Il
Servizio Sanitario Nazionale che non c’è più. I dati del 6° Rapporto GIMBE - G
La Fondazione GIMBE ha
presentato il 6° Rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale (SSN)
dal quale si evince come il servizio pubblico sia sempre più compromesso e con
esso il diritto costituzionale alla tutela della Salute. Come sottolinea la
Fondazione, “siamo davanti al lento e progressivo sgretolamento della
più grande opera pubblica mai costruita in Italia”. Siamo di fronte al
rischio concreto di perdere, lentamente ma inesorabilmente, un modello di
servizio sanitario pubblico, equo e universalistico. Stiamo per compromettere
definitivamente una conquista sociale irrinunciabile per l’eguaglianza e la
dignità di tutte le persone. Questi i dati.
Finanziamento pubblico.
Il fabbisogno sanitario nazionale (FSN) dal 2010 al 2023 è aumentato
complessivamente di € 23,3 miliardi, in media € 1,94 miliardi per anno, ma con
trend molti diversi tra il periodo pre-pandemico (2010-2019), pandemico
(2020-2022) e post-pandemico (2023), su cui “è opportuno rifare
chiarezza –come sottolinea la Fondazione – per
documentare che tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni
hanno tagliato e/o non investito adeguatamente in sanità”. Nel periodo
2010-2019 alla sanità pubblica sono stati sottratti oltre € 37 miliardi di cui:
circa € 25 miliardi nel 2010-2015, in conseguenza di “tagli” previsti
da varie manovre finalizzate al risanamento della finanza pubblica; oltre € 12
miliardi nel periodo 2015-2019, in conseguenza del “definanziamento”
che ha assegnato meno risorse al SSN rispetto ai livelli programmati. In
10 anni il FSN è aumentato complessivamente di € 8,2 miliardi, crescendo in
media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua
(1,15%). Nel periodo 2020-2022 il FSN è aumentato complessivamente di
€ 11,2 miliardi, crescendo in media del 3,4% annuo. Tuttavia, questo netto
rilancio del finanziamento pubblico è stato di fatto assorbito dai costi della
pandemia COVID-19, non ha consentito rafforzamenti strutturali del SSN ed è
stato insufficiente a tenere in ordine i bilanci delle Regioni. Nel periodo
2023-2026 la Legge di Bilancio 2023 ha incrementato il
FSN per gli anni 2023, 2024 e 2025, rispettivamente di € 2.150 milioni, € 2.300
milioni e € 2.600 milioni. Nel 2023 € 1.400 milioni sono stati destinati alla
copertura dei maggiori costi energetici. Dal punto di vista previsionale, nella Nota
di Aggiornamento del DEF 2023, approvata lo scorso 27 settembre, il
rapporto spesa sanitaria/PIL precipita dal 6,6% del 2023 al 6,2% nel 2024 e nel
2025, e poi ancora al 6,1% nel 2026. In termini assoluti, nel triennio
2024-2026 si stima un incremento della spesa sanitaria di soli € 4.238 milioni
(+1,1%). Da rilevare che nel 2022 e nel 2023 l’aumento percentuale
del FSN è stato inferiore a quello dell’inflazione: nel 2022
l’incremento del FSN è stato del 2,9% a fronte di una inflazione dell’8,1%,
mentre nel 2023 l’inflazione al 30 settembre acquisita dall’ISTAT è del 5,7% a
fronte di un aumento del FSN del 2,8%.
