Dopo la guerra all'autonomia del
sapere scatenata dalle destre nelle settimane scorse, il governo passa alle vie
di fatto: con un decreto che aumenta la precarizzazione e una legge delega che
ridisegna la governance
Un doppio
colpo all’università. Una riforma del precariato, che cancelli i passi avanti
fatti nel 2022 tornando almeno alla Gelmini, se non a un suo peggioramento, da
presentare subito, forse addirittura sotto forma di decreto da convertire in legge
entro l’estate. E una riforma generale dell’università, che riveda governance,
reclutamento, didattica e diritto allo studio, proposta sotto forma di legge
delega in modo da permettere al governo di ridisegnare l’università a proprio
piacimento.
Qualche
settimana fa, su queste pagine, si parlava della guerra culturale scatenata dalla destra, non solo in Italia, contro
l’università, come uno
dei pochissimi luoghi di discussione comune e confronto tra idee rimasto nella
nostra società. Nel giro di pochi giorni, ai primi di giugno, il governo ha
aperto due fronti di conflitto molto concreti e materiali: prima, le anticipazioni fatte filtrare dalla commissione ministeriale sul
precariato guidata
dall’ex rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta, sull’impellente
proposta di revisione al ribasso delle figure contrattuali precarie della
ricerca universitaria rispetto alla parzialmente
migliorativa riforma del 2022; poi, nel consiglio dei ministri di martedì 4 giugno,
il varo del disegno di legge sulla semplificazione normativa, che prevede,
all’articolo 11, una delega ad ampio spettro al governo per riformare l’università. Due fulmini a ciel sereno,
arrivati senza il minimo coinvolgimento della comunità accademica (con la
parziale eccezione della Conferenza dei Rettori, come vedremo) e che entrano a
gamba tesa in una situazione molto delicata: quella di un sistema universitario
mai così pieno di precari (grazie al Pnrr), che difficilmente accetteranno di
buon grado un’ulteriore riduzione delle possibilità di accesso a un contratto
dignitoso. Una bomba a orologeria in attesa di esplodere.
Sullo
sfondo, aleggia lo spettro del ritorno dell’austerità. Negli atenei si sussurra
che la prossima legge di bilancio conterrà un taglio di centinaia di milioni di
euro al Fondo per finanziamento ordinario dell’università. Qualcosa di
paragonabile a quanto fatto dalla legge 133 nel 2008. Anche in quel caso,
riforma e precarizzazione servirono a gestire il governo dei tagli e della
scarsità di risorse.
Il lungo collo di bottiglia
A oltre un
decennio dall’approvazione della riforma Gelmini, la precarizzazione del lavoro
negli atenei italiani ha raggiunto livelli record. Solo contando le figure
principali della ricerca universitaria (e quindi considerando solo docenti,
ricercatori e assegnisti di ricerca, senza includere le altre figure precarie,
come borsisti e docenti a contratto), la quota di precari nel totale del corpo
accademico italiano, che nel 2010 era del 18,5%, nel 2024 è arrivata al 45,32%.
Una cifra, va ripetuto, ampiamente approssimata al ribasso dall’esclusione di
chi non è direttamente responsabile del lavoro di ricerca. Di questi, solo una
parte (meno di quarto) ha una tenure-track, cioè un percorso che,
dopo il conseguimento dell’Abilitazione scientifica nazionale e l’esito di una
valutazione sul lavoro di ricerca e didattica fatto, può portare a una
stabilizzazione come docente di ruolo.
In tutti
questi anni, l’università è rimasta una terra di nessuno in cui non si
applicano le normali regole di diritto del lavoro. Mentre le imprese private,
dopo 3 anni consecutivi di impiego precario, a certe condizioni, sono obbligate
alla stabilizzazione, e mentre la legge Madia del 2015 ha applicato meccanismi
simili anche alla pubblica amministrazione, compresi gli enti pubblici di
ricerca, l’università è rimasta l’eccezione: si può stare per oltre un decennio
a fare lo stesso lavoro, nello stesso dipartimento, con le stesse mansioni (o
con un loro aumento), dimostrando quindi concretamente la natura continuativa
di quel rapporto di lavoro, e non solo l’ateneo avrà comunque il diritto di
mantenere precario il rapporto, qualsiasi meccanismo di stabilizzazione sarà
assolutamente vietato dalla legge. Un’anomalia assoluta nel diritto del lavoro
italiano, che è stata interiorizzata e trasformata in una feroce e radicata
ideologia del «merito», della «mobilità» e della competizione.
