motivato piuttosto dalla volontà di rilanciare su varie questioni cruciali. Di
per sé le affermazioni di Pompeo, così come il disprezzo delle leggi e della
diplomazia internazionale, non hanno fatto altro che confermare quanto già si
sapeva. È noto che Pompeo, come il vicepresidente Mike Pence e una parte
consistente dell’elettorato di Trump, aderisce a una congregazione cristiano-sionista.
Ma è stato l’atteggiamento protervo e al contempo proattivo a lasciare
sconcertati molti osservatori.
Lotta al BDS,
legittimazione delle colonie, divisione dei territori
Le prime hanno riguardato critiche alla legge dell’UE che
prevede l’etichettatura che specifichi la provenienza di prodotti importati
dalle colonie israeliane, non identificabili come israeliani. Invece secondo
Pompeo le esportazioni, sia dei palestinesi che dei coloni che vi vivono,
provenienti dall’Area C (secondo gli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo
controllo da parte di Israele) devono essere considerate israeliane.
Ovviamente non si tratta solo di una questione commerciale, quanto soprattutto
del riconoscimento formale della situazione di fatto e dell’illegittima
occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. In più, con
un’iniziativa tragicamente grottesca, ha anche annunciato l’intenzione di etichettare in modo differenziato i
prodotti palestinesi provenienti dalla Cisgiordania rispetto a quelli di Gaza.
In questo caso si tratta invece della sanzione ufficiale di un altro obiettivo
della politica israeliana: la separazione tra
i due territori palestinesi come mezzo per favorire l’annessione della West
Bank e modificarne il rapporto demografico a favore dei palestinesi. Per
esempio, Israele favorisce gli spostamenti dalla Cisgiordania verso Gaza,
rendendo invece particolarmente difficile il flusso in senso opposto.
Inoltre Pompeo ha definito “antisemita” e
“un cancro” il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che
lotta in modo nonviolento in difesa dei diritti dei palestinesi e del rispetto
delle leggi internazionali. Ha anche promesso iniziative del governo Usa per
combattere il movimento, suscitando le proteste di ong come Amnesty International e Human Rights Watch,
che pure non aderiscono alla campagna ma difendono il diritto di opinione degli
attivisti BDS. Poi, primo segretario di stato a farlo, si è recato sulle
alture del Golan, ribadendo che si tratta di un territorio israeliano, e ha
visitato l’impresa vitivinicola israeliana di Psâgot, che sorge su terreni di
proprietari privati palestinesi e raccoglie le uve provenienti da altre zone
palestinesi occupate ed espropriate. Lì è stato omaggiato di un vino che
porta il suo cognome. In realtà il proprietario dell’azienda visitata da Pompeo
non solo non avrebbe di che lamentarsi dell’obbligo di specificare la
provenienza del suo vino dai territori occupati, in quanto ha dichiarato anzi
che ciò gli ha permesso di aumentare le vendite. Comunque, per chi avesse
qualche dubbio, Pompeo ha definito la
sua visita «il semplice riconoscimento [della colonia] come parte di Israele»,
aggiungendo che «oggi il Dipartimento di stato degli Stati Uniti è decisamente
favorevole al riconoscimento del fatto che le colonie si possono costruire in
modo legale, giusto e corretto».
Reazione disperata alla
sconfitta o un passo verso il futuro?
I commentatori politici si chiedono quali possano essere
le ragioni di questa iniziativa di un’amministrazione (non certo solo di
Pompeo) ormai destinata a sloggiare. Oltre alle convinzioni religiose del
segretario di stato, la spiegazione più banale, anche se probabilmente non del
tutto ininfluente, è quella sostenuta da Douglas Macgregor, colonnello e
consulente del Pentagono: «Dovete andare a vedere le persone che fanno
donazioni a questi individui. [Pompeo] chiede soldi alla lobby israeliana, ai
sauditi e ad altri», ha affermato in un’intervista rilasciata alla CNN.
