In dialogo con Francesco Ottonello
[E’ appena uscita per Mondadori la nuova edizione
di Lingua di falce di Gavino Ledda, a cura di Francesco Ottonello.
Proponiamo un’intervista di Ottonello a Ledda che fa da postfazione al volume].
FRANCESCO OTTONELLO Propongo di iniziare con
una domanda schietta. In che modo il Gavino Ledda di oggi, dopo mezzo secolo,
vede il Gavino Ledda di allora, autore dei romanzi Padre padrone e Lingua
di falce?
GAVINO LEDDA Li ritengo ancora validi e attuali,
perché abbiamo moltissimo bisogno di amare la terra e l’agricoltura più di
quanto, probabilmente, non ne avevamo quando li scrissi e videro la luce. È una
cosa impressionante quanto l’uomo si sia allontanato dalla terra. Quindi li ho
riproposti a Mondadori come sono usciti nel 1975 (Padre padrone),
nel 1977 (Lingua di falce) – e poi nel 1995 (I cimenti dell’agnello)
– senza nemmeno rivederli. L’ideale sarebbe stato “ripassarci come scrittore”,
ossia rifarli, però – in altre faccende affaccendato – questo non mi è stato
possibile. Questa condizione mi dà la possibilità di crearmi una barriera che
mi difende per almeno altri due anni, prima di uscire con un libro nuovo a cui
sto lavorando dal 1998, un “Padre padrone rimodulato”. Lingua di
falce prosegue la narrazione di Padre padrone, sebbene in
modo più riflessivo e corale. È possibile quindi che i libri siano
stati scritti nello stesso arco di tempo, oppure Lingua di falce nasce
successivamente? Sì, in un primo tempo avevo concepito un libro
unico, che diedi alla Feltrinelli. Dopo un braccio di ferro, l’editore mi
impose di fermarmi alla pagina con la partenza per Salerno. Quando la
Feltrinelli mi disse “fermiamoci a Salerno” mi fece male: avevo pensato di non
firmare… A me Padre padrone la Feltrinelli non l’ha lasciato
finire. Lavorandoci ancora due anni lo avremmo avuto molto più bello, molto più
profondo di quanto non lo abbiamo adesso. L’editore, una volta visto il
dattiloscritto, non vedeva l’ora di pubblicarlo e, nonostante le mie
insistenze, lo ha pubblicato così com’era. Per me era immaturo, lo considero
addirittura un’opera incompiuta. Lingua di falce, quindi, è stato
rifatto successivamente. È riflessivo perché ci sono due anni di lavoro in più
e c’è la coscienza di fare un altro volume. Il libro inizia con un sogno, un
fantasma poetico diverso. All’inizio questa partenza per Salerno era soltanto
accennata, perché era ancora il corpo di un libro. Dovendo diventare l’incipit di
un altro libro è chiaro che dovevano esserci nuove fondamenta: sono andato in
profondità in quel punto perché dovevo fabbricare un grattacielo, un nuraghe.
Ti ringrazio, Gavino, per avermi permesso di fornire
per la prima volta una cronologia dettagliata dell’arco narrativo della tua
opera attraverso il confronto avvenuto durante alcune telefonate. Perché, in
effetti, alcuni conti non mi tornavano. In uno specifico passaggio di Lingua di falce dici di
avere venticinque anni…
In Lingua di falce, quando parlo del
ritiro delle lastre per l’ulcera, siamo nel febbraio del 1963 e poco prima
ricordo di essere venticinquenne, per approssimazione. Sono entrato nei
venticinque anni, che in realtà compio il 30 dicembre 1963. Anche nella prima
pagina di Padre padrone compare un errore nella datazione: la
mia prima volta tra i banchi di scuola risale al 7 gennaio 1945, e non al 1944,
come appare nell’incipit del romanzo.
Quando hai iniziato a concepire la tua opera e quali
sono state le tue prime letture?
