articoli di Nora Hoppe, Eliana Riva, Michele Giorgio, Agata Iacono, Youssef Taby, Davide Malacaria e Ramona Wadi (ripresi da lantidiplomatico.it, it.insideover.com, pagineesteri.it, invictapalestina.org e ilfattoquotidiano.it), con un disegno di Mr Fish
Israele ha bloccato l’ingresso di tutti gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza presso il campo profughi di Jabalia nella Striscia di Gaza l’11 marzo 2025 (Mahmoud İssa – Agenzia Anadolu)
Il Modello Umanitario è mortale quanto il Genocidio – Ramona Wadi
Per Israele, i palestinesi vengono uccisi in nome della Colonizzazione. Il resto del mondo e il suo Modello Umanitario hanno reso i palestinesi pedine nel loro ipocrita tentativo di salvare l’ultima Impresa Coloniale.
Come Israele cancella i palestinesi da Gaza nel suo depravato Genocidio, la comunità internazionale potrebbe risparmiarci tutta la sua retorica ipocrita di “preoccupazione”, “profonda inquietudine”, “deplorazione” e “catastrofe”. La comunità internazionale è comodamente adagiata nella sua complicità, e il paradigma umanitario non è altro che una sua facciata.
Nel frattempo, il mondo è stato intrattenuto con altre orribili riprese in diretta del Genocidio di Israele a Gaza: palestinesi fatti saltare in aria mentre le bombe colpivano edifici civili a Gaza. Ciò che stiamo vedendo va oltre la capacità mentale dell’immaginazione. A meno che l’immaginazione non sia abbastanza depravata da essere collegata alla violenza Coloniale e al Genocidio, ovviamente.
Solo poche settimane fa, la comunità internazionale, con l’Unione Europea al timone, stava orgogliosamente prendendo le distanze dal cosiddetto “Progetto Riviera” dell’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, avendo trovato la sua nicchia di ricostruzione nel piano proposto dall’Egitto. La presunta contesa con il Piano di Trump era lo spostamento forzato dei palestinesi da Gaza.
Migliaia di cadaveri dopo, mentre Israele annunciava i suoi “negoziati sotto attacco” come una novità politica, sebbene ciò sia ben lontano dalla verità, la comunità internazionale ha rivolto la sua attenzione alla Carestia a Gaza. Secondo Jonathan Whittall, il capo facente funzioni dell’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati (UN.OCHA): “Come operatori umanitari non possiamo accettare che i civili palestinesi siano Disumanizzati al punto da essere in qualche modo indegni di sopravvivere e la sopravvivenza delle persone dipende da un sistema di aiuti che è esso stesso sotto attacco”.
L’affermazione non è del tutto corretta. La sopravvivenza delle persone dipende da un cambiamento nella politica che alla fine renderebbe gli aiuti umanitari realizzabili a causa della loro natura temporanea, come originariamente pianificato. Gli aiuti umanitari non possono competere con il Colonialismo e il Genocidio; non possono nemmeno livellare la discrepanza tra la violenza e le sue ripercussioni e l’alleviamento del dolore perpetuo. Ciò che Gaza ha vissuto va oltre le difficoltà. Solo la retorica internazionale ha reso Gaza gestibile in termini di aiuti umanitari, il che a sua volta ha concesso a Israele ulteriore spazio per Colonizzare tramite Genocidio.
Gli operatori umanitari potrebbero non accettare la Disumanizzazione: Israele ha preso di mira molti operatori umanitari a Gaza. Ma gli operatori umanitari fanno parte di un sistema che dipende dalle atrocità, persino dal Genocidio, per funzionare perché questo è ciò che la comunità internazionale ha stabilito. Proprio come la preoccupazione, gli aiuti umanitari non hanno più una propria definizione. Tutti questi termini, una volta coniati per almeno una parziale parvenza di ordine, sono ora imprigionati nel modello che funziona per i leader mondiali, non per i civili le cui vite sono state distrutte dagli stessi poteri che fingono l’equivalenza tra il presunto diritto di Israele a difendersi e gli aiuti umanitari.
Gli aiuti umanitari non salveranno i palestinesi dall’essere fatti saltare in aria dalle bombe. Come minimo e dato il contesto del Genocidio, nutriranno i palestinesi fino a quando la prossima bomba non li ucciderà. Le lamentele della comunità internazionale sul rifiuto di Israele di far entrare gli aiuti umanitari a Gaza non hanno nulla a che fare con i palestinesi e tutto a che fare con la politica di Complicità nel Genocidio. Dal momento che la comunità internazionale ha tacitamente accettato il Genocidio e non è ancora pronta ad ammetterlo apertamente, deve continuare la sua farsa attraverso il modello umanitario. Salvare vite per poi ucciderle ha il suo macabro posizionamento in un mondo che produce armi e fa affidamento su di esse per il predominio.
Il Genocidio non può essere impedito dagli aiuti umanitari. Gli aiuti umanitari sono il servizio logico di fornitura che aiuta a sostenere una popolazione se l’atrocità stessa cessa. Perché non si mette in discussione la disparità su cui i leader mondiali fanno affidamento per mantenere la loro facciata di preoccupazione? Naturalmente, questa preoccupazione inventata non si estende ai molti metodi diversi che Israele ci mostra di avere per uccidere i palestinesi.
Non è inquietante che siamo arrivati a un punto in cui vedere corpi volare in aria diventa una cosa normale? I palestinesi sono stati bruciati vivi nelle loro tende e fatti a pezzi, non è abbastanza? Genocidio è solo una parola di nove lettere da sorvolare? Non ha implicazioni, nemmeno umanitarie? Un vero umanitarismo sarebbe rimasto inorridito dai filmati, dai lamenti strazianti degli osservatori indifesi a Gaza.
