Una strategia della paura che non convince più
1. Dalle crisi alle minacce. Il governo del terrore e la minaccia delle parole
«Siamo in un
mondo che cambia», afferma l’Ue (nell’immaginario orwelliano l’Europa), nella
Comunicazione congiunta proposta il 26 marzo scorso. Ma il cambiamento è
individuato nell’aumento di «rischi e minacce interconnessi», ovvero in un
«panorama della sicurezza sempre più complesso e volatile». La risposta
dell’Ue? «Un approccio coordinato alla preparazione» che garantisca «una
cultura della resilienza in tutta la società». E per chi non avesse capito
bene: «essere pronti a tutti gli scenari peggiori».
Et voilà, la
strategia del terrore è servita.
Dopo le
preoccupazioni suscitate dalle sollecitazioni al riarmo, che molti sembrano
aver sottovalutato perché abbagliati dalla religione di un capo europeo
difensore della pace, ma che altrettanti hanno rifiutato perché basato su
molteplici menzogne, l’Ue sembra avere alzato il tiro con una “Strategia” ben
più ampia che ritesse le fila da lontano, auto-attribuendosi poteri inediti di
elevata rilevanza come la difesa e la “preparazione alla guerra”, nella
disponibilità esclusiva dei singoli Stati.
La tecnica:
agganciare le vicende che da sempre colpiscono l’immaginario dell’umano,
insinuandosi nei timori e nelle paure che le contraddistinguono. Lo strumento:
l’uso e abuso delle parole atte a riattualizzare e mantenere ben vive quelle
paure; l’eliminazione dal lessico pubblico delle parole che invece quelle paure
vogliono sfatare, non per ignorarle ma per agire con sano realismo sulle
ragioni che le determinano.
Crisi e resilienza sono,
ahimè, i termini che la fanno da padrone, confermando una narrazione che già da
anni ne fa i propri cavalli di battaglia per politiche di austerità, di
privatizzazioni e di esaltazione della concorrenza anche tra ordinamenti
giuridici; e stabilizza una volta per tutte il ritorno alla paura e allo
spaesamento quale vera e propria tecnica di governo
. Due
termini, crisi e resilienza, che sono stati
violentati nei loro significati originari, svuotati dei loro contenuti più
preziosi e vitali, trasformati nei vettori fondamentali delle politiche liberalcapitaliste
dell’ultimo trentennio (Gats, Wto, Fiscal Compact, Six Pack, Two pack, ecc.).
Guardare in cosa si è tradotta la resilienza nel Pnrr italiano ne è la conferma
più amara, purtroppo prevedibile fin dai primi passi della ideazione europea
(avulsa da un’analisi seria delle condizioni economico-sociali degli ultimi
vent’anni), e poi nella costruzione del Piano.
Ma nella
Comunicazione europea del 26 marzo vi sono due termini nuovi che compaiono per
la prima volta, e che è facile presumere siano destinati a diventare i nuovi
protagonisti del lessico europeo: preparazione e minacce.
La comparsa
del concetto di preparazione coincide, guarda caso, con la
scomparsa del termine che si era invece affermato nei decenni addietro come
paradigma più idoneo dei processi di costruzione delle politiche: prevenzione.
Preparazione alle crisi vs prevenzione delle crisi. Lo stridore è lampante.
Ma al
concetto di crisi, a quanto pare ormai così tanto abusato da non spaventare più
nessuno, si pensa bene di affiancare quello di rischio e, soprattutto, di minaccia.
Qui lo stridore si fa sinistro. E per convincere che le minacce sono reali si
accostano fenomeni che nessuna testa minimamente pensante avrebbe mai voluto
vedere affiancate con tanta sfacciata disinvoltura. Infine, a svelare una volta
per tutte il vero significato che in molti avevano subodorato e temuto di
fronte ai primi usi politici del termine resilienza, l’Ue dice la
parola-verità: adattamento.
Le persone
devono imparare ad adattarsi.
Fino al
colpo finale e grottesco di questa politica della rassegnazione: il Kit di
sopravvivenza. Da tenere possibilmente sotto il cuscino. Qualunque sia il tipo
di crisi e di minaccia. Che si tratti di un terremoto o di un attacco armato.