A ciò si
aggiunge il fatto che il precariato non è semplicemente un lungo purgatorio da
dover scontare prima della meritata stabilizzazione: si tratta di un processo
costantemente selettivo e competitivo, che a ogni passaggio taglia fuori
qualcuno dai continui colli di bottiglia che si formano. Il problema non è
tanto che si resta precari a lungo, ma che a un certo punto si smette di
esserlo perché si finisce, per carenza di risorse, espulsi dal sistema.
Migliaia di persone in questi anni si sono trovate o a vivere ai margini del lavoro
universitario, attraverso tipologie contrattuali ancora peggiori rispetto
all’assegno (co.co.co., co.co.pro., borse di ricerca, docenze a contratto),
compreso il lavoro gratuito per ingraziarsi l’istituzione in attesa di concorsi
futuri, o a lasciare del tutto il sistema. Un lungo collo di bottiglia, quindi,
che seleziona i pochissimi che arriveranno a un posto di ruolo, mentre gli
altri man mano, pur lavorando, pubblicando, insegnando, spariscono dagli uffici
da un giorno all’altro, cambiano mestiere, cambiano paese, vengono sacrificati
sull’altare della carenza cronica di risorse e, quindi, del numero esiguo di
posti tenure-track banditi.
Due cose
sono intervenute, negli ultimi quattro anni, a migliorare significativamente la
situazione. Prima, nella primavera del 2020, il piano straordinario per il
reclutamento di ricercatori tenure-track messo in campo dal
governo Conte 2 ha fornito le risorse per 5.000 posti: niente rispetto ai 20
mila persi nel decennio precedente, ma di sicuro una boccata d’ossigeno per
atenei strutturalmente a corto di personale (l’Italia ha il terzo rapporto
studenti/docenti più alto d’Europa) e per una parte consistente, seppur
minoritaria, di una generazione di precari. Poi, la riforma varata dal governo
Draghi nell’estate del 2022 è finalmente intervenuta a fare un minimo di
pulizia tra le mille figure precarie proliferate nel post-Gelmini. In
particolare, la riforma del
2022, pur non priva di criticità, aboliva le due principali figure precarie presenti
negli atenei: l’assegno di ricerca, un obbrobrio giuslavoristico senza pari in
Europa, legalmente non assimilato al lavoro dipendente, con un minimo salariale
fermo a 1.417 euro mensili dal 2010, senza orari, ferie, malattia, tredicesima
e contributi se non alla gestione separata Inps; e il ricercatore a tempo
determinato di tipo A (Rtd-a), una figura di ricerca e docenza che condivide
con i professori le mansioni ma non la retribuzione né soprattutto la
stabilità, avendo un contratto di 3 anni + 2, al termine dei quali il rapporto
si chiude.
Al posto
dell’assegno di ricerca, la riforma del 2022 introduceva un «contratto di
ricerca», un vero rapporto di lavoro subordinato, per quanto a tempo
determinato. Un contratto vero, con i contributi, la tredicesima, una
retribuzione demandata alla contrattazione collettiva e una durata minima non
più annuale ma biennale. Insomma, si trasformava l’assegno di ricerca in un
vero contratto di ricerca post-doc come quelli presenti nel resto d’Europa, con
una retribuzione più dignitosa, contributi e tutele, pur mantenendo la
precarietà dell’impiego. Al termine del quale si sarebbe potuto competere per
un posto da ricercatore tenure-track, con la possibilità (in caso
di conseguimento dell’Abilitazione e di valutazione positiva) di diventare
professore associato entro un massimo di 6 anni.