Spesa sanitaria. La
spesa sanitaria totale (sistema ISTAT-SHA) per il
2022 è pari a € 171.867 milioni di cui € 130.364 milioni di spesa pubblica
(75,9%), € 36.835 milioni di spesa out-of-pocket (21,4%), ovvero a carico delle
famiglie e € 4.668 milioni di spesa intermediata da fondi sanitari e
assicurazioni (2,7%). La spesa sanitaria pubblica del nostro Paese nel
2022 si attesta al 6,8% del PIL, sotto di 0,3 punti percentuali sia rispetto
alla media OCSE (7,1%) che alla media europea (7,1%). Il gap con la media dei
paesi europei dell’area OCSE è di $ 873 pro-capite ($ 873, pari a € 829) che,
tenendo conto di una popolazione residente ISTAT al 1° gennaio 2023 di oltre
58,8 milioni di abitanti, per l’anno 2022 corrisponde ad un gap di quasi $ 51,4
miliardi, pari a € 48,8 miliardi. Il progressivo aumento del gap della spesa
sanitaria con la media dei paesi europei è perfettamente in linea con l’entità
del definanziamento pubblico relativo al decennio 2010-2019, ma poi si è
sorprendentemente ampliato nel triennio 2020-2022 durante l’emergenza
pandemica. Complessivamente, rispetto alla media dei paesi
europei, nel periodo 2010-2022 la spesa sanitaria pubblica italiana è stata
inferiore di $ 363 miliardi (pari a € 345 miliardi). E, per colmare il
divario pro-capite con la media dei paesi europei attestato nel 2022 ($ 873,
pari a € 829), al 2030 si stima un incremento totale di $ 122 miliardi (pari a
€ 115,9 miliardi), ovvero a partire dal 2023 un finanziamento costante di $
15,25 miliardi, pari a € 14,49 miliardi per anno.
Livelli Essenziali di Assistenza. L’obiettivo dichiarato di “continuo aggiornamento dei
LEA, con proposta di esclusione di prestazioni, servizi o attività divenuti
obsoleti e di inclusione di prestazioni innovative ed efficaci, al fine di
mantenere allineati i LEA all’evoluzione delle conoscenze scientifiche”
non è mai stato raggiunto. Il ritardo di oltre 6 anni e mezzo
nell’approvazione del Decreto Tariffe ha reso impossibile sia ratificare i 29
aggiornamenti proposti dalla Commissione LEA, sia l’esigibilità delle
prestazioni di specialistica ambulatoriale e di protesica inserite nei “nuovi
LEA”. Nonostante la pubblicazione del DM Tariffe il 4 agosto 2023,
i LEA rimarranno ancora in stand-by sino al 1°
gennaio 2024 per la specialistica ambulatoriale e al 1° aprile 2024 per
l’assistenza protesica. Tutte le analisi confermano una vera e
propria “frattura strutturale” tra Nord e Sud: negli adempimenti cumulativi
2010-2019 nessuna Regione meridionale si posiziona tra le prime 10. Nel
2020 l’unica Regione del sud tra le 11 adempienti è la Puglia; nel
2021 delle 14 adempienti solo 3 sono del Sud: Abruzzo, Puglia e Basilicata. Sia
nel 2020 che nel 2021 le Regioni meridionali sono ultime tra quelle adempienti. Il
focus sulla mobilità sanitaria documenta che i flussi economici scorrono
prevalentemente da Sud a Nord: in particolare nel 2020, Emilia-Romagna,
Lombardia e Veneto “cubano”
complessivamente il 94,1% del saldo di mobilità attiva.
Regionalismo differenziato. La “frattura strutturale”
tra Nord e Sud compromette l’equità di accesso ai servizi sanitari e gli esiti
di salute e alimenta un imponente flusso di mobilità sanitaria dalle Regioni
meridionali a quelle settentrionali. Di conseguenza, l’attuazione
di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le
migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione, non potrà che
amplificare le diseguaglianze registrate già con la semplice competenza concorrente
in tema di tutela della salute.
Personale dipendente.
I dati relativi al 2021 verosimilmente sottostimano la carenza di personale, in
conseguenza di licenziamenti volontari e pensionamenti anticipati negli anni
2022-2023. Ancora, le differenze regionali sono molto rilevanti, in particolare
per il personale infermieristico, maggiormente sacrificato nelle Regioni in
Piano di rientro. Infine, i benchmark internazionali relativi a
medici e infermieri collocano il nostro Paese poco sopra la media OCSE per i
medici e molto al di sotto per il personale infermieristico,
restituendo di conseguenza un rapporto infermieri/medici tra i più bassi
d’Europa. Nel 2021 sono 124.506 i medici che lavorano nelle
strutture sanitarie: 102.491 dipendenti del SSN e 22.015 dipendenti
delle strutture equiparate al SSN. La media nazionale è di 2,11 medici per
1.000 abitanti, con un range che varia dagli 1,84 di Campania e Veneto a 2,56
della Toscana con un gap del 39,1%. L’Italia si colloca sopra la media OCSE
(4,1 vs 3,7 medici per 1.000 abitanti), ma con un gap un rilevante tra i medici
attivi e quelli in quota al SSN. Sono 298.597 invece gli
infermieri che lavorano nelle strutture sanitarie: 264.768 dipendenti
del SSN e 33.829 dipendenti delle strutture equiparate al SSN. La media
nazionale è di 5,06 per 1.000 abitanti, con un range che varia dai 3,59 della
Campania ai 6,72 del Friuli Venezia Giulia con un gap dell’87,2%. L’Italia si
colloca ben al di sotto della media OCSE (6,2 vs 9,9 per 1.000 abitanti). Nel
2021 il rapporto nazionale infermieri/medici tra il personale dipendente è di
2,4, con un range che varia dagli 1,83 della Sicilia ai 3,3 della Provincia
autonoma di Bolzano, con un gap dell’80,3%. Fatta eccezione per il Molise, le
Regioni in Piano di rientro si trovano tutte sotto la media nazionale,
dimostrando che le restrizioni di personale hanno colpito più il personale
infermieristico che quello medico. L’Italia si colloca molto al di
sotto della media OCSE (1,5 vs 2,7) per rapporto infermieri/medici, in Europa
davanti solo a Spagna (1,4) e Lettonia (1,2).