Ho cominciato a pensare di scrivere Padre
padrone nel 1970, a “gestarlo”, nel senso di maternità, ma era una
gestazione già avvenuta in ventre hominis, era un atto dovuto a me
stesso. Padre padrone inizia dallo strappo dalla scuola del
1945. Quindi, una volta finito il divagamento ferino di Baddevrústana, nel 1961
ho superato la licenza media a Pisa nella scuola “Renato Fucini”: vestito da
sergente, perché non avevo voglia di vestirmi in borghese. Al tempo ero
artigliere nel reggimento di artiglieria contraerea pesante presso piazza dei
Miracoli, a ottanta metri. Ho saputo un mese dopo, d’estate, al campo di
istruzione a Ravenna, che ero stato promosso. Poi, nel 1962, anno in cui inizia
il racconto di Lingua di falce, mi sono congedato. Già nel campo a
Ravenna leggevo Il fuoco di D’Annunzio, ogni giorno quattro o
cinque pagine: facevo l’elenco delle parole che non capivo, poi la notte le
guardavo nel vocabolario, e così ho imparato molte parole; della trama non mi
interessava, anche perché lo trovavo troppo difficile per il me di
allora. Il fuoco mi è capitato per caso. Come primo libro ho
letto l’Iliade di Omero, poi l’Odissea, poi Dante, Petrarca,
Boccaccio, poi sicuramente Machiavelli e Leopardi. Tutti gli altri libri li ho
letti dopo.
Ma io sapevo da sempre che avrei vissuto di parole. Lo
sapevo da quando ero pastore, lo sapevo prima della terza media, del ginnasio e
del liceo. Fino alla laurea alla Sapienza di Roma (dicembre 1969) ho tenuto
gelosamente questo segreto dentro di me e non l’ho detto nemmeno a me stesso,
non ho provato a scrivere una sillaba. Una volta laureato, nell’estate del
1970, ho provato a interrogarmi in silenzio, ma prima di prendere la penna e
rispondere alle domande ci ho pensato ancora. Ho cominciato a rispondere a
queste domande nel settembre del 1970. Sapevo che avrei dovuto scrivere, mi
toccava, mi spettava. Le interrogazioni a me stesso consistevano nel trovare la
motivazione etica, morale, sociale e soprattutto storica per cui avrei dovuto
scrivere. Dopo avere risposto a queste domande – ad alcune anche per iscritto
–, ho pensato che avrei dovuto realizzare non un saggio, ma un libro narrativo.
Quindi hai sviluppato una precisa modalità di
scrittura?
Quando mi metto a scrivere non so che cosa devo
scrivere, preferisco non saperlo: mi siedo, scrivo e lo so solo quando finisco
e mi alzo dopo quattro ore. Cosa è uscito? Ecco, questo. Mi devo sorprendere e,
se non mi succede, non sono contento. Quello che scrivo domani io non lo so,
preferisco non saperlo. Quando scrivo dalle dieci alle due, magari la prima
sorpresa c’è alle undici, poi un’altra a mezzogiorno, poi un’altra ancora
all’una e mezza. Se non ci sono, significa che non ho scritto bene.
In Lingua di falce rendi conto di alcuni rituali
sardi, in cui la vivacità del racconto dell’esperienza personale è arricchita
dalla riflessione antropologica, compiuta in un tempo successivo più maturo.
Nella tua opera mi sembra che non compaia un senso di nostalgia. Adesso,
invece, provi un sentimento in qualche modo nostalgico verso un mondo rituale
che, quasi, non esiste più?
Per me la parola “nostalgia” non esiste, perché sono
talmente cresciuto e maturo da essere in grado di descrivere qualsiasi rito in
maniera distaccata. Prendiamo ad esempio il rito delle acque per come lo
immagino io, che avveniva ad Antas oppure a Santa Cristina oppure presso le
sorgenti – sembra che in Sardegna praticamente si adorasse solo l’acqua:
l’acqua per me non è più come era l’acqua per quella gente che la adorava tremila,
quattromila anni fa. L’acqua per me è un’altra cosa, senza una notazione così
irrazionale. Io adesso sono fisico, sono chimico. Ma non ricordo se in Lingua
di falce ero già così distaccato.
Sì, usi proprio l’espressione «linguaggio della
scienza», di cui ti volevi appropriare. Poi metti a confronto la medicina
scientifica con quella spontanea sarda, ad esempio parli di tia Fiorentina e di
vari rimedi tradizionali come quello dei pidocchi. Penso che siano tutte storie
autentiche, non è vero?
