Dopo più di cinquant’anni i corpi di due
vittime della dittatura sono stati identificati. Dando finalmente alle famiglie
la possibilità di conoscere la loro storia. Che è anche quella del Brasile,
scrive Eliane Brum
Il 16 aprile 2025 è avvenuto un fatto di
enorme importanza. Tutti i giornali brasiliani avrebbero dovuto parlarne in
prima pagina, perché il paese ha bisogno di ricordare, ma non l’hanno fatto. Il
centro di antropologia e archeologia forense dell’università federale di São
Paulo (Unifesp) ha tolto un muratore e un marinaio dalla lista delle persone
scomparse per motivi politici durante la dittatura militare che per più di
vent’anni, dal 1964 al 1985, ha oppresso il Brasile. Il regime ha sequestrato,
torturato e ucciso gli oppositori senza che i responsabili siano mai stati
puniti. Quei crimini sono stati raccontati in Io sono ancora qui,
il primo lungometraggio brasiliano a vincere l’Oscar come miglior film
straniero.
Denis Casemiro e Grenaldo de Jesus Silva,
a differenza di Rubens Paiva (l’ex parlamentare di sinistra di cui il film
racconta la storia), avevano origini umili. La lotta delle loro famiglie per
ottenere giustizia e riparazione è stata quindi molto più difficile e anche
meno riconosciuta di quella della famiglia di Paiva. Allo stesso modo sono meno
riconosciuti e ricordati i più di 8.300 indigeni scomparsi durante il regime
militare e indicati dalla commissione nazionale per la verità.
Dalla fossa comune clandestina Vala do
Perus (scoperta trent’anni fa in un cimitero di São Paulo) sono emersi i resti
di due persone con una storia e con degli affetti. Dopo cinquant’anni le
famiglie di Casemiro, muratore e contadino di Votuporanga a São Paulo, e di De
Jesus Silva, marinaio originario dello stato del Maranhão, hanno dei resti su
cui piangere.
Un unico progetto
La dittatura ci ha lasciato in eredità
anche questo: famiglie che desideravano solo di poter identificare padri,
madri, figli, fratelli uccisi, per avere un corpo da piangere. Fate attenzione
alla dimensione del dolore che la dittatura ha imposto alle brasiliane e ai
brasiliani: non era abbastanza quello della morte violenta voluta dallo stato
né quello dell’assenza. Alcune famiglie sono state condannate a trascorrere più
di mezzo secolo alla ricerca di un corpo, per avere finalmente una lapide.
La violazione dei corpi compiuta dalla
dittatura è legata a doppio filo alla profanazione senza ritorno della foresta
amazzonica. In quegli anni fu avviato il progetto di violare il corpo della
foresta per sfruttarne il sottosuolo, minacciando la vita dell’intero pianeta.
È importante capire che la violazione del corpo degli oppositori nelle città e
quella del corpo della foresta e dei corpi delle popolazioni-foresta non furono
due progetti separati, ma un unico identico progetto. Per questo il numero dei
nativi morti e scomparsi è tanto più alto di quello delle persone non indigene.
E le indagini per capire quanti nativi furono uccisi dalla dittatura sono state
condotte solo tra dieci dei trecento popoli originari del Brasile.
Bisogna dirlo ad alta voce e chiaramente
ogni volta che un corpo è estratto dalle fosse comuni o dai meandri della
foresta. La storia di Denis Casimiro non la conoscevo, ma posso e devo
raccontarvi quella di Grenaldo de Jesus Silva, perché sono stata testimone di
una parte della vicenda. Non del suo omicidio, ma di quello che ha comportato
per il figlio. È anche la storia di come il giornalismo svolge un ruolo unico
nella lotta per la memoria del Brasile, un ruolo che va preservato. Altrimenti
significherebbe scendere a patti con le dittature e i fascismi, e permettere
che gente perversa prenda il potere.