Anche al fine di orientare le decisioni politiche nella
nuova Legislatura, il Rapporto contiene
anche un piano di rilancio del Servizio Sanitario Nazionale che
propone coraggiose riforme e azioni indispensabili a garantire il diritto
costituzionale alla tutela della salute a tutte le persone. Un diritto
fondamentale che, silenziosamente, si sta trasformando in un privilegio per
pochi, lasciando indietro le persone più fragili e svantaggiate.
Qui per
scaricare il Rapporto: https://www.salviamo-ssn.it/var/contenuti/6_Rapporto_GIMBE_SSN.pdf
Pochi medici, turni pesanti e ricoveri impossibili:
l’inferno dei pronto soccorso - Michele Bocci
I reparti di emergenza
vivono la crisi più dura della sanità italiana. E intanto gli specializzandi
scappano
La crisi è
nerissima e va avanti ormai da anni. I pronto soccorso italiani sono in affanno
e via via che il numero dei medici scende, come un cane che si morde la coda,
sempre meno professionisti vogliono lavorare nell’emergenza. E per chi resta è
sempre più dura. Ma sono tanti i fattori che hanno fatto peggiorare le condizioni
di questi reparti, che spesso si trovano in difficoltà, come racconta la storia
di Tor Vergata a Roma.
Orari pesanti e niente attività privata
Chi lavora
al pronto soccorso deve sopportare turni pesanti, con
molte notti al mese e anche weekend. In altri reparti i turni sono
più agevoli. Poi c’è un problema economico. Lo stipendio è considerato troppo
basso anche dallo stesso ministro alla Salute, Orazio Schillaci,
che ha promesso aumenti. La paga è la stessa degli altri medici pubblici, ma
chi lavora al pronto soccorso, come chi esercita altre specialità, non fa
praticamente mai attività privata, che permette a tanti professionisti di
arrotondare.
Quei 5mila medici in meno
Secondo Simeu,
la società scientifica dell’emergenza, mancano oggi circa 5.000 medici nei
pronto soccorso. E la situazione non sembra destinata a sbloccarsi a breve.
Basta vedere le scuole di specializzazione. Proprio le condizioni di
lavoro difficili spingono i giovani medici verso altre attività. E quest’anno
il 70% delle borse di studio in medicina di urgenza sono andate deserte. Nel
frattempo ci sono moltissimi medici assunti, circa 600 l’anno scorso, che
lasciano. Si spostano magari nel privato, provano ad andare all’estero oppure
partecipano ai bandi per i medici di famiglia o professionisti di altri reparti
ospedalieri.
Il caso turnisti
Le Regioni
sono disponibili a fare di tutto per assumere ma ai concorsi si presentano
sempre molti meno professionisti di quelli necessari. Qualcuno punta
sui turnisti, cioè paga liberi professionisti anche 100 euro l’ora, cioè
1.200 euro per un turno di notte. Si tratta di una pratica che presto dovrà
finire, visto che in un decreto di maggio si è previsto che debba concludersi
entro un anno. Ma non sono da escludere proroghe, visto che in alcune Regioni
il sistema si regge sui turnisti.