Sia in Lingua di falce sia nel
film Ybris ho inserito qualche rito che mi interessava, ma un
po’ anche “per fare cinema”. Poi il fatto che i pidocchi di testa guariscano
l’ulcera è una cosa veramente ridicola, no? Oggi lo racconterei per
ridicolizzare quel mondo, finalmente. Tia Fiorentina, se mi ricordo bene, mi ha
curato però quando ero malato da bambino con il decotto di malva. Nella sua
ignoranza, riconosco che aveva ragione, perché la stessa scienza oggi direbbe
di farsi un bel decotto di malva, purché questa malva sia colta da una terra
sana, non contaminata. Tutte le superstizioni andrebbero quindi filtrate
attraverso la scienza.
Ma certi rituali come sa correddada sono descritti
realisticamente? Io, purtroppo, non l’ho mai conosciuta. Se non ho capito male,
si tratta di una festa rituale celebrata in occasione di un matrimonio tra
persone rimaste vedove, coinvolge tutto il paese e prevede una chiassata di
bande di giovani celibi. Durante questa festa volavano davvero motteggi osceni
e battute licenziose? Mi hanno ricordato lo spirito carnascialesco e quelle
forme comico-teatrali arcaiche del mondo etrusco e latino come i fescennini.
Io ho raccontato attraverso i fatti, perché questo,
secondo me, era corretto allora e forse lo è sempre. Oggi, certo, li racconterei
diversamente. Ancora adesso, se si dovessero sposare due vedovi a Siligo e a
Banari, la “scornellata” sarebbe doppia. Basta anche un vedovo per sa
correddada ma in Lingua di falce e in Ybris erano
due i vedovi, quindi era una festa doppia. La festa aveva un senso apotropaico
per fugare le corna. Siccome i cornuti erano anche i morti, nella piazza
sopraggiungono il marito e la moglie morti. La bellezza di questo dramma è che
si svolge a quattro: tra due vivi e due defunti. In Lingua di
falce ci sono due spiriti, mentre in Ybris c’è tutta
la folla: siccome tutti bevono dalla stessa botte, appare un espediente
drammaturgico per cui alla fine questo vino si incorpora nel paese. Diventano
tutti spiriti, però si alternano: ora parlano da spiriti, ora parlano da
paesani.
Tieni presente che questi non andavano a vedere
Plauto, era tutto calato nella realtà. Sicuramente la letteratura aveva attinto
– come sempre – dal popolo, per cui, se trovassimo qualcosa in comune con una
commedia o addirittura con il dramma satiresco greco, io non mi sorprenderei
per niente. I pastori sardi e i pastori omerici, anche se erano lontani e non
si sono mai incontrati, sempre avevano in comune la pecora, le vacche, gli
animali, l’ambiente. Sai, molte cose succedono indipendentemente, perché
l’ambiente è lo stesso: tra l’ovile di Ulisse e quello mio, di Abramo, sono
convinto che non c’era nessuna differenza, se non che mio padre era padrone
solo di venti ettari di terreno, mentre Ulisse era un re, o almeno così ci
dicono.
Che differenza rappresentano nel tuo immaginario
Baddevrústana e Nuraggine, termine che appare la prima volta in Lingua di falce?
Baddevrústana ce l’ho solo io in corpo! Nuraggine,
metaforicamente, la avrebbe chiunque: è come una fiaba, un’atmosfera, uno spazio
favoloso dove c’è tutto. Nuraggine doveva rappresentare un topos teatrale
più che fisico-terrestre. Poteva anche significare la Sardegna, ma una storia
se compare su un libro non è più nella terra e il libro è anche teatro. Quindi
Sardegna – o Sardena, come la chiamo io in sardo – indica un fatto
reale-reale, mentre Nuraggine è un piedistallo rispetto a un avvenimento
veramente successo, ed è anche una specie di ponte. Per me serviva a
distinguere la temporaneità dell’evento, da una parte, e il dopo evento in un
luogo che non è più la terra dove è avvenuto. E questo luogo è Nuraggine, che
potrebbe essere qualsiasi parte della Sardegna ma anche qualsiasi teatro. Sa di
fiabesco; oggi direbbero una piattaforma particolare, forse. In effetti,
Nuraggine avrebbe potuto/dovuto titolare l’intera opera, poi si decise di
fermarsi a Salerno: nella prima parte fu Padre padrone a
prevalere, mentre nella seconda, due anni dopo, fu Lingua di
falce a prendersi il titolo. Tuttavia, ancora oggi, Nuraggine
renderebbe giustizia a tutte e due le opere. E cioè: Nuraggine: Padre
padrone e Lingua di falce.