A differenza della maggior parte delle
famiglie vittime della dittatura, Grenaldo Erdmundo da Silva Mesut, il figlio
del marinaio, non coltivava nessuna memoria del passato. Da Silva Mesut non
sapeva cosa fosse stata la dittatura: dietro a quella parola vaga c’era una
storia che non gli diceva nulla. Più avanti, però, mi avrebbe raccontato che
l’assenza di memoria era pesante: una voragine che si intuisce, ma non si sa
come affrontare.
Ricordi sepolti
Nel 2014 la giornalista Tatiana Merlino,
parente di una vittima della dittatura la cui famiglia sta lottando ancora oggi
per avere giustizia, ha coordinato un libro che bisogna leggere. Lanciato dalla
commissione per la verità Rubens Paiva dello stato di São Paulo, s’intitola
“Infância roubada. Crianças atingidas pela ditadura militar no Brasil”
(Infanzia rubata. Bambini segnati dalla dittatura militare in Brasile). Tra
questi ci sono i bambini torturati. “La dittatura ha lasciato innumerevoli
ferite sui figli delle vittime, delle persone scomparse, di chi è stato ucciso,
di chi è finito in carcere: nascere in prigione, essere condotti davanti agli
aguzzini, finire in clandestinità, in esilio, al bando”, ha detto Merlino
quell’anno. “Ci sono storie che fanno orrore: bambini che hanno assistito alla
tortura dei genitori, che sono stati rapiti. Ma quella di Grenaldo Erdmundo da
Silva Mesut mi tocca per la particolare brutalità a cui è stato sottoposto,
cioè la scomparsa e il cancellamento della sua storia. Gli è stato negato
perfino il diritto di poter vivere il dolore di essere figlio di una vittima
del regime. Ben oltre la sottrazione della vita, del corpo, ci sono state le
bugie e la sottrazione della verità. Quali sono state le conseguenze di un
crimine del genere nello sviluppo della sua identità? È questa lacuna, che non
si può misurare, che mi tocca profondamente”, ha concluso Merlino.
Come avevo scritto in un articolo
sull’estinto El País Brasil, che in parte riporto qui, la mia strada ha
incrociato quella di Grenaldo Erdmundo da Silva Mesut in un modo che può
verificarsi solo nella vita reale. Se me la fossi inventata, una storia così fantasiosa
suonerebbe scadente. Durante la campagna elettorale del 2002 lavoravo per la
rivista Época e dovevo raccontare il candidato Luiz Inácio Lula da Silva dal
punto di vista della sua storia personale e familiare. Scrissi vari reportage e
all’inizio del suo mandato come presidente parlai anche della morte di parto
della sua prima moglie, Maria de Lourdes. Morì anche il bambino. Era un
ennesimo dolore per Lula, titolare di una biografia che contiene il dna del
Brasile, un paese che lui in quel momento cominciava a governare con la
promessa di cambiare il destino dei più poveri e le statistiche della mortalità
femminile.
Durante la mia inchiesta scoprii una
curiosa connessione. Il medico che firmò il certificato di morte di Maria de
Lourdes era tra quelli accusati di aver creato certificati falsi negli anni
della dittatura. Sergio Belmiro Acquesta, assolto dal consiglio regionale di
medicina, un anno prima di morire era ancora il responsabile del dipartimento
medico della Villares, l’industria metallurgica dove Lula aveva lavorato come
operaio, e allo stesso tempo era funzionario dell’istituto medico legale di São
Paulo.
Nel mio articolo c’era la foto di due casi
in cui il medico avrebbe avuto un ruolo nel cancellare le responsabilità della
dittatura militare. Uno dei ritratti, formato fototessera, era del marinaio
Grenaldo de Jesus Silva, che nel 1972 dirottò da solo un aereo di linea della
compagnia di bandiera Varig. Dopo aver liberato tutti i passeggeri e la maggior
parte dell’equipaggio, fu arrestato, immobilizzato e ucciso nell’aeroporto di
Congonhas, a São Paulo. Aveva 31 anni. Il giorno dopo i giornali pubblicarono
le veline della dittatura: messo all’angolo, il terrorista si era suicidato.