La Germania, che è il più grande fornitore di armi per Israele dopo gli Stati Uniti e il principale fornitore nell’Unione Europea, ha donato 45 milioni di euro all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Impiego dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) a marzo di quest’anno. Il commissario dell’UNRWA Philippe Lazzarini ha espresso gratitudine per “la solidarietà della Germania con l’UNRWA”, applaudendola come: “Prova del suo impegno nel contribuire allo sviluppo umano dei rifugiati palestinesi e al loro diritto a una vita dignitosa”.
Se la Germania fosse veramente impegnata a consentire ai palestinesi di vivere una vita dignitosa, fornirebbe armi a Israele? E perché l’UNRWA rivendica la neutralità quando è politicizzata come i suoi donatori la costringono a essere? La solidarietà della Germania è con il Modello Umanitario che fornisce la necessaria patina di fedeltà politica a Israele; lo stesso vale per la maggior parte della comunità internazionale.
Gli operatori umanitari si stanno rapidamente preoccupando per la propria immagine, intrappolati come sono dai finanziamenti dei donatori degli stessi Paesi Complici del Genocidio. La dissoluzione del significato di parole che un tempo avevano un significato ha sconvolto ogni ordine. I leader mondiali hanno deciso cosa significano ora gli aiuti umanitari: un intervallo prima che i civili vengano uccisi. È anormale finanziare il Genocidio e gli aiuti umanitari, ma la politica neutrale lo ha reso non solo possibile, ma normalizzato al punto che si può a malapena dichiararne l’illegittimità. L’assurdo è atroce e l’atroce è assurdo. I palestinesi vengono uccisi in modi che ci fanno pensare, senza essere in grado di comprendere, in che modo verranno uccisi la prossima volta? E perché?
Per Israele, i palestinesi vengono uccisi in nome della Colonizzazione. Il resto del mondo e il suo Modello Umanitario hanno reso i palestinesi pedine nel loro ipocrita tentativo di salvare l’ultima Impresa Coloniale.
L’equazione che resta ai palestinesi è di essere uccisi in nome della Colonizzazione israeliana e degli aiuti umanitari internazionali con tutti i mezzi possibili, anche se quella clausola inizialmente si applicava alla Resistenza anti-Coloniale nel Diritto Internazionale.
Questa è l’eredità della comunità internazionale e per ciò che verrà ricordata: la sua posizione pro-Genocidio in nome di un’ideologia che presumibilmente ha giurato di sradicare.
Ramona Wadi è una ricercatrice e giornalista indipendente recensora di libri e blogger. I suoi scritti coprono una serie di temi in relazione a Palestina, Cile e America Latina.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
Cosa significa progresso umano oggi? – Nora Hoppe
Il fatto che il nostro pianeta, ai giorni nostri, sia dimora di un genocidio – visibile a tutti gli esseri umani su dispositivi personali in tutto il mondo – un abominio in corso, non ostacolato da nessun organismo internazionale, da nessuna organizzazione intergovernativa e nemmeno da quei nobili Stati che proclamano di voler costruire un mondo nuovo e più giusto… la dice lunga sulla nostra evoluzione come specie e potenzialmente sul futuro della nostra civiltà.
Ci troviamo ora di fronte a una biforcazione: un cammino chiaro e largo porta alla distruzione e alla rovina; l’altro dovrebbe condurre a un mondo nuovo e armonioso… ma è tortuosa, sassosa, vaga e avvolta nella nebbia.
Come una vittima frenetica nelle sabbie mobili, che agita invano le braccia, la frenesia di un Impero in declino non fa che accelerare la propria fine. Ha scelto la strada che porta alla rovina e al proprio suicidio… e ha molti seguaci, soprattutto nella sua appendice morbosa – l’entità sionista – e nel resto del mondo occidentale. I sintomi di questa pulsione necrotica sono visibili nelle Guerre Eterne; un sistema economico che si autodistrugge, basato su un’avidità insaziabile e su un’ignoranza ostinata; la distruzione della società, della famiglia, dei rituali e delle tradizioni; e, essenzialmente, un disprezzo totale per tutto ciò che è naturale e vivente… Questi segni nascono da uno stato di malcontento e di paura permanente, che alla fine conduce all’autodistruzione.
E ora… anche se l’Egemone di oggi, gli Stati Uniti – costruiti sul genocidio e sulla schiavitù – hanno scatenato innumerevoli guerre fin dalla loro nascita, e l’Europa ha massacrato e saccheggiato il pianeta per oltre 500 anni a causa della sua infinita rapacità… non è più solo una questione di geografia. Il nocciolo del problema della nostra civiltà umana oggi è la mentalità occidentale e il sistema del capitalismo finanziarizzato, che hanno infettato in varia misura tutto il mondo… con solo poche eccezioni.
La maggior parte della Maggioranza Mondiale rimane incapace di liberarsi dal giogo dell’Occidente colonialista a causa della corruzione, della dipendenza, delle pressioni sociali e della mancanza di sostegno da parte degli Stati per illuminare i cittadini sul proprio passato e sulla propria storia.
La mitizzazione e l’emulazione del mondo occidentale sono diventate così profondamente radicate nel midollo di molti per così tanti secoli… che un processo di decolonizzazione richiederà tanto tempo. E poco è stato fatto ufficialmente a questo scopo. I promettenti Stati BRICS+ si concentrano principalmente sul commercio, sulla crescita economica e sull’innovazione hi-tech.