Naturalmente lo stesso discorso vale a maggior ragione per Trump, il cui
principale finanziatore è stato il miliardario Sheldon Adelson,
che è anche un sostenitore delle colonie e di Netanyahu.
Una pesante eredità
C’è anche una ragione più strettamente politica che può
spiegare il comportamento del segretario di Stato: la sua ambizione di
presentarsi come candidato repubblicano alle elezioni del 2024. La sua
(ultima?) mossa potrebbe permettergli di conquistare i favori dell’elettorato
filoisraeliano di Trump, a cominciare dall’Aipac, la più potente associazione
della lobby filoisraeliana negli Usa.
Infine, queste iniziative lasciano un’eredità piuttosto
pesante da gestire all’amministrazione entrante. Non sarà facile per Biden
rinnegare quanto fatto da Trump e dai suoi consiglieri a favore di Israele,
tanto più che sia lui che Kamala Harris, la vicepresidente entrante, durante la
loro vita politica e la campagna elettorale hanno più volte manifestato la propria
vicinanza allo Stato di Israele. Biden vanta anche un’amicizia personale con
Netanyahu. Come ha scritto un commentatore del sito ebraico
di notizie “Mondoweiss”:
«Per poter annullare queste iniziative dell’ultimo momento, intese a
legittimare ulteriormente l’annessione e delegittimare l’opposizione
all’apartheid israeliana contro i palestinesi, Biden dovrà pagare costi
politici molto pesanti per poterli annullare».
Come afferma Barak Obama in
un brano nelle sue memorie citato dal sito “JewishInsider”: «I parlamentari e i
candidati che hanno criticato la politica di Israele in modo troppo deciso
hanno rischiato di essere etichettati come “anti-israeliani” (e magari anche
antisemiti) e nelle elezioni successive hanno dovuto fare i conti con avversari
molto ben finanziati».
Non è detto che Biden sia disposto a correre il rischio e
a smantellare il quadro idilliaco dei rapporti tra Usa e Israele dipinto in
questi 4 anni dall’amministrazione Trump.
Neom: The Red Sea Diving Resort - Eric
Salerno
Immersione nella barriera
arabo-israeliana in dissoluzione
Tra il
virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non
distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato
un fallito centro per subacquei in
una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, la marina
russa sta per aprire una base navale e aggiungere la presenza dell’ex
superpotenza a quella di numerosi altri contendenti per il controllo della
regione. Dall’altro lato di quel lungo specchio d’acqua tra i più strategici
del mondo, di fronte all’Africa più turbolenta, l’Arabia saudita ha avviato la
creazione di un vasto comprensorio turistico di lusso (con un poco fortunato
avvio per colpa del Covid) dove le regole più arcaiche del Corano non valgono
mentre sulla stessa riva ma più a sud continua a seminare morte e devastazione
nello Yemen.
Il 21 e il
22 novembre, su onde simili a quelli che consentono ai droni sauditi di colpire
la splendida Sana’a, si sono esibiti a distanza di sicurezza imposta dalla
pandemia i rappresentanti dei G20 nel loro vertice annuale presieduto per la
prima volta da un paese arabo, proprio l’Arabia saudita. Con gli specialisti
che ci continuano a raccontare che il mondo abbastanza presto farà a meno del
petrolio e si servirà di altre risorse, meno inquinanti, per le sue molteplici
esigenze di vita e che, comunque, i ricchissimi giacimenti di oro nero sotto le
sabbie del grande deserto arabo stanno finendo, viene da chiedersi il
significato dei giochi geopolitici e militari di quello scacchiere. Lasciamo le
risposte complesse a un altro momento: è per molti più importante chiedersi
oggi perché la presidenza, seppure di turno, di un sodalizio come il G20 e il
vertice siano andati a finire in uno dei paesi più repressivi dei diritti umani
del mondo e perché uno dei suoi massimi leader abbia potuto impunemente
sfuggire all’accusa di omicidio per il brutale assassinio del giornalista
saudita Jamal Khashoggi e viene accolto da mezzo mondo come se nulla fosse
accaduto nel consolato saudita in Turchia. Qui la risposta è meno complessa:
dollari, euro e criptovalute, termine che fa venire alla mente la kryptonite di
supereroica memoria. La ricchezza, come quel minerale, può dare potere ma anche
mettere in difficoltà chi non sa come gestirla. Il Covid ha vanificato l’investimento
dell’Arabia saudita e del suo reggente nel vertice: non c’è stata la foto di
gruppo, non ci sono state le strette di mano o le confidenze bilaterali. E
nemmeno le gite organizzate per mostrare agli illustri ospiti quella piccola
parte del mondo saudita – il comprensorio di Neom – che potrebbe assomigliare
al nostro mondo e distrarre l’attenzione dei presenti (delegati e stampa di
passaggio) da quanto c’è di negativo in quel paese.