Una riforma
migliorativa, se non risolutiva, la cui principale criticità consisteva
nell’assenza di risorse. Il motivo per cui l’assegno di ricerca è diventato
così popolare nell’università post-Gelmini, infatti, è il fatto che, non
essendo tecnicamente un contratto di lavoro subordinato, è esente da
tassazione, e quindi agli atenei costa pochissimo. Quei 1.400 euro al mese (per
dodici mesi) costano alle università 25 mila euro all’anno, mentre gli oltre
1.500 (per tredici mesi) del nuovo contratto ne sarebbero costati circa 37
mila, tra tasse e contributi. Questo aumento del costo del lavoro è stato al
centro, negli ultimi due anni, di una campagna illusionistica che ha coinvolto
docenti, editorialisti ed è arrivata a strumentalizzare una parte degli stessi
precari, con la logica «se aumentano i costi, diminuiranno i posti». Peccato
per alcune banali verità di fatto: per prima cosa, l’anomalia è l’assegno di
ricerca, esentasse perché non assimilato a un vero contratto di lavoro, a
differenza di quanto avviene in qualsiasi altro paese europeo; in secondo
luogo, l’aumento del costo del lavoro è poco più di un artificio contabile. Se
gran parte della maggiorazione di spesa, infatti, consiste nella tassazione,
cioè in soldi in più che lo stato si trova a incassare dagli atenei, nulla
vieta allo stato di restituire quei soldi agli atenei sotto altra forma,
permettendo quindi di avere le risorse necessarie a non perdere posti di
lavoro.
Ma dietro a
questa cortina fumogena si nasconde una questione ben più seria della partita
di giro contabile tra università e Ministero dell’economia: la natura del
lavoro di ricerca. Il punto è che una parte significativa dell’accademia
italiana (quella che con più facilità accede alla possibilità di scrivere un
editoriale su un grande quotidiano, o alla nomina in una commissione
ministeriale) è convinta che la ricerca vada fatta così: con uno stuolo di
precari senza alcuna prospettiva futura, nel numero quanto più alto possibile,
pagati il meno possibile, con meno diritti possibile, all’interno dei quali
verranno poi selezionati, per scremature successive e spietate, in una specie
di sadica versione intellettuale dei Giochi senza frontiere, i pochi meritevoli
di un contratto e di un salario dignitosi. Un modello la cui efficacia in
termini di qualità del lavoro di ricerca è, come dire, discutibile. E che
soprattutto è materialmente insostenibile per la vita delle persone, che si trovano
sballottate tra un contratto e l’altro fino a oltre i quarant’anni, con la
concreta possibilità (e la probabilità statistica) di essere, in uno di questi
passaggi, espulse dal sistema e costrette a reinventare da zero una nuova
carriera.
Il ritorno del precariato (mai sparito)
La campagna
ha avuto successo. Già la riforma partorita dal governo Draghi permetteva la
possibilità di bandire posti di Rtd-a (formalmente aboliti) per altri tre anni
con la scusa del Pnrr. Il cambio di governo ha poi prodotto successive proroghe
degli assegni di ricerca, mentre in sede di contrattazione collettiva il
governo bloccava l’implementazione del nuovo contratto di ricerca. Lo scorso
autunno, infine, la ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria
Bernini, ha nominato un gruppo di lavoro ministeriale per «formulare proposte
per il riordino, il coordinamento e la razionalizzazione delle norme vigenti in
materia di contratti e di assegni di ricerca»: già dal nome, il rientro dalla
finestra dell’assegno di ricerca era paventato. A coordinarlo, l’ex rettore del
Politecnico di Milano ed ex presidente della Conferenza dei rettori Ferruccio
Resta. Ai primi di giugno, è stata fatta circolare una bozza che, pur
incompleta e non del tutto chiara, realizza le peggiori paure dei precari
dell’università, appesi da due anni alla mancata implementazione di una riforma
già tutt’altro che perfetta.
Il testo, di
neanche due pagine, prevede ben sei figure contrattuali precarie della ricerca
universitaria. La prima è il contratto di ricerca introdotto dalla riforma del
2022, che nel frattempo resta però inutilizzabile data l’indisponibilità del
governo a regolarlo in sede di contrattazione collettiva. La seconda è un nuovo
«contratto post-doc», che ha gli stessi requisiti di accesso (il dottorato), le
stesse mansioni e lo stesso minimo salariale (che però stavolta coincide anche
con il massimo, non essendo prevista contrattazione collettiva) del contratto
di ricerca, ma una durata minore (da 1 a 3 anni invece che da 2 a 6). Un doppione
al ribasso che non può avere altro scopo che quello di limitare fortemente, se
non proprio escludere, l’utilizzo del contratto di ricerca.