Per evitare il cammino occidentale verso la devastazione e la rovina della società e per liberare l’altro cammino dalla nebbia, noi della Maggioranza Globale dobbiamo fare chiarezza in molti settori… Potremmo dover apportare cambiamenti sismici al nostro modo di pensare. Possiamo iniziare mettendo in discussione le nostre definizioni di termini fondamentali… Come ad esempio: cos’è lo “sviluppo”, cos’è la “crescita”, cos’è la ‘prosperità’, cos’è il “progresso”? Non tutta la crescita è vantaggiosa, come nel caso delle metastasi maligne. La “crescita positiva” oggi si riferisce principalmente a questioni monetarie – PIL, RNL, PPA. Che cos’è il “progresso”? Il progresso oggi si riferisce soprattutto alle innovazioni tecnologiche. E certamente è indispensabile che i popoli escano dalla povertà, come è riuscita a fare la Cina… ma qual è il tipo di “prosperità” che l’umanità vorrebbe raggiungere?
Oggi, in questo mondo postmoderno, si parla poco di sviluppo, crescita, prosperità e progresso per quanto riguarda le questioni immateriali…
Non sono solo l’istruzione, le arti e le culture del mondo ad essere cadute in stagnazione, ma ovviamente anche l’etica e i sistemi di valori di interi Stati e società… per non parlare della coscienza della maggior parte dell’Umanità.
In quale altro modo un genocidio potrebbe diventare un luogo comune? In quale altro modo le atrocità potrebbero diventare uno spettacolo quotidiano tollerabile in tutto il mondo? In quale altro modo due leader genocidiali possono incontrarsi e parlare così avidamente dei loro “piani immobiliari” per il loro campo di concentramento come se stessero avendo una normale conversazione? In quale altro modo saremmo potuti diventare tutti un pubblico globale per una carestia orchestrata? In quale altro modo così tanti stati europei e l’Autorità di controllo delle frontiere dell’UE “Frontex” potrebbero diventare i clienti di armi “testate in combattimento” (“testate” a Gaza) da Elbit Systems (“la più grande azienda di armi di Israele”) che produce droni di sorveglianza e torrette telecomandate per veicoli corazzati per consentire ai soldati europei di evitare responsabilità e una cattiva coscienza quando i rifugiati presi di mira vengono uccisi da tecnici anonimi situati in uffici remoti? In quale altro modo i paesi europei possono permettere che i loro storici episodi di genocidio contro gli ebrei siano “rivisti” e mistificati dall’entità sionista per vantaggi commerciali israeliani? In quale altro modo il diritto internazionale potrebbe essere calpestato senza opporre resistenza? In quale altro modo potrebbero diventare accettabili le mendacità seriali e la costante violazione delle costituzioni e degli accordi? In quale altro modo i cittadini di quegli Stati, che vantano la loro “libertà di espressione” e i “valori occidentali”, potrebbero permettere ai loro Stati di arrivare al punto in cui ora criminalizzano i manifestanti per aver difeso i diritti umani?
A parte le persone coinvolte direttamente nelle battaglie per la loro sopravvivenza (a Gaza, in Siria, in Libano e altrove), i coraggiosi soldati che combattono contro il nazismo, i giornalisti impegnati che rischiano la vita sui fronti e gli attivisti che rischiano la loro professione per protestare contro il genocidio… dov’è il resto del mondo?
Alcuni Stati condannano il genocidio in corso ma non intraprendono alcuna azione, perché… perché è… complicato.
Eppure… abbiamo un’eccezione: gli Ansarallah dello Yemen. Non c’è nulla di complicato nella loro azione risoluta: è semplicemente una questione di priorità.
Perché la maggioranza di un popolo di uno dei Paesi più poveri (forse il più povero) della Terra dovrebbe dedicare la maggior parte delle proprie energie, delle proprie scarse risorse e delle proprie convinzioni a rischiare la vita per difendere un altro popolo, che non è direttamente imparentato con loro e che si trova in un Paese lontano (si stima a 2.270 chilometri di distanza)? Cosa unisce queste persone in questo obiettivo? E quali potrebbero essere le LORO definizioni di “sviluppo”, “crescita”, “prosperità” e “progresso”?
Crocevia di varie civiltà da almeno 7.000 anni, la grande civiltà dello Yemen ha conosciuto, nel corso dei secoli, innumerevoli invasioni, feroci battaglie, dinastie usurpatrici e occupazioni coloniali da parte di coloro che hanno continuamente cercato di saccheggiare, conquistare e controllare questo territorio prezioso, altamente sviluppato, ricco di risorse e “geograficamente ottimale”.
Negli anni ’90, dopo un lungo periodo di difficoltà economiche dovute in parte alla persistente oppressione saudita e in particolare al rifiuto dello Yemen di unirsi alla coalizione militare statunitense-saudita contro l’Iraq, nel nord dello Yemen è emerso un movimento di base Zaidi, noto come Muntada al-Shabab al-Mu’min (“Gioventù credente”) – che ha offerto programmi sociali alla popolazione impoverita della regione. Il movimento, che ha avuto successo, è cresciuto e si è presto trasformato negli Ansarallah (“Sostenitori di Dio”) che hanno combattuto sei guerre contro il regime di Saleh, sostenuto dai sauditi e dall’Occidente, tra il 2004 e il 2010…
Oggi, nonostante decenni di privazioni, gli Ansarallah rimangono imperterriti nei loro obiettivi di giustizia, nella loro lotta per la liberazione della Palestina e per il miglioramento del proprio Paese. Per raggiungere questi obiettivi, non hanno bisogno di “prosperità monetaria” e di uno Stato finanziarizzato. In tutte le loro operazioni mostrano solidarietà e unità tra di loro. Non si lasciano intimidire. Sono pronti a morire per le loro convinzioni e i loro principi.