Che si tratti di una calamità naturale imprevedibile o di una scelleratezza
umana che si poteva e doveva evitare. Che la minaccia sia la natura o l’uomo,
non fa più differenza, tutto è posto sullo stesso piano. Tutto è legittimato
nella sua possibilità di accadere. L’essere umano è ricondotto a una delle
molteplici forze “esterne” strutturalmente e stabilmente portatrici di rischi e
minacce. Del resto, parlare con finta ingenuità di “crisi provocate dall’uomo”
nasconde il vero protagonista di queste crisi: non l’essere umano genericamente
inteso bensì il potere, un certo tipo di potere. Perché esseri umani sono tanto
quelli che fondano la propria legittimazione sul potere del terrore quanto
quelli che quel potere soffrono sulla propria pelle.
In questa
Strategia dal linguaggio spaventoso, la prima vera minaccia sono le parole. Ma
lo sa molto bene chi ha scritto il documento.
2. I tipi di crisi a cui dovremmo prepararci
Le catastrofi
naturali compaiono non a caso al primo posto: innegabili, spaventose
da sempre, antiche quanto la storia dell’uomo. Inondazioni, incendi, terremoti
ed eventi meteorologici estremi esacerbati dai cambiamenti climatici: alzi la
mano chi non le teme. Sottile e insinuante il richiamo non detto alla comunità
di destino che ci vede tutti legati dall’esposizione all’incerto del vivere.
Peccato che non tutte quelle calamità siano realmente “colpa” della natura
matrigna e che, anche quando naturali lo sono, le politiche umane ne hanno
aggravato i danni in modo esponenziale: quante esondazioni sono causate da una
cementificazione dei suoli e un indebolimento degli argini dei fiumi? Quante
tragedie sono causate da politiche scellerate di governo del territorio? Quali
fratture biografiche ha generato la politica di ricostruzione nel cratere
aquilano? Si potrebbe continuare.
Le catastrofi
provocate dall’uomo compaiono al secondo posto e si limitano a
incidenti industriali, fallimenti tecnologici e pandemie. Innegabili anche
queste, sebbene ognuna ne nasconda altre connesse e non dette. Quanti esseri
umani sono stati vittime reali della pandemia e quanti dei vaccini? Ma dei
secondi non si può dire: fanno parte dei tanti danni invisibili che chissà mai
se si potranno provare e contare, e che la paura indotta dalla narrazione
convenzionale ha confinato nell’ombra, insieme ai contratti miliardari coperti
col segreto di Stato, dalla Ue e da alcuni Stati membri.
Dopo le
catastrofi, dunque, le minacce e le crisi. Le catastrofi accadono e passano,
pur lasciando la scia dei loro effetti nefasti; le minacce e le crisi disegnano
sfondi incombenti duraturi.
Le minacce
ibride sono «attacchi informatici, campagne di disinformazione e
manipolazione delle informazioni e ingerenze straniere e sabotaggio delle
infrastrutture critiche». Di là dall’incomprensibilità del termine “ibrido”,
che sembra ingaggiato sol per rendere più inquietante la minaccia, basti una
domanda per tutte: chi stabilisce cos’è informazione e cosa disinformazione? È
informazione corretta la narrazione dominante? E dove comincia la
manipolazione? Quando le voci dissonanti e le fonti di informazione alternativa
cominciano a diffondersi, la narrazione dominante alza il tiro e grida al
pericolo. È una storia già vista, purtroppo. E non è una bella storia. Tanto
più perché aggravata ora dall’ipocrisia della difesa della democrazia.
Infine lo
spettro più grande, la guerra. Anzi, con linguaggio apparentemente neutro e
raffinato, le crisi geopolitiche, perché parlare di guerra suona a
quanto pare da rozzi. «Conflitti armati, compresa la possibilità di aggressione
armata contro gli Stati membri».
Qui, però,
le ambiguità sfociano nella menzogna. Ma non è, la guerra (o conflitto armato,
che dir si voglia), una catastrofe provocata dall’uomo? Non è la guerra sempre
una scelta? Una scelta sempre folle che nulla ha a che vedere con la
risoluzione di un conflitto bensì con una lotta di potere quale che ne sia il
fattore scatenante (questioni economiche e finanziarie, controllo di risorse
naturali, questioni religiose, territorio, ecc.). A quanto pare no, il
conflitto armato che genera crisi è soltanto quello che i “buoni” subiscono da
parte dei “cattivi”: ne è conferma la frase sibillina che allude alla
possibilità di aggressione armata contro gli Stati membri dell’Ue. E le armi
finanziate e inviate dagli Stati europei (Italia compresa) in Ucraina? E la partecipazione
diretta o indiretta a tutte le guerre dell’ultimo venticinquennio
dell’Occidente collettivo (a guida Usa), il cui elenco sarebbe lungo, che
limitiamo qui all’Afghanistan, l’Iraq, il Kosovo, la Serbia, la Siria e la
Libia?