Nuraggine quindi non rappresenta solo la terra sarda,
ma tutta una cultura. Tu dici, però, di essere andato anche contro la morale di
Nuraggine…
Io ho fatto quello che ho sentito di fare. Scomodando
Sofocle, Antigone ha fatto quello che sentiva di fare e paga una hybris troppo
pesante. Io ho studiato con vent’anni di ritardo, però ho studiato: contro
tutti, contro la comunità, se vuoi contro Nuraggine e contro la Sardegna, e ho
pagato con l’ulcera, mentre Antigone ha pagato con l’impiccagione. Perché mi è
venuta l’ulcera? Sicuramente per lo sforzo, non per la vendetta del paese.
Invece, purtroppo, la hybris che subisce Antigone è la
vendetta di Creonte. In ogni caso, Ybris è diverso da Lingua
di falce: è una diceria che si tratti di una versione cinematografica del
romanzo. Finiscono tutti e due con la morte, senza farlo apposta.
Sì, in Lingua di falce ci sono il cimitero e la
tomba, mentre Ybris si conclude con un’immagine del fuoco, che
appare però anche all’inizio…
Con l’immagine del fuoco e della scalata alla
montagna. Ti ricordi che le maschere vanno tutte sul monte? La capanna di fuoco
è sul monte. Tutte le maschere salgono la montagna, su cui ci sono un ovile e
una capanna, e – arrivate alla capanna – tolgono la maschera; altro non sono
che uomini di potere. Tutti facciamo una parte che non avremmo dovuto fare e
quindi siamo in colpa e ci togliamo la maschera. Il fuoco indica che il male va
bruciato, è un altro modo di dire “perdono”. Io ho rivisto Ybris un
paio di anni fa nelle Marche e mi è sembrato migliorato. Le maschere sono il
potere, non sono i folletti. Anche la scena dell’esame di maturità devi vederla
nella soggettiva di Gavino: alla fine gli esaminatori stessi si rendono conto
che sono mascherati, non hanno la maschera con cui li vede Gavino, ma sono
consapevoli che hanno una maschera e che sono tutte balle quelle che
raccontano. È un film molto complicato.
Si tratta di un film altamente simbolico che va sicuramente
decifrato. Mi ha ricordato il «cinema di poesia» di Pasolini, per certi
aspetti. Per lui il cinema doveva avere una forza delle immagini
pre-grammaticale, tipica dell’animalesco e della natura; e poi anche nel cinema
pasoliniano è evidente l’aspetto simbolico.
Però la parola hybris appare anche in Lingua di
falce…
Ybris è in diretta connessione con la cultura pastorale.
Siccome Pasolini era una persona molto istintiva e molto intelligente, magari
c’è qualcosa, se tu lo vedi. Ma è difficile, perché Ybris è
più omerico che pasoliniano: Pasolini non l’avevo nemmeno letto. Sicuramente,
mi sono studiato la parola hybris per qualche mese, prima di
capire bene. Mi sono documentato su cosa volesse dire per Omero e per la
letteratura greca. Prima era una parola molto bella, ma una volta codificata ha
assunto la latitudine semantica che Omero le ha dato, poi si è diversificata
secondo la volontà del potere. Il Creonte c’è sempre, è lui soprattutto che la
pronuncia nella tragedia di Sofocle. In questo caso, però, è Gavino
Ledda. Hybris per me è la forza della natura che si sprigiona,
infatti si dice “natura lussureggiante”, mentre per Omero era la protervia
dell’uomo nei confronti degli dèi. Prima di Omero, la parola hybris voleva
dire la “lussuria della natura”. Una volta nati il potere e la scrittura, il
poeta ha avuto paura e ha voluto indicare la tracotanza contro il potere e
contro gli dèi. È brutto che la si veda così, io ho voluto sfatare ciò.
Che cosa rappresenta invece per te l’espressione
«lingua di falce», anche in opposizione a quello che chiami il «linguaggio
della scienza»?