Niente spazio nei reparti
Il lavoro è
difficile anche perché il pronto soccorso è diventato un punto di riferimento
per i cittadini, pure quelli che hanno problemi lievi,che si potrebbero
risolvere altrove e cioè sul territorio. L’iper afflusso, anche di casi banali,
rende il lavoro più difficile. Ma il presidente di Simeu Fabio De Iaco sottolinea
un’altra criticità, che ha a che fare anche con quello che sta succedendo a Tor
Vergata in questi giorni. Si tratta del cosiddetto “boarding”.
Nei reparti
di degenza spesso non si trova posto per chi ha bisogno del ricovero e quindi
la persona interessata rimane parcheggiata anche molto a lungo nei corridoi o
nelle stanze del pronto soccorso. E’ questa la causa forse più importante del
sovraffollamento, visto che i pazienti con problemi banali rappresentano un
problema soprattutto per se stessi, visto che sono spesso costretti a una lunga
attesa prima di essere visitati.
La sanità allo sfascio e lo sciopero generale: se non ora, quando? - Gianluigi Trianni
La Cgil – Area Stato Sociale e Diritti ha redatto e diffuso, in occasione della
manifestazione nazionale del 7 ottobre scorso, un documento dal titolo “Salute
e Sanità – Verso la legge di Bilancio” (https://volerelaluna.it/materiali/2023/10/11/salute-e-sanita-verso-la-legge-di-bilancio/), frutto della convergenza con centinaia di
associazioni di scopo (una per tutte, in ambito sanitario, Medicina
Democratica). È un documento basato su robuste fonti documentali, con
importantissime analisi e proposte, qua e là, a mio parere, “perfettibili”, ma
sempre condivisibili per “direzione” politica e sindacale.
Tra le cose “perfettibili”, c’è la questione della entità del finanziamento del Fondo Sanitario
Nazionale. La
richiesta di «aumentare il finanziamento pubblico, oltre a quanto già previsto,
di almeno 5 miliardi l’anno, per i prossimi 10 anni» avanzata nel
documento CGIL, pur politicamente significativa e positiva, è insufficiente
a coprire le necessità minime per il mantenimento in vita del Servizio Sanitario Nazionale. Solo per l’insieme degli incrementi
di personale e dei rinnovi contrattuali di tutte le professionalità necessari
per dare dignità retributiva e rispetto dei diritti contrattuali – e quindi
fermare l’esodo verso il privato e verso l’estero – il fabbisogno è superiore
ai 4-5 miliardi (come segnala C.
Palermo, Presidente Anaao su Fanpage.it.), e lo è – segnalo – col sistema organizzativo
quali-quantitativo del Servizio Sanitario attuale, che eroga direttamente solo
attorno al 60% delle prestazioni per acuti e meno del 25% delle prestazioni per
lungo-assistenza e riabilitazione (Istat 2022). Non è certo un Servizio Sanitario che garantisca la
“copertura universale” (come pure è nella sua mission, per
il combinato disposto della Costituzione e
della legge n. 833/1978) e che lo faccia secondo i modelli
organizzativi più recenti, all’insegna delle tre integrazioni
Ospedale-Territorio, Sanità-Sociale, Assistenza-Ricerca (Universitaria e del
SSN).
Per gli amanti delle
percentuali segnalo che l’incremento dei 134,734 miliardi del 2023 con (insufficienti)
5 miliardi per il 2024, porterebbe la dotazione 2024 a 139,734 miliardi e
la spesa sanitaria dal 6,2% al 6,5% del Pil 2024. Con l’aumento invece di 10 miliardi, come alcuni hanno proposto, si arriverebbe a
144,734 miliardi e al 6,7% del Pil. In entrambi casi si sarebbe
sotto la soglia del 7% del Fondo Sanitario
Nazionale, da molti indicata
opportuna sino a pochi anni fa, con la quale si arriverebbe per il 2024 a poco
oltre i 150,005 miliardi,
con un incremento, di poco oltre i 17 miliardi.
Tali incrementi sarebbero comunque inferiori a quello di circa 27 miliardi di
euro in più all’anno per raggiungere il livello della spesa media dell’Eurozona
(a parità di potere d’acquisto), e agli 80 miliardi necessari per raggiungere
la spesa pro-capite della Germania, stimati da Cgil!