Nei loro discorsi e discussioni filmati, il comportamento degli Ansarallah è visibilmente segnato da fiducia, serenità, grazia, equilibrio, modestia… Durante la Terza Conferenza Internazionale “La Palestina, causa centrale della Nazione”, hanno dato prova di gentilezza, generosità e ospitalità nell’accogliere gli ospiti stranieri, anche verso quelli provenienti da “Stati ostili”.
Da soli, hanno sconvolto le dinamiche del potere marittimo globale. Affidandosi all’esperienza dei propri specialisti, producono armi da soli… Il principale acquirente di armi del Pentagono degli Stati Uniti, Bill LaPlante, ha espresso allarme per la sofisticatezza di queste armi: “Quello che ho visto di ciò che Ansar Allah ha fatto negli ultimi sei mesi è scioccante.”
Nel suo articolo Fattori dietro la valorosa resistenza dello Yemen, il giornalista e analista politico Ayman Ahmed descrive come gli Ansarallah “siano riusciti a modificare le tattiche militari convenzionali in modi molto non convenzionali” adottando un approccio orientato alla guerriglia: muovendosi a piedi su terreni ostili in piccoli gruppi mobili, con i loro capigruppo che spesso improvvisavano tattiche sul posto e usando poco o nessun dispositivo elettronico… “Il loro uso di droni in operazioni quasi di guerriglia evidenzia come gli yemeniti siano riusciti a bloccare le difese aeree saudite da miliardi di dollari…” […] “Il regime saudita non è stato in grado di ottenere alcuna vittoria militare importante, nonostante possieda grandi scorte di armi fornite dai principali mercanti di armi del mondo”.
Ma la loro risorsa più forte di tutte è la loro motivazione e determinazione nel perseguire “una vita dignitosa e uno standard di vita per i cittadini yemeniti, la protezione dell’indipendenza della nazione e la ricerca della pace nel mondo e di un’appropriata cooperazione paritaria con gli altri paesi del mondo” – come scritto nella loro “Visione nazionale per il moderno Stato yemenita“. Con questo, hanno conquistato il sostegno delle masse in tutti i segmenti della società.
Come ha scritto qui Rune Agerhus, analista politico e membro della Commissione Internazionale per la Solidarietà con lo Yemen: “Ciò che Ansarallah è riuscita a stabilire, di fronte alla guerra, alla fame e a un blocco paralizzante, è un sistema che potrebbe essere meglio descritto come simile all’autogestione operaia jugoslava” […] “I terreni agricoli e la produzione sono controllati dalle cooperative, che sono interamente di proprietà e amministrate dai contadini dello Yemen.” La difesa dello Yemen nel suo complesso si combatte su due fronti: “il fronte di battaglia e il fronte dello sviluppo”.
Il sistema adottato dall’Ansarallah è l’antitesi del capitalismo contemporaneo. (Da non dimenticare: lo Yemen ha già avuto esperienza con il socialismo quando il suo territorio meridionale – uno stato separato nel 1967-1990 – alla fine formò un governo marxista-leninista dopo decenni di rapace dominio coloniale britannico sulla regione).
Nel nostro mondo globalizzato, postmoderno, ossessionato dalla tecnologia, dominato dalle norme occidentali, dai tecnocrati e dal Mercato e guidato da un’ignoranza della storia e da una limitazione del ragionamento indipendente, gli Ansarallah sembrano a molti arretrati e selvaggi nel peggiore dei casi, strambi ed esotici nel migliore dei casi…
Persone diverse possono avere opinioni diverse sull’Ansarallah e le giudicheranno di conseguenza… ma le AZIONI intraprese da queste persone in difesa di un altro popolo che sta subendo un genocidio, soprattutto in considerazione delle loro circostanze, parlano da sole… più forte di qualsiasi bella parola.
Il 10 aprile 2025, sotto gli incessanti bombardamenti del barbaro Egemone, il leader di Ansarallah Sayyed Abdul-Malik al-Houthi ha rivolto un altro appello urgente al mondo… di venire in aiuto del popolo palestinese e di prendere coscienza della nostra responsabilità etica come parte di un’umanità collettiva. Chi sta ascoltando? Dov’è la “comunità mondiale”?
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Dopo tanti millenni di civiltà umana, qual è il “progresso” che stiamo facendo come specie nella nostra epoca moderna?
Oltre 6500 palestinesi costrette a lavorare negli insediamenti israeliani. Salari bassi e nessun contratto – Youssef Taby
Secondo il rapporto realizzato da Oxfam questi luoghi di lavoro sono una forma di “sfruttamento sistemico”. Lì le donne subiscono innumerevoli violazioni: dalle molestie ai furti salariali
“Usciamo di casa alle tre del mattino e passiamo da una a due ore ai posti di blocco. A volte ci vogliono anche cinque ore per raggiungere l’insediamento. Qualche volta ci rimandano indietro”. Mariam ha 19 anni, vive in Cisgiordania e lavora in un insediamento israeliano illegale. Come lei, ogni giorno oltre 6.500 donne palestinesi attraversano checkpoint militari, strade isolate e aree recintate per raggiungere luoghi di lavoro che, secondo Oxfam, incarnano una forma di sfruttamento sistemico.