La terza e
la quarta figura proposta dal nuovo testo sono gli «assistenti alla ricerca»,
di tipo «junior» o «senior». Contratti di durata variabile da 1 a 3 anni per un
massimo di 6 complessivi (sommando «junior» e «senior»), la cui retribuzione
sarebbe fissata per decreto ministeriale e che potrebbero essere attivati per
chiamata diretta da parte di un docente, senza passare per un concorso. Figure
a dir poco nebulose, su cui aleggia lo spettro della parola «borsista»
utilizzata nel testo, come se si trattasse, analogamente all’attuale assegno di
ricerca, di un istituto che non configura un rapporto di lavoro dipendente. Le
caratteristiche sono esattamente quelle: contratti annuali fino a un massimo di
6 anni, nessuna garanzia, retribuzione fissata dal ministero e non sottoposta a
contrattazione collettiva né indicizzata all’inflazione, assenza di un rapporto
di lavoro subordinato. Difficile pensare che non si tratti dell’assegno di
ricerca che rientra dalla finestra.
La quinta
figura individuata dalla commissione Resta è il «professore aggiunto», una
specie di istituzionalizzazione e generalizzazione delle attuali docenze a
contratto. Gli atenei potrebbero assumere, anche in questo caso per chiamata
diretta, senza alcun concorso, un docente (a tempo determinato, ca va
sans dire), contrattando individualmente la retribuzione, diversamente da
quanto avviene oggi per i docenti universitari di ruolo, che sono a tempo
indeterminato e la cui retribuzione è fissata dalla legge. Un modo per
attirare, strapagandolo, qualche grosso nome dell’accademia internazionale
interessato a passare un periodo in Italia (magari senza perdere affiliazione e
stipendio estero), oppure per assicurarsi uno stuolo di docenti precari a cui
far svolgere compiti di didattica e ricerca senza dover passare per un concorso
e senza offrire loro alcuna prospettiva a medio termine, aprendo la strada alla
differenziazione tra atenei dediti alla ricerca e alla didattica. Infine, la
sesta figura è il «contratto di collaborazione per studenti», che di fatto
estende le attuali collaborazioni retribuite degli studenti (le cosiddette «150
ore») anche al «supporto alla ricerca».
Nel testo è
evidente l’eco del documento redatto dalla Conferenza dei rettori nel 2021, quando lo stesso Resta la
presiedeva. Rispetto alla riforma del 2022, l’unico avanzamento rimasto è la
scomparsa dell’Rtd-a. Ma è poca cosa, di fronte a una tale proliferazione di
figure contrattuali precarie. Le caratteristiche di queste figure sono
tutt’altro che chiare. È impossibile, però, scacciare la sensazione che si
voglia tornare al passato, non solo allungando nuovamente la durata del
precariato, ma soprattutto segmentando e diversificando ruoli e meccanismi
contrattuali, e rischiando quindi di creare una giungla di fattispecie diverse
tra cui ricercatori e ricercatrici sono rimbalzati di anno in anno, con una
miriade di combinazioni e quindi di percorsi possibili. Le probabili
conseguenze in termini di subalternità all’arbitrio del proprio supervisore
(nel caso degli «assistenti alla ricerca» unico responsabile dell’assunzione,
grazie alla chiamata diretta) e di difficoltà di organizzazione collettiva sono
evidenti.
La bomba a orologeria e la riforma misteriosa
L’iter di
questo testo, per ora una semplice bozza neanche sotto forma di articolato, è
tuttora oscuro. C’è chi dice che diventerà un decreto legge a strettissimo
giro, ripercorrendo così l’iter della legge 133 del 2008, quella del maxitaglio
Gelmini-Tremonti all’università, entrata in vigore come decreto a giugno e
convertita in legge ad agosto, prima della riapertura degli atenei. Sarebbe una
forzatura non da poco, riformare il reclutamento senza alcun tipo di
coinvolgimento degli interessati e delle loro rappresentanze e farlo per
decreto, in piena estate. Il precedente del 2008, del resto, non garantisce che
ciò eviti reazioni in termini di protesta. Nel frattempo, proprio in questi
giorni, il parlamento sta nuovamente prorogando la possibilità di bandire gli
assegni di ricerca, formalmente aboliti nel 2022, stavolta fino alla fine del
2024.