Senza
adeguati investimenti non
ci si può sottrarre allo sfascio del Servizio Sanitario Nazionale a fronte dello
sofferenze di milioni di persone (Istat 2023) e al contemporaneo espandersi in
Italia del mercato sanitario e socioassistenziale, caratterizzato dallo
shopping e dagli investimenti della finanza francese (Korian), della finanza
araba (Gruppo San Donato) di quella americana (Cinven) delle banche e delle
assicurazioni italiane, di De Benedetti e dei capitali del Bahrain (KOS), di
Unipol (S. Agostino), degli Elkan/Agnelli (Exor Lifenet) e di quant’altre
espressioni del private equity,
senza contare i ricatti di Big Pharma sui farmaci e la privatizzazione
multinazionale delle farmacie (cfr. Emilia Romagna), con la bufala del loro
essere in
collegamento (spoke)
con i presidi della medicina territoriale nel contesto della collaborazione
pubblico-privato. Non si può lasciare che “i buoi scappino dalla stalla “, e
poi piangere sull’impotenza dello Stato
italiano ad arginare la pressione sul Pil della
spesa sanitaria privatizzata e finanziarizzata (giunta, in Usa, al 18% del Pil: Ocse
2023) e quella sulle istituzioni democratiche della “privatocrazia”.
Di fronte a queste
esigenze, lo scorso 3 ottobre a
Torino, al “Festival delle Regioni e delle Province autonome”, il ministro Giorgetti è stato autorizzato a procedere con i tagli in
bilancio 2024 dalla
presidente G. Meloni che è ricorsa, con la consueta
irridente retorica, a un argomento sino a qualche tempo fa di moda anche in ambito medico: «Un
sistema sanitario efficace è l’obiettivo di tutti, però sarebbe miope
concentrare tutta la discussione sull’aumento delle risorse. Bisogna avere un
approccio più profondo anche su come vengono spese. Non basta necessariamente
spendere di più per risolvere i problemi se poi i fondi vengono usati in modo
inefficiente». Se si aggiunge
l’ulteriore dichiarazione, anch’essa irridente ed eversiva della realtà del Serzizio
Sanitario regionalizzato secondo
cui «l’autonomia regionale proseguirà senza stop: è
l’occasione per costruire un’Italia più unita», ce n’è a sufficienza per uno sciopero generale: per
ottenere ben più di ulteriori 5 miliardi, per
idonee politiche fiscali e di bilancio (altroché
flat tax, esenzioni dei superprofitti delle banche, delle multinazionali anche
sanitarie e della finanza e 2% per la spesa militare) e contro
l’autonomia regionale differenziata.
Sanità, la
grande fuga - Michele Bocci
Stipendi bassi, ritmi
disumani e poca sicurezza. E ora anche i primari scappano all’estero o nel
privato
Se ne vanno. Lasciano
il servizio pubblico per quello privato, oppure si fanno mettere
in reparti meno pesanti, perché non riescono più a reggere i ritmi di lavoro.
Magari hanno problemi con i vertici della loro azienda o semplicemente hanno
deciso che è arrivato il momento di lavorare meno e guadagnare di più. Così si
spostano in una clinica privata. I dati non lasciano dubbi: nel 2021 erano
usciti prima del tempo 2.700 camici bianchi, l’anno scorso il numero è salito a
ben 4.000 e quest’anno si viaggia verso i 5.000. Un
numero che ormai fa concorrenza ai pensionamenti.
Chi ha detto addio
Solo nelle ultime settimane in
Veneto tre primari di radiologia hanno detto basta, così come ha fatto un loro
collega che dirigeva una ginecologia. All’ospedale di Merate, in Lombardia, ha
lasciato, seguendo altri colleghi che hanno fatto la stessa scelta, il
direttore dell’ortopedia, a Voghera un altro radiologo. Poi ci sono state le
dimissioni del capo del pronto soccorso del Rummo di Benevento, e di quello di
Agrigento, quest’estate. Sono
solo alcuni esempi, che tra l’altro riguardano figure di vertice, di
una grave crisi della professione che riguarda anche medici di famiglia,
pediatri e altri specialisti. Un esodo a cui si aggiunge il flop dei bandi per
le scuole di specializzazione, con almeno 6 mila borse non assegnate, e quindi
andate perdute, quest’anno.