Un rapporto pubblicato a marzo 2025 dalla ong, in collaborazione con il Palestine Economic Policy Research Institute e Mother School Society, descrive un sistema economico fondato su una dipendenza forzata. Le politiche israeliane nei territori occupati – confisca di terre, demolizione di case, controllo delle risorse naturali e restrizioni alla libertà di movimento – hanno progressivamente eroso ogni possibilità di vita e lavoro all’interno delle comunità palestinesi. In questo contesto, molte donne si ritrovano senza alternative.
“Lavorare in un insediamento era terrificante per me, ma non c’erano altre opportunità”, racconta Wafaa, 53 anni. Non si tratta di una scelta, ma di una necessità. La disoccupazione femminile in Cisgiordania ha raggiunto il 35 per cento, mentre il Pil dei territori palestinesi occupati è crollato del 32 per cento in un solo anno. Parallelamente il numero di checkpoint è aumentato del 20 per cento tra ottobre 2023 e febbraio 2024, passando da 567 a 700. Ogni spostamento è soggetto a controlli e rallentamenti. Le lavoratrici raccontano di lunghe attese, respingimenti, perquisizioni e, in alcuni casi, minacce e umiliazioni.
Chi riesce a raggiungere il luogo di lavoro, lavora senza contratto e per salari bassissimi: meno di 100 shekel al giorno, poco più di 25 euro. Il 94 per cento non ha un contratto. Il 93 lavora in condizioni definite “non sicure”: campi agricoli esposti a pesticidi tossici, fabbriche con macchinari privi di protezioni, capannoni sovraffollati e senza aerazione. Più del 70 per cento affronta turni prolungati, spesso su due fasce orarie – mattina presto e sera tardi – per coprire il fabbisogno familiare. In molti casi, il salario di queste donne è l’unica entrata economica: il 60 per cento dichiara di essere la principale, o l’unica, fonte di reddito del nucleo. “Lavoro nell’insediamento da 8 anni. Sono l’unica fonte di sostentamento per la mia famiglia. Finanziariamente, la situazione è difficile e mio marito è disoccupato. Se nessuno lavora, chi si occupa delle spese domestiche?”, racconta Dalal, 43 anni, residente nella Valle del Giordano. Una zona in cui 12.800 coloni israeliani controllano il 95 per cento del territorio, mentre 60mila palestinesi vivono confinati nel 5% restante, spesso senza accesso ad acqua, mercati o mezzi di trasporto. Nei villaggi di Al-Jiftlik e Al-Zubeidat, oltre la metà della forza lavoro femminile è impiegata negli insediamenti.
Oltre alle difficoltà economiche, molte denunciano violazioni sul posto di lavoro: furti salariali, mancato pagamento di indennità promesse e discriminazioni razziali e di genere. Alcune riportano molestie sessuali e, in casi estremi, aggressioni fisiche. Il potere dei coloni è descritto come totale: possono decidere accessi, stipendi, licenziamenti e bloccare permessi. “Vorrei questo tipo di lavoro fuori dalla mia vita”, afferma ancora Mariam. Ma secondo il report, la possibilità di un’alternativa è sempre più remota. Il numero di donne palestinesi impiegate negli insediamenti è quintuplicato: erano meno dello 0,7% nel 2018, sono il 3,4% oggi. Molte di loro lavoravano un tempo per imprese palestinesi — aziende agricole, laboratori artigianali e piccole manifatture — ma queste attività sono state chiuse o rese impraticabili da vincoli burocratici, militari e logistici. Chi resta senza terra, senza strumenti e senza sbocchi viene spinto verso il solo sistema economico ancora accessibile: quello degli insediamenti.
Secondo Oxfam, la dipendenza economica dal sistema degli insediamenti non è accidentale: è l’esito di una strategia strutturata. Le donne palestinesi, infatti, non solo subiscono le conseguenze dell’occupazione, ma sono costrette ad alimentare – senza alternativa – l’economia dei coloni. Eppure, molte di loro esprimono il desiderio di uscire da questa condizione. Vorrebbero coltivare la propria terra, aprire piccole imprese e lavorare nei villaggi d’origine. Ma, come sottolinea Oxfam, servono accesso al credito, infrastrutture, libertà di movimento e stabilità per emanciparle da un sistema che le rende invisibili.
Rafah rasa al suolo, i palestinesi muoiono di fame ad al-Mawasi – Eliana Riva
Non si fermano gli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza. Ieri l’esercito ha colpito l’ospedale al-Ahli di Gaza City, l’ultimo ancora attivo nel nord della Striscia. A medici e pazienti è stato lasciato un breve lasso di tempo per evacuare. I feriti più gravi, che sono stati staccati da respiratori, ossigeno e altri macchinari medici per essere trasportati all’esterno della struttura. Almeno un paziente, un bambino di dodici anni, Yousef Abu Sakran, è morto al freddo. Secondo la testimonianza rilasciata da un medico alla rete al-Jazeera, sono almeno tre i palestinesi feriti che hanno perso la vita a causa dell’evacuazione. L’ospedale è stato bombardato almeno due volte, diversi reparti e l’ingresso sono stati distrutti, rendendo la struttura inagibile. Tel Aviv ha dichiarato di aver attaccato un “centro di comando” di Hamas, senza fornire prove a riguardo. L’ospedale era già stato bombardato nell’ottobre del 2023. Dall’inizio della guerra Israele ha colpito almeno 35 ospedali a Gaza.
Sempre ieri l’esercito ha colpito a Deir al-Balah un’automobile su cui viaggiavano sei persone, sei fratelli della famiglia Abu Mahadi, tutti morti sul colpo. Questa mattina è stato bombardato un centro umanitario delle Nazioni Unite a Khan Younis, circondato da profughi nelle tende.