Negli anni
Ottanta dello scorso secolo quando la repressione dell’Intifada dei palestinesi
aveva riportato in primo piano la loro causa, una giornalista, con cinque
passaporti in tasca tra cui quelli italiani e israeliani, mi disse con
convinzione, temo, che sarebbe stato meglio non criticare Israele. Farlo,
sosteneva, avrebbe soltanto messo in difficoltà coloro che in quel paese
volevano la pace. Oggi la questione palestinese non fa notizia se non per
qualche intrusione non certo costruttiva del presidente americano. Da tempo,
ormai, poche sono le critiche pubbliche da parte dei paesi che contano. Eppure
i palestinesi non sono più vicini ad avere una patria indipendente. E sbaglia,
oggi, chi ritiene che non criticare l’Arabia saudita e il suo relativamente
giovane riformatore, l’erede al trono Mohammad bin Salman (MbS), per l’assassinio
di Khashoggi o per l’aumento delle violazioni dei diritti umani negli ultimi
anni, sia l’unico modo per consentire al regno di uscire dal suo medioevo
islamico.
Il G-20 saudita non si boicotta, né
risolve…
Per
questo, Human Rights Watch e
molte altre organizzazioni internazionali e anche saudite avevano sollecitato i
capi di stato degli altri paesi del G-20 di ridurre il livello della loro rappresentanza
al vertice. O di utilizzare l’incontro virtuale per mandare molto più di un
segnale di disappunto al regime. Il sodalizio comprende l’Unione europea e 19
paesi: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, Francia, India,
Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea
del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molte realtà in comune; molte
altre che li separano. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per
cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio mondiale e i due terzi
della popolazione mondiale. E insieme, nel week-end di discorsi a distanza, non
sono riusciti nemmeno a tirar fuori un impegno concreto – costo 28 miliardi di
dollari – per garantire l’accesso al vaccino anti-Covid ai paesi poveri.
… investe in sogni di ricchezza…
Il
presidente americano Trump, sempre sprezzante, ha parlato contro tutto e tutti
e appena finito il solito intervento farneticante è andato a giocare a golf
senza restare davanti al suo monitor per ascoltare gli altri interventi. Gli
interessi economici sono il collante dei G-20 e il tema di fondo quest’anno
era, giustamente, il fall-out economico del Covid. Con visioni divergenti e su
come procedere di fronte a una delle crisi di crescita che vedrà i poveri
diventare più poveri e molti ricchi diventare meno ricchi ci si poteva
aspettare almeno una modesta donazione a favore dei più poveri se non altro per
farli diventare Mercato utile alla crescita economica dei già ricchi. L’Arabia
saudita punta alla modernizzazione e sta approfittando della crisi Covid. Cerca
investitori e investe. Con i proventi del petrolio sta arraffando ciò che può
nella speranza, secondo il piano dell’erede al trono, di arrivare al 2030 con
un’economia non più sostenuta dai soli proventi del petrolio. Un progetto
ambizioso che in tempi di magra piace alle economie avanzate in difficoltà.