Quanto
grande può essere la politica fraudolenta della guerra di difesa? Quanto grande
può essere la minaccia falsa di un’aggressione per una politica di riarmo
europeo, tanto più se costruita col dissanguamento delle politiche sociali e
pubbliche? La guerra è un pericolo in sé: ma parlando esplicitamente di “guerra
illegale” a proposito della “aggressione della Russia contro l’Ucraina”, l’Ue
implicitamente ammette l’idea di una guerra legale. La sua, evidentemente. Una
guerra tanto legale che invita appunto i cittadini a “prepararsi” per
affrontarla al meglio; kit di sopravvivenza compreso. Nel fare ciò, ovviamente,
omette le cause risalenti negli anni della guerra in Ucraina tra Occidente e
Russia.
È
stupefacente constatare il triplo salto mortale compiuto dall’istituzione Ue,
non dotata a oggi di una politica estera né di una politica fiscale comune, nel
preparare una guerra nel continente europeo. Si tratta di una innovazione al di
fuori di qualsiasi legittimità democratica, che non può non far pensare a una
almeno parziale eterodirezione atlantica statunitense, nella sua componente
oggi in contrasto con l’attuale inquilino della Casa Bianca: quella stessa
componente, i neoconservatori, che ha in gran parte preparato e realizzato le
guerre sopra citate.
3. I settori chiave della strategia
Previsione e
anticipazione. Se è innegabile l’opportunità di «rafforzare la capacità di
individuare e analizzare i rischi e le minacce emergenti», di «migliorare il
funzionamento dei sistemi di allarme rapido e la capacità di esaminare all’orizzonte
i rischi», come si può ragionevolmente affermare che tali raffinate capacità
possano gestirsi con le stesse strategie e gli stessi strumenti rispetto a
vicende tanto diverse come calamità naturali e guerre? Come può non dirsi che
“anticipare” il rischio di un conflitto armato deve servire soltanto per
evitarlo, ricorrendo a strumenti diplomatici di risoluzione del conflitto
anziché alla “cooperazione civile-militare”, cioè al coordinamento tra autorità
civili e militari?
Cosa ha a
che fare con la resilienza la garanzia delle funzioni vitali della società,
ossia della continuità dei servizi e delle infrastrutture essenziali, tra cui
l’assistenza sanitaria, i trasporti, l’acqua potabile, le telecomunicazioni,
ecc.? Perché le politiche sociali e le garanzie dei diritti fondamentali si
sono trasformate in politiche di emergenza, legate per di più a una lettura
della resilienza in chiave di mera sopravvivenza?
E perché
l’industria sembra invece uscire rinforzata dalle situazioni di crisi, tanto
che una delle sette azioni strategiche consiste nel promuovere la
collaborazione tra il governo e l’industria per migliorare la preparazione? E
perché, allorché si parla della “collaborazione pubblico-privato”, quest’ultimo
si intende riferito alla sola industria? Dov’è finito il profluvio di parole e
di documenti dedicati dall’Ue alla collaborazione fra le istituzioni e i
cittadini europei, e l’enorme patrimonio di innovazione indotto dalla
cooperazione e dalla sussidiarietà orizzontale in vari paesi membri, fra cui
l’Italia? Quali sono le industrie utili? Date le premesse, quelle produttrici
di armi e di vaccini sono al primo posto (per i secondi lo si dice
espressamente, per le prime prevale il pudore ma il riferimento continuo alla
necessità di rafforzare la preparazione militare parla da solo).
Il fatto è
che, ancora una volta, ma ora in termini assai più brutali, si conferma la
regola dei poteri dominanti: nei momenti di crisi e di emergenza non c’è spazio
per la società civile, per i saperi delle persone, per i modelli alternativi di
governo dell’esistenza, per il dissenso, ma neppure per la “democrazia del
suffragio”. E infatti la società compare nell’azione strategica legata alla
nuova parola chiave: preparazione della popolazione e resilienza della società.
I cittadini e le comunità devono essere “responsabilizzati” affinché si
preparino e rispondano alle crisi. Cittadini responsabili e ubbidienti.