Lingua di falce è un bel titolo, che voleva dire la
“lingua degli strumenti”. È un elogio allo strumento che ha fatto del bene
all’uomo, in questo caso la falce, ma la falce non è sola. Mio padre mi ha
trasmesso di più altri strumenti dell’agricoltura, come la zappa, la roncola,
il piccone, però la falce è più significativa. Una volta c’è stata la falce con
il martello: questi strumenti, che non avevano nessuna colpa, hanno voluto dire
altro tramite queste bandiere. Anche la scrittura è una falce che miete.
Sono felice che l’editore abbia poi accettato la
soluzione “medaglione-sintesi di autore”: un concetto che mi avevano spiegato i
commilitoni a Pisa nel 1960-1961, quando iniziavo a leggere I promessi
sposi. Il medaglione d’autore indica il cuore dell’opera, nei Promessi
sposi è la monaca di Monza. Non avrei mai pensato di recuperare questo
concetto. Il medaglione inserito in questo libro nasce da un mio disegno, che
dà sfogo alla fantasia dell’autore ed è figlio del linguaggio che inseguo da
trentacinque anni: un linguaggio fluens-patens. La lingua di falce
simboleggia un dubbio curioso, spiraliforme, che esce, domanda e rientra nel
proprio spirito. È una lingua pluridimensionale, così come lo sono le onde
elettromagnetiche che vanno in tutte le direzioni. Il Dubbio Curioso vorrebbe
rappresentare il dubbio proprio della Conoscenza gainica [da “Gainu”, nome in
sardo di Gavino], che, grazie alla Lingua, rientra nella propria coscienza,
alimentato dal Mondo, per ricominciare il proprio ciclo, perché morire,
proprio, non vorrà mai!
Nel libro parli anche del rapporto tra falce e poesia
per il ritmo. Racconti che tuo padre usava recitare versi a memoria,
soprattutto in sardo, poi riporti delle ottave, citi Melchiorre Murenu e infine
Gavinu Còntene. Per te, che cosa ha rappresentato la poesia sarda prima
dell’apprendimento dell’italiano e prima che diventassi scrittore?
Quando facevo il pastore, fino ai diciotto anni, non
sapevo che al di là del muro c’erano poeti e scrittori, perché mio padre non mi
aveva detto niente. È possibile che alcuni pastori li conoscessero, ma non
certo io. Melchiorre Murenu l’ho appreso dal 1962 in poi. Mentre Gavinu Còntene
l’ho scoperto prima di partire militare, perché era venuto un signore a servire
una giornata agricola a mio padre. Sai, queste cose si facevano; nei libri è
più quello che ho omesso che quello che ho messo. Un giorno capitò che un
signore di Siligo doveva servire una giornata di lavoro a mio padre e mio padre
non c’era. Allora avevo quindici, sedici anni, e il signore mi ha raccontato che
a Siligo avevamo un grande poeta, estemporaneo. C’è una grande differenza tra
un poeta estemporaneo e un poeta. Non è che fosse Dario Fo: un grandissimo
giullare e improvvisatore, che però giocava in teatro con le cose su cui si era
preparato molto bene. Questi poeti improvvisatori, invece, facevano una specie
di sfida. Mio padre comunque non mi faceva valicare le mura della nostra terra,
perché se mi trovava da un’altra parte mi dava una bella surra [“bòtte”
in sardo], quindi, se non fosse venuto questo signore a servire questa giornata
perché gliela doveva, non lo avrei scoperto.
Mio padre sapeva molti canti della Divina
commedia a memoria e perché non me li ha mai detti? Questo non l’ho
raccontato nei libri. Secondo me, lui aveva capito che, se a Gavino insegno che
esistono i poeti, o che esiste Manzoni o che esiste Petrarca, magari mi sfugge…
Quindi meglio tenerlo buono e ignorante. In compenso, mi aveva insegnato la
tabellina di Pitagora e il sistema metrico decimale a furor di botte.
Evidentemente, mio padre aveva fatto un calcolo molto pragmatico: forse avrà
pensato che la matematica servisse a sapere quanto un campo è grande, quanto si
deve arare al giorno con un giogo di buoi (un ettaro viene fatto in tre giorni,
sono diecimila metri, se lo fai sei un bravo massaio). Quello che non faceva
parte del lavoro non me l’ha mai insegnato. Era tutto nascosto. La poesia era
pericolosa, e anche la storia.