Persino le azioni dell’Eni hanno ripreso quota con la notizia che il fondo
sovrano saudita ne ha acquistato un pacchetto.
… e in consumo di armi in Yemen
Abbiamo
esaminato, recentemente, il peso del complesso militare-industriale americano
sulla politica Usa. Purtroppo non è l’unica nazione del nostro mondo, diciamo
“democratico”, a essere soggetta alle pressioni dei fabbricanti di armi. I
paesi membri del G20 hanno venduto armi per più di 17 miliardi di dollari
all’Arabia saudita da quando il regno è intervenuto nella guerra civile in
Yemen. Una cifra di tre volte superiore agli aiuti umanitari forniti dagli
stessi paesi ai trenta milioni di abitanti della più antica nazione della
regione. Il disavanzo si allarga se si considera la vendita di armi e munizioni
verso gli otto paesi che compongono la coalizione a guida saudita: il valore
delle esportazioni sale a 31,7 miliardi di dollari.
I
bombardamenti indiscriminati da parte saudita su ospedali, cliniche, pozzi e
altre strutture civili sono stati condannati da molte organizzazioni
internazionali e alla vigilia del vertice di Riad, l’organizzazione
assistenziale Oxfam ha definito la politica dei paesi più ricchi del mondo
“immorale e incoerente”. Tra loro, sotto accusa c’è anche l’Italia.
Giorni fa la Rete Italiana Pace e Disarmo, il Centro Europeo per i Diritti
Costituzionali e Umani (Ecchr), e l’ong yemenita Mwatana per i Diritti Umani,
hanno sottolineato in un evento online che
il governo di Roma e i produttori italiani di armi potrebbero essere
considerati corresponsabili dei crimini di guerra commessi nello Yemen
esportando armi verso la coalizione militare guidata dall’Arabia saudita e
dagli Emirati arabi uniti. Un anno fa, nel dicembre 2019, Amnesty International
e numerose altre organizzazioni comprese quelle citate si rivolsero all’Ufficio
del procuratore presso la Corte penale internazionale dell’Aja chiedendo un’indagine sulla
responsabilità degli “attori aziendali e governativi in
Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito”. La comunicazione descriveva
ventisei attacchi aerei della coalizione saudita che, secondo le ricerche
effettuate, potrebbero aver utilizzato bombe prodotte in Europa. L’Italia, come
alcuni altri paesi europei, ha per ora bloccato le esportazioni dirette ai
paesi belligeranti (anche se molti armamenti arrivano o arriveranno a loro
attraverso paesi terzi). Nei primi mesi del 2020, gli attacchi aerei a guida
saudita sono più che raddoppiati e le vittime civili della guerra sono
aumentati vertiginosamente arrivando a oltre 20000 per gli oltre 64000
bombardamenti compiuti da quando la guerra cominciò nel 2015. Di fronte a
questo quadro sempre più grave e deprimente, poche ore prima dell’inizio del
vertice dei G-20, la International Rescue Committee,
organizzazione non governativa con sede a Washington ha sollecitato Usa, Gran
Bretagna e Francia a sospendere le loro vendite di armi alla coalizione
saudita. Silenzio totale da parte dei paesi chiamati in causa.
L’abbraccio esiziale a Neom: MbS,
Pompeo, Bibi
Con la
scusa che l’Arabia saudita deve essere considerata una pedina importante per
controllare “l’espansionismo iraniano” nella regione, l’anno scorso il
presidente americano furbescamente ordinò la consegna di bombe e missili
sofisticati a Riad per una cifra volutamente inferiore a quella che impone
un’approvazione congressuale sulle vendite di armi. Giochi più volte ripetuti e
più volte giustificati dalla Casa bianca (e sottoscritte dal parlamento) in
quanto le vendite “creano lavoro” per gli americani. Nel 2017 Trump e i sauditi
firmarono una lettera d’impegno per l’acquisto di armi per un valore di 110
miliardi di dollari subito e altri 350 miliardi di dollari entro dieci anni. Un
accordo simile l’aveva firmato il deludente “premio Nobel per la pace”
predecessore di Trump, Barack Obama.