Preparati per rispondere in modo consono. Ordinati e composti. La protesta è
uno spreco di energie, che occorre impegnare invece nel comporre il proprio kit
di sopravvivenza. Un kit fra l’altro uguale a quello di tutti gli altri, come
l’allegato si premura di suggerire, indicandone i contenuti consigliati. Non
sia mai che le invidie suscitate dai contenuti più attraenti del kit del vicino
di casa scatenino altri conflitti. Del resto le guerre fra poveri son sempre
esistite. Insomma, la propaganda più bieca e bellicista si tinge di grottesco.
E se la
collaborazione della ben più utile industria non dovesse bastare, l’ultima
strategia prevede la resilienza attraverso partenariati esterni strategici: la
Nato.
Questo
grande quanto orribile “ombrello” strategico non può che condurre all’ultima
azione, che tutte le comprende e che tutte le giustifica: il coordinamento
della risposta alle crisi e un processo decisionale efficace. Anche qui la
stabilizzazione senza più veli di una tecnica di governo che, richiamando
espressamente la «necessità di migliorare la capacità dell’Ue di gestire e
rispondere alle emergenze», rivendica a sé una sovranità che non le appartiene
e una legittimazione che tradisce tutte le conquiste del costituzionalismo del
secondo dopoguerra. E così, tradendo il significato più autentico del termine
emergenza (dal latino e-mergere, sbucare fuori all’improvviso),
questa diviene situazione di normalità: condizione strutturale di sfondo che
contorce e rinnega gli assi portanti del governo democratico, restituendo le
istanze di emancipazione collettiva e di dignità dell’esistenza al tempo buio
della sopravvivenza. I significati più autentici generativi del latino e-mergere e
del greco krisis sono spenti e messi fuori.
Del resto,
non si può negare che le catastrofi e le minacce rendano tutti uguali; sebbene
si tratti di un’eguaglianza al ribasso. L’eguaglianza sostanziale, piedistallo
delle istanze di giustizia sociale che le costituzioni del secondo dopoguerra
avevano abbracciato con slancio e lungimiranza contro il lassez-faire del
liberalismo ottocentesco, torna a ripiegarsi sulla più addomesticabile
eguaglianza formale. Tutti devono essere uguali di fronte alle crisi: i già
svantaggiati per condizioni economiche e sociali non devono subire più danni
degli altri. Ma che bello, che grande consolazione; peccato che sia troppo
amara da mandare giù. «La diseguaglianza è un fattore di rischio per la preparazione»,
e dunque per l’addomesticamento: perché «la preparazione è una responsabilità
collettiva» e tutti devono avere un ruolo, «fin dalla più tenera età».
La lotta
alla diseguaglianza viene finalizzata alla migliore riuscita della strategia
della preparazione. «Le donne e i gruppi in situazione di vulnerabilità, come i
bambini, gli anziani e le persone con disabilità, le persone che conoscono
forme di discriminazione, povertà e/o esclusione sociale, subiscono in modo
sproporzionato gli effetti delle crisi, i quali sono spesso aggravati da
diseguaglianze e svantaggi precedenti». Così, i diritti sociali, già da tempo
degradati al rango di meri bisogni, vengono ora svenduti come argomento di una
propaganda di bassa lega che spaccia per community building (concetto
assai serio e con ben altri obiettivi) un approccio assai più che paternalista.
Nessuno deve restare indietro negli sforzi di preparazione: ma
nella cultura della preparazione inclusiva, a essere realmente incluse sono
soltanto le paure. La self-resilience e la psychological
resilience sono destinate a lasciare le persone sole, ancora più sole
e impaurite di fronte a un fosco orizzonte di minacce permanenti.
Non solo.
L’ulteriore diseguaglianza generata dalla disinformazione e manipolazione delle
informazioni (c.d. Fimi), viene affrontata con una nuova forma di informazione/istruzione
organica sulla preparazione, con tanto di catalogo di metodi e di Linee-guida
agli Stati membri per migliorare l’allenamento alla preparazione.