Trent’anni dopo, il mio articolo fu
pubblicato in copertina e quella piccola foto, più di tutta la storia di Lula e
della moglie, smosse ricordi sepolti. Alcuni giorni dopo José Barazal Alvarez,
63 anni, si mise in contatto con la rivista presentandosi come un ex sergente
specialista dell’aeronautica. A sequestro concluso, era stato incaricato di
stendere il rapporto e raccogliere gli effetti personali del morto. Esaminando
il corpo di Grenaldo de Jesus Silva, raccontò di aver trovato un secondo
proiettile e una lettera insanguinata. Era un biglietto testamento indirizzato
al figlio: prometteva di mettersi in contatto con la famiglia appena fosse
arrivato in Uruguay.
Barazal Alvarez era rimasto in silenzio
per trent’anni, all’epoca non raccontò nulla nemmeno alla moglie. Ma il
fantasma di quella lettera lo tormentava, perché sapeva che da qualche parte
c’era un figlio che non aveva mai potuto leggere le ultime parole del padre, un
gesto così violento da annichilire.
Mi confessò che voleva liberarsi di questo
incubo. Quando aveva visto la foto del marinaio che si era “suicidato” aveva
deciso di mettersi sulle tracce di suo figlio.
Dimenticare
Cominciai anche io a cercare il figlio di
Grenaldo de Jesus Silva. Anche nelle associazioni delle vittime della dittatura
la storia, le circostanze e le motivazioni di un marinaio che dirottò un aereo
da solo erano poco note. Era stato uno dei 1.509 marinai espulsi dalla
corporazione nel 1964 per essere rimasti fedeli al presidente João Goulart,
deposto dai militari. Di questi, 414 furono imprigionati. Lui ricevette la pena
più alta: cinque anni e due mesi. Fuggì e si diede alla clandestinità. Era
tutto ciò che si sapeva, fino alla sua ricomparsa in un aereo della Varig.
Ancora non avevo in mano una pista valida
quando il telefono sulla mia scrivania squillò e una voce di donna mi disse che
il figlio del marinaio voleva parlarmi. Le linee finalmente s’incrociavano e
per un attimo mi mancò il respiro. Quello che era successo era molto comune, e
per questo ancora più tragico. Una donna stava sfogliando distrattamente una
vecchia rivista nella sala d’aspetto del dentista quando l’attenzione si era
fermata su un nome abbastanza insolito. Subito aveva chiamato la sorella: “Leila,
c’è un uomo qui con lo stesso nome di tuo marito. Non sarà suo padre?”. Il
marito di Leila non parlava mai del padre. Era sopravvissuto a un’infanzia
difficile e l’eredità di Grenaldo era considerata una vergogna. La moglie non
aveva mai saputo nulla delle idee politiche del marito. Quando lui scomparve e
poi riapparve sui giornali descritto come un terrorista, lo accettò senza farsi
troppe domande.
Monica Mesut aveva conosciuto il marito in
clandestinità, a Guarulhos, una cittadina nella periferia di São Paulo. Non
sapeva nulla dell’altra sua vita, quella di marinaio. Durante la loro
relazione, de Jesus Silva faceva la guardia giurata nei cantieri dell’impresa
Camargo Correa, dopo un paio di tentativi falliti di mettersi in proprio. Nel
1971 aveva cominciato a ricevere lettere che lo innervosivano. Un giorno uscì
di casa dicendo che sarebbe tornato solo quando avrebbe potuto dare alla
famiglia una vita migliore, ma ricomparve sull’aereo della Varig. Il figlio
aveva quattro anni.
Fino all’età adulta ha saputo solo che il
padre era un “ladro” e “un terrorista”. La famiglia era molto povera, senza
nessuna formazione e con poca istruzione. È cresciuto in un ambiente desolato,
dove mancava tutto, con una madre alcolizzata e uno zio violento. Christina, la
nonna, e Monica, la madre, erano sopravvissute a un altro conflitto. Scappando
dalla Germania dopo la seconda guerra mondiale, Christina aveva trovato una
neonata tra le braccia di una donna morta. Senza latte né cibo, si tagliò un
polso e le diede da bere il suo sangue. Era Monica, la stessa che nel 1972 non
resse alla notizia del marito terrorista e suicida apparsa sulle prime pagine
dei giornali. Credette alla dittatura e a quello che aveva letto. In una
famiglia dal passato già spaventoso, la cancellazione non incontrò nessuna
resistenza.