Non sono
soli i movimenti pacifisti a chiedersi cosa può fare l’Arabia saudita con tale
quantità e qualità di armamenti se non garantirsi il sostegno dell’industria
americana. Persino il Pentagono, nelle sue analisi, ammette che il regno dei
Saud, poco popolato e con una maggioranza di sudditi poco incline a sostenere
la famiglia reale, non sarebbe capace nonostante il suo arsenale crescente
supersofisticato a vincere un confronto militare con un paese come l’Iraq,
l’Iran o l’Egitto senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. O di Israele. E
a proposito della superpotenza mediorientale: mentre gli occhi dei rappresentanti
del G20 erano più o meno concentrati sugli schermi che li collegavano, il
premier israeliano, il capo del Mossad, Yossi Cohen e il bellicoso segretario
di stato americano Mike Pompeo sono volati a Neom, la città del futuro – zona turistica e
industriale – nel nord dell’Arabia saudita per il primo incontro ufficiale tra
Netanyahu e Mohammed bin Salman. Non ci vuole molto per capire che si è
trattato di un “consiglio di guerra”.
Cosa fare prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca per mettere i
bastoni tra le ruote del neoeletto?
Quali spuntati argini “democratici”
alla deriva bellica?
Il leader
democratico ha più volte parlato di modificare la politica americana impostata
da Trump rispetto a Mohammed bin Salman e all’Arabia saudita nel suo insieme. E
ha più volte insistito sulla necessità di riprendere appena possibile il
dialogo sul nucleare con l’Iran che Trump aveva interrotto nonostante le
esortazioni non solo di molti consiglieri americani ma anche dei partner europei.
Nei giorni scorsi il “New York Times” aveva rivelato che subito dopo il voto
Trump aveva sollecitato, senza successo, i suoi generali a mettere in piedi
un attacco alle istallazioni
nucleari iraniane. Sarà ora Israele a colpire? Pochi a Tel Aviv
pensano che una massiccia azione militare contro Teheran sia imminente. L’altro
tema di fondo è la “questione palestinese”. L’avvicinamento tra Israele e
Arabia saudita è un dato di fatto ma è ancora re Salman, non MbS, a decidere
fino a dove arrivare e ha appena ribadito, frenando l’entusiasmo di Netanyahu,
che la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi aspetta il momento in
cui sarà annunciata la creazione di uno stato palestinese indipendente con
Gerusalemme Est come sua capitale.
Israele e
il suo premier hanno ottenuto molto da Trump ma nel commentare il vertice
trilaterale a Neom, Joshua Teitelbaum,
storico ed esperto di affari sauditi e dei paesi del Golfo all’università
Bar-Ilan (destra religiosa) ha ricordato al premier che anche «con i
democratici Israele ha molta influenza a Washington» ma non deve troppo
schierarsi con i sauditi contro le eventuali azioni di Biden, noto da sempre
come sostenitore di Israele.
CISGIORDANIA. Raid nelle case, la vita sconvolta dei palestinesi - Michele Giorgio – Il Manifesto
«…Al calar della notte, chiudiamo la porta e ci riuniamo dentro con la nostra famiglia, sicuri di essere protetti dal mondo esterno nelle nostre mura di casa…I palestinesi che vivono sotto occupazione in Cisgiordania invece sono costantemente vulnerabili all’invasione arbitraria delle loro case da parte delle forze di sicurezza israeliane». Comincia così Exposed Life il rapporto con cui tre ong per i diritti umani – Yesh Din, Breaking the Silence e Physicians for Human Rights – denunciano quanto i civili palestinesi, compresi i bambini, siano danneggiati fisicamente e mentalmente quando i soldati israeliani, il più delle volte nel cuore della notte, penetrano nelle loro abitazioni per presunte operazioni di sicurezza. L’indagine è fondata sulle testimonianze di 158 palestinesi ed interviste condotte da psichiatri e psicologi con 31 famiglie. Oltre che sui racconti di 45 soldati e ufficiali israeliani.