Le ragioni di chi scappa
Il dato sulla fuga degli
ospedalieri lo ha raccolto, incrociando i numeri del Conto annuale dello Stato
e di Onaosi (l’ente previdenziale e assistenziale dei camici bianchi) l’Anaao,
principale sindacato di settore. Dei 4 mila che se ne sono andati nel 2022,
prima del pensionamento, non è chiaro quanti abbiano scelto l’estero e quanti
si siano spostati nel privato. «I problemi sono tre: stipendi bassi, mancanza
di sicurezza dovuta al rischio di contenzioso e pure alle violenze di qualche
paziente o suo parente, mancanza di tempo o condizioni di lavoro disumane».
C’è una novità, fa notare il
sindacalista, e potrebbe essere un duro colpo per la manovra del 2024. «Il
governo promette più soldi in busta paga ma siamo di fronte a colleghi che
probabilmente lascerebbero comunque: hanno raggiunto il punto di non ritorno,
perché è stato tolto loro il tempo vita». Tra i reparti più in crisi ci sono,
com’è noto, i pronto soccorso. In tanti li hanno lasciati in questi anni. Ma ci
sono anche casi di dottori che si mettono a fare i freelance e tornano a
occuparsi di emergenza, magari a gettone.
La programmazione fallita
Perché siamo arrivati a questa
situazione? Il peccato originale sono stati gli errori di programmazione degli
anni scorsi. In passato si sono formati troppi pochi medici per fronteggiare
l’onda dei pensionamenti. In questo modo gli organici si sono ridotti e in
certi reparti il lavoro è diventato pesantissimo, cosa che, in un circolo
vizioso devastante per il nostro sistema sanitario, ha spinto molti ad
andarsene ben prima della conclusione della carriera pubblica.
Nel 2020, rispetto a 4.500 borse
utilizzate, sono andati via in 5.000. Ma anche negli anni, come il 2024, nei
quali gli specializzandi sono di più dei pensionabili, ci sono comunque
problemi. Il fatto è che non tutti coloro che finiscono il percorso di
specializzazione poi lavorano nel pubblico. Anzi, tanti vanno a lavorare nel
privato oppure all’estero. E poi alle uscite bisogna aggiungere anche i 4 mila
e più che, come abbiamo visto, lasciano prima della pensione.
I medici ospedalieri sono circa 102
mila in Italia e secondo Anaao oggi ne mancano 15 mila. Ci vorrà ancora tempo
prima di recuperare. Le cose dovrebbero migliorare nel 2026-2027, quando sarà
passata la gobba pensionistica e entreranno più specializzandi, quelli che
hanno cominciato a studiare nel 2021-2022 quando è cominciato l’aumento delle
borse. Per questo i sindacati si oppongono all’eliminazione del numero chiuso
di medicina, stimando che nel 2030 la tendenza sarà ormai invertita e ci
saranno tanti camici bianchi specializzati.
Ma il grande problema non è tanto
il numero totale di professionisti bensì lo scarso interesse che c’è da parte
dei giovani per alcune specialità come il pronto soccorso, l’anestesia e la
chirurgia. Far entrare più persone all’università darebbe una mano a riempire i
vuoti nei settori più in crisi.
La crisi dei medici di famiglia
Per i medici di famiglia, e anche
per i pediatri di libera scelta, il futuro è difficile e a farne le spese
saranno i cittadini. Nel loro caso i posti del corso triennale regionale
necessario a esercitare la professione non compensano le uscite per i
pensionamenti. Va un po’ meglio nell’ultimo periodo, grazie ai fondi del Pnrr. «In
sei anni abbiamo perso 6 mila medici, oggi siamo 39 mila in tutto», spiegano
dalla Fimmg, il principale sindacato della categoria che prevede un futuro nero
per la categoria.
Già adesso le Regioni convenzionano
i giovani dottori prima che concludano il tirocinio. In più è stata data la
possibilità di aumentare il numero degli assistiti, da un massimo di 1.500 a
1.800, per non lasciare persone senza il medico. Ovviamente, con tanti
pazienti, magari in zone isolate, riuscire a essere disponibili per tutti è
difficilissimo. Cosa che ancora una volta si riflette negativamente sui
pazienti.
Il chirurgo di Agrigento: “Lascio il
pubblico col cuore a pezzi ma ora nel privato tornerò a vivere”
Giovanni Palmisciano fino
al primo novembre rimarrà alla guida dell’ortopedia dell’ospedale San Giovanni
di Dio di Agrigento. Poi passerà al privato.
Da quanto tempo lavorava
nel pubblico?