Quando Grenaldo era ancora bambino, Monica
dimenticò tutto a causa di un ictus, e qualche anno dopo morì. Il nuovo
compagno della donna e lo zio picchiavano la madre e il figlio. Il nome del
padre saltava fuori solo come insulto e anticipava ogni schiaffo: “Prendi,
figlio di un ladro”. Poi, a 35 anni, diventato professore di educazione fisica
e padre di un bambino a sua volta, con il mio articolo scoprì una storia molto
diversa da quella che gli avevano raccontato fino ad allora. Nella pagina in
cui il sergente aveva visto il volto del fantasma che lo tormentava, da Silva
Mesut aveva visto suo padre.
Fissammo un appuntamento in una pizzeria
di São Paulo. Avevo con me molti libri sulla dittatura da dargli ed ero in
apprensione. Come raccontare a un figlio chi era suo padre? Come dargli le
notizie del padre? Per di più, con una storia così lacunosa? Come affrontare
una storia di questa enormità? Con quali parole?
Mi sentivo inadeguata. Arrivai in anticipo
e aspettai. Vidi quell’uomo grande e grosso che si avvicinava con il volto
sconvolto da un misto di paura, speranza e, mi sembrava, richiesta di
compassione. Come se con i suoi occhi sgranati, quasi infantili, mi supplicasse
di andarci piano, perché avevo il potere di distruggere un delicato equilibrio
raggiunto con uno sforzo enorme. Capii che non aveva la minima idea di quello
che stava per ascoltare.
La foto di un bambino
In quel momento Grenaldo Erdmundo da Silva
Mesut cominciò un viaggio alla ricerca di un padre e di un paese. Le due cose
insieme. Quando tornai a casa, ricordo di essermi gettata vestita sul letto ed
essere rimasta così con gli occhi sbarrati guardando il soffitto fino all’alba.
Era accaduta una cosa troppo grande.
Alcuni giorni dopo chiesi un incontro con
da Silva Mesut e il sergente che aveva redatto il rapporto sul padre. Fu una
scena impressionante. Da Silva Mesut cascò sulle ginocchia davanti a José
Barazal Alvarez e quest’ultimo spazzò via un incubo che lo perseguitava da
trent’anni. Piangevano tutti, non avevamo più spazio per contenere
quell’esplosione di vita. È questo l’effetto che fa la memoria, la memoria
negata a così tanta gente.
Barazal Alvarez chiudeva tre decenni in
cui lo aveva visitato un incubo ricorrente: un uomo assassinato, caricato come
un sacco della spazzatura su una Opala nera della dittatura militare. Per da
Silva Mesut cominciavano tante notti agitate, immaginando di essere un
detective in cerca di indizi.
Con l’aiuto di un avvocato, da Silva Mesut
e io trascorremmo settimane e mesi cercando la lettera che gli apparteneva.
Ricordo una notte in particolare in cui le foto dell’indagine militare erano
sparpagliate sul pavimento del soggiorno di casa sua. Le immagini del padre morto,
immagini di sangue, e noi due che cercavamo di mettere ordine in quel macabro
rompicapo. Pensavo: come sopporterà un destino che è venuto a sconvolgere la
sua vita da un giorno all’altro?
Da Silva Mesut aveva – spero che l’abbia
ancora oggi – qualcosa che si può definire una purezza resistente, rimasta
intatta nonostante la sua infanzia molto difficile. È qualcosa che ho visto in
altri sopravvissuti, e lo stava salvando di nuovo. La granata che in teoria il
marinaio aveva con sé durante il sequestro era, secondo l’ex sergente, un
cartoccio da pescivendolo chiuso con un nastro adesivo. Riuscii a trovare
l’ultima persona che lo vide vivo sull’aereo e a provare che fu ucciso. C’erano
testimoni che si ricordavano dello strano caso dell’uomo “suicidato con uno
sparo in testa” e finalmente c’era una prova.