Funzionale alla formazione di questa nuova “cultura” della preparazione non può
non essere un sistema accessibile e inclusivo di comunicazione delle crisi, sia
prima (risk communication) che durante (crisis communication); e
per rendere diffusivo ed efficace questo sistema dovranno avere un ruolo
fondamentale scuole, insegnanti, giovani lavoratori e formatori, i quali
dovranno farsi promotori di letteratura sul tema delle crisi e del rischio, e
di insegnamenti sulla cittadinanza democratica: «cominciare dalla prima
infanzia a supportare l’acquisizione di nozioni di base sulla preparazione,
come chiave per una cittadinanza attiva e informata. Gli insegnanti avranno
accesso alle risorse e alle opportunità di sviluppo professionale della
Piattaforma europea di Scuola ed educazione».
Ancora, si
prevede la creazione di nuovi organismi non ben identificati (Eecc – Emergency
Respone Coordination Centre; Eogs – Earth Observation Governmental Service),
che inseguono l’accentramento di compiti di controllo più che di governo, di
omologazione più che di dibattito democratico sulle condizioni di vita delle
persone: un decisionismo tecno-finanziario ben poco incline alle dinamiche
democratiche, e anzi perfettamente in linea con le traiettorie
dell’autoritarismo liberale di cui è figlia questa Comunicazione Ue.
E infine il
tema dei costi: «una preparazione robusta non può essere gratuita, ma implica
dei costi». E da dove prendere le risorse? Solidarietà e sussidiarietà vengono
menzionate a sproposito e in termini addirittura offensivi rispetto alla storia
e al sangue versato di chi ha combattuto per ricostruire le società distrutte
nel secondo dopoguerra sui pilastri di una democrazia sociale che guardava al
socialismo. Il riferimento alla necessità di affiancare i corpi militari alle
autorità civili va in senso diametralmente opposto ai percorsi di sussidiarietà
orizzontale, solidarietà e partecipazione politica, economica sociale che si
stanno affermando in modo diffuso nei territori e che dicono No alle
politiche fondate su competizione e guerra proprie dell’autoritarismo liberale.
4. No alla guerra e alla strategia della paura
Il Kit di
sopravvivenza (alla guerra) rappresenta la coda simbolica e grottesca di un
documento politico che rappresenta in realtà un approccio complessivo, una
“filosofia” antidemocratica e autoritaria arrivata alla sua ultima stazione: la
guerra.
Se mai vi
fosse ancora il dubbio sulla natura antidemocratica e autoritaria della Ue,
questo documento ne è la prova lampante. Dopo decenni di soffocamento delle
politiche nazionali figlie del compromesso democratico sociale sorto sulle
ceneri di quell’immane flagello che è stata la Seconda guerra mondiale, dopo
decenni di lavoro ai fianchi degli Stati nazionali fino a far perdere loro le
sembianze di Stato sociale di diritto e restituirli a un liberalismo
ottocentesco in versione tecnocratica e autoritaria, questa Comunicazione della
Ue si rivolge ora direttamente alla società europea, invitandola esplicitamente
ad abbassare la testa e prepararsi alla guerra.
Il
linguaggio usato può fare invidia alla migliore narrativa distopica di Orwell e
Huxley.
Questo
documento disvela una volta per tutte il vero significato attribuito alla
resilienza: sopportare. Guerra compresa. È il più sbalorditivo salto quantico
da parte di questa tecnostruttura che, dalla sua fondazione sino a oggi, non è
stata in grado di costruire un ordinamento democratico e sociale neppure
lontanamente comparabile con quelli nati dopo la Seconda guerra mondiale; anzi,
ha progressivamente affossato questi ultimi.
Adesso, per
un disperato tentativo di darsi una nuova legittimazione, i capi politici della
Ue e degli Stati membri, sconfitti politicamente e sul campo di guerra ucraino,
sembrano giocare il tutto per tutto fino a gettare l’umanità nel baratro di una
guerra nucleare. Questa follia sta prendendo forma mentre gli Stati Uniti, con
la discutibile quanto radicale azione del presidente Trump degli ultimi due
mesi, rinforzata all’inizio di aprile con il Liberation day, stanno
rivoluzionando gli equilibri politici ed economici mondiali; e in cui l’Europa,
malamente rappresentata dall’Unione europea, viene messa fuori gioco dagli
scenari mondiali dominati ancor più da Cina, Russia e Usa.
Gli Stati
europei e la Ue, invece di ripensare anch’essi il loro ruolo e nuove politiche
dopo decenni di azioni fallimentari, si rinchiudono ancora di più nel loro
“piccolo mondo antico” ordoliberale, oramai superato dagli eventi mondiali.