Venerdì il ministro della Difesa Israel Katz ha comunicato che l’accerchiamento di Rafah è completo. La città che ospitava, prima della guerra, più di 200mila abitanti, è stata svuotata con la forza, bombardata, distrutta e trasformata in quella che l’esercito chiama “zona di sicurezza israeliana”, ossia una gigantesca area sotto occupazione militare. Prosegue la distruzione di tutte o quasi le strutture presenti nell’area, sistematicamente rase al suolo. L’accerchiamento è stato possibile grazie al completamento dell’asse Morag, che prende il nome da un’ex colonia israeliana presente nell’area prima del ritiro del 2005. Ora Rafah è completamente separata da Khan Younis e dal resto della Striscia. Un altro corridoio, Netzarim, divide il centro dal nord di Gaza, mentre il corridoio Filadelfia la separa dal confine con l’Egitto. La “zona cuscinetto”, descritta dagli ex militari israeliani nel rapporto della Ong Breaking the silence come una “kill zone”, si allunga per più di un chilometro e mezzo dal confine israeliano fin dentro Gaza.
Katz ha fatto anche sapere che l’esercito intensificherà i suoi attacchi. Nuovi ordine di evacuazione sono stati emessi e alla popolazione è stato ordinato di dirigersi verso la zona di al-Mawasi, che è diventata un campo-tende per sfollati in cui si vive in condizioni disumane. Le agenzie internazionali hanno denunciato la mancanza di cibo e di acqua che porta le persone a morire di una “morte lenta”, attanagliati da malattie, infezioni dovute a carenza di igiene, fame e bombardamenti, che proseguono anche sulle tende dei profughi. Oggi diverse persone, tra cui bambini, sono rimasti ferite, alcune in maniera grave, in un attacco, domenica una persona è stata uccisa. Il riferimento di Katz al piano del presidente Trump e allo sfollamento verso altri Paesi, conferma una strategia precisa: occupare e sfollare la maggior parte di Gaza, rendere quella degli abitanti una non-vita e costringerli così ad emigrare, mascherando la pulizia etnica con l’allontanamento “volontario”.
Il progetto, fortemente voluto dal premier Netanyahu, si sta realizzando dopo la ripresa degli attacchi, quando Israele ha deciso di interrompere il cessate il fuoco e di non proseguire la seconda fase dei negoziati, come precedentemente sottoscritto. La sostituzione del capo di stato maggiore Herzl Halevi, indigesto a Netanyahu, con il fidato e controllabile Eyal Zamir, insieme al piano della “riviera di Gaza” lanciato da Trump, ha dato ad esercito e governo il via libera per l’occupazione permanente di larghe aree del territorio. Israele e Stati Uniti stanno lavorando per trovare Paesi disposti a ricevere i palestinesi che verrebbero cacciati dalla Striscia. In cambio propongono vantaggi politici e militari che alcuni governi potrebbero scegliere di cogliere.
Domenica Netanyahu ha dichiarato, parlando con i genitori di uno degli israeliani detenuti da Hamas a Gaza, che Israele sta trattando per il rilascio di dieci ostaggi. Hamas ha confermato oggi di aver ricevuto una proposta. Secondo i media arabi, Hamas avrebbe accettato di rilasciare nove ostaggi in cambio di una tregua temporanea e la liberazione di prigionieri palestinesi. Israele avrebbe proposto un piano di partenza con la liberazione di 10 ostaggi. Il quotidiano israeliano Haaretz ha fatto sapere che Qatar ed Egitto starebbero lavorando insieme agli Stati Uniti per fare in modo che qualsiasi proposta di rilascio ostaggi includa un processo per giungere a un cessate il fuoco definitivo. Ma Israele al momento non pare interessato a un ritiro e anzi sta lavorando alla costruzione a Gaza di infrastrutture militari per il controllo permanente. Un’inchiesta pubblicata dalla CNN, citando fonti negoziali riporta una brusca frenata nei colloqui. La nomina di un confidente del premier Netanyahu, il ministro per gli affari strategici Ron Dermer, a capo della squadra negoziale, ha portato a un cambio di priorità. «I negoziatori sembrano essere politicizzati», ha spiegato la fonte.
L’offensiva di Israele non risparmia l’acqua: Gaza ha sete e muore lentamente – Michele Giorgio
(foto Unicef/El Baba)
A Gaza l’acqua è un bene quasi introvabile. Soprattutto al nord martoriato dai bombardamenti. La rete idrica è stata gravemente danneggiata a Shajaiya, sobborgo orientale di Gaza city, teatro in questi ultimi giorni di una delle incursioni devastanti lanciate dall’esercito israeliano in vari punti di Gaza. Forniva il 70% dell’acqua potabile agli abitanti del capoluogo. Ma l’acqua è poca ovunque nella Striscia. Ormai non resta che camminare tra le macerie, sulle strade piene di fango con la pioggia e di polvere nelle giornate asciutte, e aspettare in fila per ore ai punti di distribuzione il proprio turno per riempiere una tanica, sperando di non restare uccisi nei raid aerei. I 18 mesi di offensiva israeliana contro Gaza sono segnati anche dalle stragi di chi aspettava acqua e cibo. E alla paura si aggiungono la frustrazione e l’ansia di non riuscire a procurarsi da bere e da mangiare. I litigi sono sempre frequenti tra chi è disperato. Chi non ha forza e pazienza beve acqua sporca o raccoglie la pioggia nel migliore dei casi.