Grenaldo padre è stato riconosciuto come
una delle vittime della dittatura, e oggi il figlio può ricevere un
risarcimento dallo stato. Mesi dopo, da Silva Mesut ha ritrovato anche la nonna
paterna, nello stato del Maranhão, ricucendo i legami perduti con una famiglia
che non sapeva di avere. Abbiamo saputo poi che Grenaldo de Jesus Silva, dopo
aver lasciato la famiglia a Guarulhos, aveva fatto visita alla madre, le aveva
detto che aveva un nipote e le aveva lasciato una foto del bambino. Dietro
c’era scritto: “Ho appena compiuto tre anni, sono un ragazzone. Un giorno
crescerò e visiterò il Maranhão. Naldinho, 9 giugno 1971”.
Più di trent’anni dopo da Silva Mesut è
sbarcato all’aeroporto di São Luis, dove lo aspettava la nonna. Hanno vissuto
un affetto intenso fino alla morte di lei, cercando di rifarsi del tempo rubato
a entrambi. Non siamo invece riusciti a trovare la lettera, e il gesto del
padre non si è compiuto fino in fondo. È sempre tragica una lettera che non
raggiunge il destinatario. Sarà sempre una mancanza che Grenaldo dovrà
sopportare, ma che riempirà con la trama della memoria. Oggi ha una storia da
trasmettere ai suoi figli. C’è un padre e c’è un paese. Ed è con i pezzi
mancanti di entrambi che deve fare i conti.
Dal 16 aprile da Silva Mesut ha anche un
corpo su cui poter piangere. È stato possibile perché in Brasile la democrazia
resiste, nonostante i tentativi di colpo di stato, l’ascesa dell’estrema destra
e la richiesta oscena di dare l’amnistia a coloro che l’8 gennaio 2023 hanno
assaltato i luoghi simbolo della democrazia a Brasília, dopo la vittoria di
Lula.
Poggiare i piedi
Lo stato ha impiegato più di cinquant’anni
per restituire ai familiari di Denis Casemiro e Grenaldo de Jesus Silva un
corpo da vegliare. Il tentativo di cancellazione della memoria è forte e
persistente. Per questo nel 2018 il Brasile ha eletto Jair Bolsonaro, un uomo
che affermava che “la dittatura avrebbe dovuto fucilare 30mila corrotti”,
tranquillo e disinvolto nel dire che le famiglie che oggi piangono sono poche,
dovrebbero essercene trentamila in cerca di corpi, perseguitate dai fantasmi di
torture, omicidi, sparizioni forzate di figli, sorelle, madri, padri. Il
Brasile ha eletto un uomo perverso che ha detto pubblicamente che il suo mito è
uno dei peggiori torturatori della dittatura.
L’identificazione di Grenaldo e Denis è
stata possibile perché l’attuale governo conta su un ministero dei diritti
umani e della cittadinanza e si avvale del lavoro di una commissione speciale
sui morti e desaparecidos politici. Vogliamo molto di più dal terzo mandato di
Lula, ma non ci sfugge la differenza tra un presidente fascista e un presidente
democratico.
Abbiamo due corpi in più con cui ampliare
la nostra memoria. Ricordare è necessario, muove la vita. Durante la cerimonia
del 16 aprile i giornalisti hanno chiesto a Grenaldo Erdmundo da Silva Mesut
cosa avrebbe voluto dire. “Sono ancora alla ricerca di una terra su cui
poggiare i piedi”, ha risposto. Il Brasile, Grenaldo da Silva Mesut, è ancora
alla ricerca di una terra su cui poggiare i piedi. Per questo dobbiamo gridare
insieme: nessuna amnistia per i golpisti di ieri e di oggi.
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