I risultati descrivono un aspetto drammatico della vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione. Ogni mese, secondo dati citati dalle tre ong, l’esercito israeliano compie circa 200 raid in abitazioni palestinesi. In un quarto dei casi i soldati fanno uso di forza e violenza. Il portavoce militare replica che queste operazioni sono volte impedire «atti di terrorismo» e in non pochi casi portano all’arresto di sospetti e al ritrovamento di armi. La sicurezza però non si lega al furto di oggetti d’oro e soldi che, ad esempio, ha denunciato di aver subito uno dei testimoni, Samer Al Jabari, di Hebron. «Quando in piena notte i soldati hanno cominciato a battere sulla porta di casa, mi sono affacciato alla finestra e ho chiesto loro di non sfondare la porta. Sono sceso subito ad aprirla ma non hanno aspettato e hanno fatto irruzione accompagnati da cani». I militari poi hanno ordinato a tutta la famiglia di riunirsi in una stanza. «Ho chiesto cosa stessero cercando – prosegue al Jabari – e mi sono offerto di accompagnarli. Non mi hanno ascoltato e hanno tagliato divani e distrutto sedie e altri mobili». Quindi la sparizione di oggetti d’oro e contanti scoperta quando i soldati sono andati via. Altrettanto traumatici sono i danni allo stato mentale di chi subisce un raid. Negli adulti, riferisce la psichiatra Jumana Melhem, di Physicians for Human Rights, si registrano ansia e stress post-traumatico. In bambini e ragazzi disturbi del sonno e comportamenti aggressivi.
Le tre ong spiegano che qualsiasi giovane ufficiale israeliano può ordinare un’irruzione in una casa palestinese. Sottolineano la discriminazione tra coloni israeliani e i palestinesi che vivono nello stesso territorio geografico, la Cisgiordania. «I primi – scrivono – godono della tutela della legge israeliana che proibisce irruzioni arbitrarie nelle loro case, mentre i loro vicini palestinesi subiscono invasioni notturne senza il mandato di un giudice».
Sul portale d’informazione Walla, Ziv Shathal, di Yesh Din scrive che il governo Netanyahu segue con attenzione i passi della Corte penale internazionale dell’Aja che vuole indagare Israele per crimini nei Territori occupati. Nei passati quattro anni, Donald Trump ha protetto Israele. Con Joe Biden alla Casa Bianca la linea degli Usa sarebbe in parte destinata a cambiare. Israele respinge le indagini internazionali sostenendo di avere un sistema giudiziario, civile e militare, in grado di giudicare in piena autonomia. «Ma questo sistema – dice Ziv Shathal – seppellisce le indagini più di quanto le svolga». La possibilità che una denuncia palestinese porti all’incriminazione di un soldato è inferiore all’1%.
Territori palestinesi occupati tra piani israeliani di annessione e pandemia - Irene Masala
Mentre mancano pochi giorni alla 43esima Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese del 29 novembre, il governo d'Israele punta ancora sull'annessione di parte della Cisgiordania. E la crisi sanitaria dilaga nei Territori Palestinesi occupati
«Fuori controllo». Così il personale medico palestinese ha definito la situazione sanitaria della Striscia di Gaza, in seguito all’annuncio del ministero della Salute che il 23 novembre ha comunicato un incremento di 890 nuovi casi di coronavirus nel fine settimana.
Il contesto sanitario della Striscia di Gaza, già fortemente provato dal sovraffollamento, con quasi 2 milioni di persone costretti a vivere in 365 km², circa la stessa estensione del comune di Enna, potrebbe perciò non riuscire a garantire a tutti la necessaria assistenza. Il totale dei casi di coronavirus attivi all’interno di tutti i Territori palestinesi occupati, comprese quindi anche Cisgiordania e Gerusalemme Est, supera così la soglia dei 15 mila…
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