Da sette settimane non entrano aiuti umanitari a Gaza. Le autorità locali hanno lanciato ieri un altro appello per l’ingresso immediato di generi di prima necessità. Israele però non allenta la morsa e blocca gli aiuti pensando che questa pressione costringerà Hamas a liberare gli ostaggi. Assieme alla fame, la sete è l’altro spettro che la popolazione affronta da tempo. E dovrà farlo ancora di più nei prossimi mesi. Con la fine della stagione fredda e l’inizio di quella più calda, bere sarà una sfida quotidiana. «Aspetto l’acqua da stamattina», ha raccontato Fatena Abu Hamdan di Zaitun a un reporter locale «non ci sono stazioni di servizio né autocisterne in arrivo. Non c’è acqua. I valichi sono chiusi». Adel Al Hourani, di Khan Yunis, è uno dei tanti anziani che accompagnano alle autocisterne i bambini piccoli con in mano bottiglie di plastica vuote da riempire. «Percorro lunghe distanze – dice – mi stanco, sono vecchio, è difficile camminare tanto ogni giorno per prendere l’acqua». Husni Mhana, del Comune di Gaza, non nasconde la gravità della situazione: «Stiamo vivendo una vera e propria crisi di sete. Rischiamo una catastrofe se non cambierà la situazione e avremo a disposizione più acqua».
La crisi idrica ha superato la soglia dell’emergenza per diventare un crimine umanitario, denunciano i palestinesi e varie parti internazionali. La mancanza d’acqua è solo l’ultima delle privazioni inflitte a una popolazione intrappolata tra un assedio militare e il collasso di ogni servizio. La sete diffusa dice che persino un diritto fondamentale, poter bere, non è riconosciuto da chi portava avanti una guerra senza fine, ufficialmente contro Hamas e per la liberazione degli ostaggi, che però pagano i civili. Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ha parlato apertamente di crimine di guerra. «Israele ha tagliato l’acqua come ha tagliato l’ingresso degli aiuti, bombardato le cliniche, assediato i civili. Nulla è stato risparmiato, nemmeno la sete». Il suo predecessore, Michael Lynk, ha dichiarato che «la negazione dell’accesso all’acqua a un’intera popolazione sotto assedio costituisce una violazione gravissima del diritto internazionale umanitario».
La decisione di Israele di interrompere l’erogazione di energia elettrica nella Striscia e la mancanza di carburante limita fortemente le operazioni di desalinizzazione. A gennaio, l’unico impianto ancora operativo nel nord della Striscia è stato colpito da un raid aereo. «Abbiamo chiesto ripetutamente che venisse riallacciato alla rete elettrica» ha spiegato Juliette Touma, portavoce dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi boicottata da Israele, «senza energia non possiamo desalinizzare, senza desalinizzazione la gente beve acqua contaminata e questo uccide lentamente». Poi a marzo è stata tagliata l’elettricità all’impianto nel sud, che funzionava già a capacità ridotta. Rosalia Bollen, funzionaria dell’Unicef a Gaza, ha avvertito che 600.000 persone che avevano riacquistato l’accesso all’acqua potabile nel novembre 2024 sono nuovamente isolate. Le agenzie delle Nazioni unite stimano che 1,8 milioni di persone, di cui oltre la metà bambini, abbiano urgente bisogno di acqua, servizi igienici e assistenza igienico-sanitaria mentre i livelli di approvvigionamento sono scesi a una media di 3-5 litri pro capite al giorno. Ben al di sotto dei 15 litri considerati il minimo vitale in situazioni d’emergenza secondo l’Oms. Secondo un rapporto della ong internazionale Oxfam sui crimini di guerra legati all’acqua, la popolazione di Gaza aveva accesso a 82,7 litri a persona al giorno prima del 7 ottobre 2023. Ora la città di Rafah, praticamente rasa al suolo nelle ultime settimane, ha meno del 5% di quella quantità e i governatorati della Striscia di Gaza settentrionale hanno meno del 7%, ovvero 5,7 litri a persona al giorno.
Secondo un’inchiesta dell’agenzia Reuters, l’85% delle infrastrutture idriche di Gaza è inservibile. Più di 1.700 chilometri di condutture sono stati distrutti o danneggiati. I pozzi sono contaminati. Gli impianti di desalinizzazione hanno ridotto la loro capacità di produzione da 18.000 a soli 3.000 metri cubi al giorno. L’acqua non basta nemmeno per gli ospedali. «Non siamo più in grado di garantire acqua potabile a nessuno, neppure ai feriti. E ogni giorno riceviamo centinaia di segnalazioni di bambini ammalati per aver bevuto acqua sporca», racconta Suhail al Astal del comune di Khan Yunis. Il rischio di malattie infettive si è moltiplicato. Il ministero della Sanità di Gaza ha registrato tra febbraio e aprile oltre 46.000 nuovi casi settimanali di diarrea acuta, infezioni intestinali e patologie legate alla contaminazione idrica.
Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
Il New York Times ha ottenuto i referti autoptici di 14 dei 15 paramedici assassinati da Israele – Agata Iacono
Dovrebbe essere questa l’apertura di tutti i TG.
Il New York Times ha ottenuto i referti autoptici di 14 delle 15 persone uccise nell’attacco israeliano del 23 marzo contro un’ambulanza e un’autopompa a Gaza.
I referti mostrano che la maggior parte delle vittime – paramedici e soccorritori – è stata uccisa da colpi d’arma da fuoco alla testa, al petto o alla schiena.
Quattro sono stati colpiti direttamente alla testa, cioè sono stati giustiziati. Altri presentano colpi di armi da fuoco in pieno petto o alla schiena e ferite da schegge.