«Da sempre. Prima lavoravo nel
Palermitano, da 18 anni sono dirigente medico al San Giovanni, direttore
facente funzioni da 3 anni».
Perché lascia?
«La mia decisione è stata
particolarmente sofferta, mai avrei immaginato di arrivare a questo punto. Il
sovraccarico di lavoro, i turni massacranti, ben oltre le direttive del
contratto collettivo, le carenze di organico, un numero di ore di reperibilità
di gran lunga superiore a quelle previste, sono state le cause che mi hanno
spinto a rassegnare a malincuore le dimissioni. Il benessere psicofisico, la
serenità e la lucidità sono condizioni imprescindibili per esercitare la
professione del chirurgo. Quando vengono meno è impossibile mantenere standard
elevati».
Come mai tantissimi camici
bianchi lasciano il pubblico?
«In linea di massima, ritengo che
le ragioni siano pressoché uguali nei vari ambiti della sanità pubblica. È
evidente come sia quanto mai urgente una riforma dell’intero sistema sanitario
nazionale».
Di cosa si occuperà da ora
in avanti?
«Continuerò a fare quello che ho
sempre fatto e che amo fare, ma con ritmi più umani, in una clinica privata».
Come si fa a rendere di
nuovo attrattiva la professione del medico?
«Il primo passo è sbloccare il
numero chiuso a Medicina. Tutte queste restrizioni danneggiano il sistema sul
breve e sul lungo periodo, il risultato è che poi siamo costretti a reclutare
medici dall’estero, quando tanti giovani italiani vorrebbero lavorare nel loro
Paese».
Il suo è un addio o un
giorno potrebbe tornare a lavorare per la sanità pubblica?
«Adesso non sono proprio in grado
di dirlo. Sicuramente lascio nel reparto un pezzo del mio cuore e sono grato a
tutti quelli che hanno lavorato con me in questi ultimi 18 anni. Senza di loro
non avrei mai raggiunto certi risultati. Per ora viviamo il presente».
Il medico di famiglia di Napoli: “Non
prendo in giro i miei pazienti: la burocrazia uccide, vado in pensione” - Giuseppe
Del Bello
Stanco e deluso, Angelo Costantino
si è sfilato il camice a 63 anni. Ne ha passati 39 da medico di famiglia a
Napoli. «Mio padre era poliziotto, ho studiato molto per fare questa
professione. E quando sono arrivato al traguardo, ne fui felice perché credevo
di poter aiutare il prossimo, ma adesso basta. Non ce la facevo più».
Ha lasciato molto prima dei
70 anni.
«Avrei potuto esercitare per altri
8 anni, ma la professione era diventata insostenibile. Mi è costato molto. In
termini economici, perché ho dovuto sborsare migliaia di euro per riscattare 11
mesi di contributi, e psicologici perché non è facile dire addio a un’attività
di sacrifici e passione. Ma mi stava uccidendo».
Parola grossa, la
professione la stava uccidendo?
«Avevo perso anche il sonno. La
burocrazia ha irrimediabilmente minato la deontologia. Bisogna rispettare
l’etica della professione verso gli assistiti, e questo non era più possibile».
Si spieghi.
«Le faccio un esempio. Tra i miei
pazienti avevo una donna di 50 anni affetta da tumore alla mammella in fase
iniziale. Doveva fare una Pet, esame costoso ma indispensabile per individuare
precocemente eventuali lesioni. Ebbene, oggi un medico di famiglia non può
prescriverla se non in determinate condizioni».
E lei non gliel’ha
prescritta?
«Io no, ma per fortunata
coincidenza il giorno che la paziente venne in studio c’era il mio sostituto:
ignaro delle regole, prescrisse l’esame che si rivelò fondamentale per la
sopravvivenza della donna. Cose di questo genere turbano profondamente la coscienza
perché la burocrazia si insinua anche nelle banalità quotidiane».
In che modo?
«Mal di denti, mestruazioni
dolorose, cefalea, roba per le quali è indicata la Nimesulide, ma è un farmaco
che il Ssn per risparmiare concede solo in casi specifici. Ed è duro dire di
no, così salta il rapporto di fiducia tra dottore e pazienti».
Lei è ancora giovane, cosa
farà adesso?
«Sono anche cardiologo, per ora ho
rifiutato varie offerte e ho cancellato la partita Iva. Voglio pensare a me,
sono ancora troppo stressato».
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