Quindi tuo padre, la tua famiglia o i tuoi fratelli
non ti hanno aiutato nemmeno successivamente per gli studi e per il
trasferimento a Roma?
Era un egoista mio padre, mi ha fregato. Nel 1965 sono
andato trenta giorni a mietere e non mi ha dato una lira. Era terribile. E dico
“terribile”, perché io sono buono, perdono, però mio padre lì ha sbagliato. È
venuto San Vincenzo e non avevo una lira in tasca, solo mia madre mi dava
qualcosa: cento lire, con cui allora potevi comprare un litro di benzina. Io,
in effetti, non ho fratelli, perché ero una specie di fiera. Non so come
chiamarmi, non certo una donnola o un leone, un uomo abbastanza agreste, selvatico.
Nel 1945 mio padre mi strappa dalla scuola e sto quattro anni in campagna
sempre solo, fino al 1949. Quei quattro anni mi hanno diversificato non solo
dai miei fratelli, ma anche da tutti i bambini.
E come mai i tuoi fratelli non li aveva portati, se
posso chiederlo?
Io sono il più grande, loro li porta nel 1949. Però
quattro anni di divagamento ferino hanno allontanato me dai miei fratelli. Non
ho fratelli e famiglia perché non abbiamo mai familiarizzato. Io sono diverso
da tutti gli altri uomini, si può dire. Per fortuna ogni tanto faccio amicizia,
però sono diverso da un altro uomo. Non voglio rievocare la teoria dell’imprinting e
l’etologia, però evidentemente c’entrano.
Ti capisco. L’ultima domanda che voglio porti ha
proprio a che fare con questo. In Isola aperta ho sostenuto che ognuno di noi è
un’isola, che non deve rimanere però chiusa in se stessa, ma ferirsi e aprirsi
all’altro per connettersi in un “sogno di arcipelaghi”. E questo mi sembra che
possa descrivere anche quello che hai fatto con la tua scrittura, perché ti sei
aperto all’altro per un bisogno di connessione e conoscenza. Tu pensi di essere
un’isola, come uomo e come letterato? Con quali autori o artisti della storia
dell’umanità pensi di sentirti in dialogo?
Quando studiavo potevo essere connesso a Omero, a
Dante, forse ai tragici (a Sofocle) – ma Omero se li mangia tutti! Di Omero
preferisco l’Odissea, di Dante mi piaceva l’Inferno, poi ho
letto I promessi sposi molto bene. In Alfieri riconoscevo una
certa forza, soprattutto nel Saul, ma non mi piaceva come scriveva.
Insomma, io sono un’isola, o forse di più, un nuraghe. A me come scrivono gli
altri non piace, sono diverso e molto. Ho girato Ybris perché
non mi piaceva più nemmeno scrivere come scrivevo, infatti Lingua di
falce avrebbe dovuto essere l’ultimo libro per me. Poi ho trovato un
nuovo modo di scrivere, vent’anni dopo, con Aurum tellus, anche se
non ero del tutto soddisfatto. I cimenti dell’agnello erano
ancora un’altra prova. E poi dal 1998 sto scrivendo una nuova opera che è una
modulazione di Padre padrone. La società che noi abbiamo vissuto e
che ho conosciuto io è “padre padrone”: oggi se ascolti il giornale radio, se
senti la politica, ti rendi conto che questo “padre padrone” è più attuale di
prima. Se modulo “padre padrone” posso cominciare la storia molto prima di
quando ho scritto Padre padrone. Con la modulazione puoi andare
dove vuoi. Quando moduli, l’arco narrativo è quello che vuoi tu. Io per “Padre
padrone modulato” considero la civiltà dell’uomo. Secondo me, il
“padre padrone” è nato molto prima dell’homo sapiens, anche nel
Neanderthal c’era già il potere, in un certo senso. Questo non lo posso
affermare con sicurezza perché non sono un paleontologo, però nel Sapiens c’è
sicuramente, quindi “padre padrone” è un personaggio che ha duecentomila anni.
Il vegetale si accontenta delle radici, l’animale si accontenta dello stomaco,
metaforicamente. L’uomo no. Ha inventato il potere.
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