Nonostante indossassero uniformi mediche e viaggiassero su veicoli contrassegnati con sirene, sono stati colpiti più volte a distanza ravvicinata.
Alcuni presentano, benché i cadaveri siano in decomposizione, segni di ferite ai polsi: questo suggerisce che siano stati legati prima dell’esecuzione a freddo.
Israele ha inizialmente mentito sul crimine commesso, per poi cambiare più volte versione, senza mai assumersi la responsabilità, una volta smascherate le menzogne.
Tra le 15 vittime figurano 14 soccorritori umanitari e un dipendente delle Nazioni Unite.
I soldati israeliani hanno seppellito i corpi in una fossa comune e hanno distrutto e seppellito le ambulanze, l’autopompa e il veicolo delle Nazioni Unite.
Il più autorevole organismo ebraico della Gran Bretagna chiede la fine della guerra contro i palestinesi – Davide Malacaria (Piccolenote.it)
Una presa di posizione forte la lettera firmata da decine di esponenti del Board of Deputies of British Jews, il più importante organismo ebraico della Gran Bretagna (e secondo per antichità solo all’Initiation Society). La lettera aperta, pubblicata sul Financial Times del 16 aprile, condanna senza mezzi termini le brutalità che si consumano contro i palestinesi, a Gaza e in Cisgiordania, e lamenta come, a causa della scelta delle armi rispetto alla diplomazia, gli ostaggi non siano ancora stati liberati, oltre a stigmatizzare la deriva estremista del governo.
Occorre sottolineare che la dichiarazione di Balfour, la missiva nella quale il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour impegnava il governo di Sua Maestà a creare un focolaio ebraico in Palestina, considerata di fatto l’atto fondativo dello Stato di Israele, fu indirizzata al presidente del Board of Deputies of British Jews, Lord Walter Rothschild. Da cui si può dedurre l’autorevolezza della presa di posizione attuale. Più che tardiva, certo, ma meglio tardi che mai.
Scriviamo in qualità di rappresentanti della comunità ebraica britannica, spinti dall’amore per Israele e dalla profonda preoccupazione per il suo futuro. La tendenza a distogliere lo sguardo è forte, perché ciò che sta accadendo è insopportabile, ma i nostri valori ebraici ci spingono a prendere posizione e a parlare apertamente.
Ecco cosa vediamo: gli ultimi 18 mesi di guerra straziante ci hanno dimostrato che il modo più efficace per riportare a casa gli ostaggi e creare una pace duratura è attraverso la diplomazia. Alla fine della prima fase del secondo accordo sul cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, 135 ostaggi erano stati rilasciati tramite negoziati, solo otto con azioni militari e almeno tre sono stati tragicamente uccisi dalle Forze di Difesa Israeliane.
America, Qatar ed Egitto si sono nuovamente assunti la responsabilità di garantire la liberazione di tutti gli ostaggi rimasti nella seconda fase di questo accordo, in cambio del ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza. Un solido piano per la ricostruzione di Gaza è stato approvato e sostenuto dalla comunità internazionale, da gestire sotto la guida di una leadership palestinese, che rappresenterebbe una valida alternativa ad Hamas, finanziato dalla Lega Araba.
In quel momento, il governo israeliano scelse invece di rompere il cessate il fuoco e tornare in guerra a Gaza con l’”offensiva di Itamar”, così chiamata perché era la condizione posta da Itamar Ben-Gvir per il ritorno nella coalizione, consentendo così l’approvazione del bilancio del governo israeliano entro la scadenza ravvicinata necessaria per evitare le elezioni.
Da allora, nessun ostaggio è tornato. Centinaia e centinaia di altri palestinesi sono stati uccisi; cibo, carburante e forniture mediche sono stati nuovamente bloccati all’ingresso a Gaza; e siamo di nuovo piombati in una guerra brutale dove l’uccisione di 15 paramedici e la loro sepoltura in una fossa comune è di nuovo possibile e rischia di essere la normalità.
Simili incidenti sono troppo dolorosi e scioccanti da accettare, ma sappiamo in cuor nostro che non possiamo chiudere gli occhi o rimanere in silenzio di fronte a questa rinnovata perdita di vite umane e di mezzi di sussistenza, mentre le speranze di una riconciliazione pacifica e il ritorno a casa degli ostaggi si stanno esaurendo.
Il più estremista dei governi israeliani sta apertamente incoraggiando la violenza contro i palestinesi in Cisgiordania, strangolando l’economia palestinese e costruendo più insediamenti che mai. Questo estremismo prende di mira anche la democrazia israeliana, con l’indipendenza del sistema giudiziario nuovamente sotto feroce attacco, la polizia sempre più simile a una milizia e leggi repressive in atto, mentre un populismo partigiano provocatorio sta profondamente dividendo la società israeliana.
L’anima di Israele viene strappata via e noi, membri del Board of Deputies of British Jews, temiamo per il futuro dell’Israele che amiamo e con cui abbiamo così stretti legami. Il silenzio è visto come un sostegno a politiche e azioni contrarie ai nostri valori ebraici. Guidati dalle famiglie degli ostaggi, centinaia di migliaia di israeliani stanno manifestando in piazza contro il ritorno in guerra di un governo israeliano che non ha dato priorità al ritorno degli ostaggi.
Siamo al loro fianco. Siamo contro la guerra. Riconosciamo e piangiamo la perdita delle vite umane palestinesi. Aneliamo al “giorno dopo” di questo conflitto, quando la riconciliazione potrà avere inizio. Mentre celebriamo la festa della libertà con così tanti ostaggi ancora in cattività, è nostro dovere, come ebrei, far sentire la nostra voce.






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