Accelerano, dentro e fuori ciascun paese, in direzione di una stretta
autoritaria verso il dissenso e l’agibilità democratica: vedi il Decreto
sicurezza del governo Meloni, approvato in questi giorni dal Parlamento
italiano forzando oltre ogni decenza procedure e leggi, per prima la
Costituzione. E accelerano verso il riarmo di ogni paese europeo: un riarmo che
in realtà riguarderà essenzialmente la Germania, grazie all’enorme capacità
fiscale, acquisita da questo paese negli ultimi vent’anni di surplus
commerciale vero l’estero, accumulato grazie all’euro e sulle spalle degli
altri paesi europei, tra cui l’Italia. Questa nuova e ancor più cieca
subalternità dei paesi europei si fonda essenzialmente sul riarmo tedesco.
Riarmo, il cui sforzo andrà a sommarsi all’accresciuto costo dell’energia e
alla già alta spesa in armamenti, senza che si riesca a cogliere neppure
l’unica cosa buona che il nuovo inquilino della Casa Bianca sta cercando di
realizzare, ossia la fine della guerra in Ucraina. Più realisti del re questi
riarmisti, e allo stesso tempo legati ottusamente, a filo doppio, a un mondo
che non esiste più perché frantumato dagli Usa: come i giapponesi nelle isole
del Pacifico che vent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale credevano
di continuare la guerra.
Non basterà
lo “zainetto della resilienza” a salvarci da tutto questo. E di certo non sarà
in grado di salvare nessuno: né chi le guerre non le vuole, né chi le guerre le
avrà volute.
Su una cosa
però, bisogna dare ragione al documento dell’Ue sulla “preparazione” alle
minacce: l’orizzonte che abbiamo di fronte è davvero intriso di minacce e fa
paura. Tutto sta nel capire chi è il disegnatore di
quell’orizzonte, chi è l’autore delle menzogne su cui si fonda, di chi sono le
responsabilità delle minacce e del modo di maneggiarle.
La vera
strategia, l’unica possibile, è quella che le persone, una per una e tutte
insieme, di là dalle divisioni che fanno comodo al nuovo autoritarismo
liberale, dovranno mettere in campo collettivamente per opporsi.
Ma per
fortuna il senno popolare è tutt’altro che perso. Le migliaia di persone che
ogni giorno si impegnano nella costruzione di forme alternative di governo del
paese, fondate sui valori democratici di solidarietà e giustizia sociale, e le
altrettante migliaia che stanno scendendo in piazza in questi giorni in tutta
Italia, a spese proprie e di ogni età, lo dimostrano.
Mentre
diminuisce l’affluenza alle urne, a causa di un sistema elettorale che ha
progressivamente drogato il sistema della rappresentanza e della sfiducia
crescente nella qualità della politica, cresce il numero di persone che
decidono di percorrere diversamente i sentieri della sovranità popolare: una
rete fittissima di nuove forme di partecipazione, che, mentre dicono No alle
politiche dominanti della competizione e della guerra, concretamente mettono in
atto i valori che rivendicano. Perché dire No a qualcosa è
sempre, contemporaneamente, dire un Sì a qualcos’altro, come
diceva Albert Camus ne L’uomo in rivolta.
I pezzi di
comunità territoriali che vanno ricostruendosi imbracciando i valori
democratici della Carta del ’48 non sono più isole sparse di resistenza ma
stanno divenendo il tessuto di una trama di rilievo nazionale, omogenea e
convergente nel messaggio che manda. Movimenti territoriali, patti di
collaborazione, comunità educanti, cura condivisa dei beni comuni, imprese di
comunità, e tanto altro ancora, sono oggi gli strumenti di un modo diverso di fare
politica, e di costruire politiche ragionevoli, solidaristiche, vicine ai
bisogni reali.
Le migliaia
di persone che stanno tornando a popolare le piazze colorandole di bandiere, di
striscioni, di cori, di bambini sulle spalle, di vecchi e di giovani, restituiscono
vitalità ai principi stanchi della partecipazione e della solidarietà, e
soprattutto a quella dimensione collettiva che è da sempre sgradita ai poteri
dominanti.
A quanto
pare, la strategia della paura non funziona. O non più.
Le persone
ci sono, stanche, ma ci sono. Dalle piazze ai quartieri, dal Nord al Sud. E
sono pronte a riesumare il calore e l’entusiasmo dei momenti di lotta.
È tempo che
siano altri a cominciare ad aver paura.
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