La cosa
paradossale, infatti, è che mai sono stati fatti tanti assegni di ricerca e
tanti posti da Rtd-a come nei due anni dal momento in cui queste figure sono
state abolite. I numeri parlano chiaro: gli assegnisti di ricerca, che nel 2008
erano 12 mila e nel 2021 erano diventati 15 mila, a oggi sono oltre 20 mila,
con un aumento di oltre 3.500 unità solo nei primi sei mesi del 2024. Una cosa
simile è avvenuta per gli Rtd-a: nel 2014 erano 3.000, nel 2021 poco più di
5.000 e ora sono oltre 9.000. La causa di questo fenomeno è evidente: il Pnrr.
L’arrivo nelle università di una quota ingente di finanziamenti, tutti di breve
durata (il Piano nazionale di ripresa e resilienza, com’è noto, scadrà nel
2026) e vincolati alle assunzioni a tempo determinato ha provocato
un’esplosione senza precedenti del precariato. Un’abbondanza di opportunità di
lavoro che ha anche avuto effetti positivi (la difficoltà di trovare assegnisti
da reclutare, in alcuni settori, ha finalmente portato all’aumento diffuso
delle loro retribuzioni), ma che ha depositato all’interno delle università
italiane una bomba a orologeria pronta a esplodere quanto questi contratti
finiranno e migliaia di persone si troveranno prive di qualsiasi prospettiva reale
di lavoro.
Contando
solo assegnisti e ricercatori a tempo determinato di tipo A, oggi
nell’università italiana lavorano 37 mila precari. Nel 2008 erano 12 mila, nel
2021 26 mila. Davvero il governo crede che sia una cosa saggia, dopo aver
riempito i propri atenei di personale precario, annunciare un peggioramento
significativo delle loro prospettive? Se dal governo Meloni non ci si attende
una particolare saggezza, stupisce che alla governance universitaria nel suo
complesso (quella che ha animato la commissione Resta, e che per ora non ha
criticato il suo esito) sfugga la delicatezza della situazione.
Se una parte
consistente dell’accademia italiana, evidentemente, concorda con il governo
nella difesa del modello di lavoro di ricerca di cui sopra, sarà difficile che
questa unità resista al secondo colpo all’università annunciato a inizio
giugno. Nelle stesse ore in cui il Ministero per l’università e la ricerca
faceva circolare la bozza prodotta dalla commissione Resta, infatti, il
consiglio dei ministri approvava il testo del disegno di legge sulle
semplificazioni, inserendovi all’articolo 11 una delega ad ampio spettro a
riformare l’università nel suo complesso.
I temi
elencati sono svariati: dalla «governance interna delle università» alle
«procedure di reclutamento dei professori e dei ricercatori», dallo «stato
giuridico ed economico del personale universitario» all’«autonomia didattica
degli atenei», dal «sostegno del diritto allo studio universitario» ad alta
formazione artistica e musicale ed enti pubblici di ricerca. Un elenco
estremamente ampio e generico di temi su cui, se il parlamento approvasse la
legge in questa forma, il governo potrebbe legiferare per decreto nei
successivi due anni. L’assenza di un mandato chiaro e definito pone evidenti dubbi
di costituzionalità a questo testo. Potrebbe anche trattarsi di un ballon
d’essai, lanciato per vedere l’effetto che fa e testare le reazioni del
mondo universitario.
Di certo, la
tempistica è curiosa. Annunciare una riforma dell’università, per quanto un po’
di soppiatto, proprio mentre molti atenei italiani sono occupati o comunque
teatri di proteste studentesche, è una scelta decisamente peculiare, da parte
del governo. Vedremo quali saranno gli effetti. La sensazione è che il
combinato disposto tra il numero enorme di precari e l’attivazione studentesca
(per quanto minoritaria) di queste settimane creino un potenziale di
mobilitazione senza precedenti nel post-Gelmini. Ma tra il potenziale e la
mobilitazione effettiva, ovviamente, passa parecchio. Sarà interessante anche
vedere la reazione del corpo accademico, che sulla solidarietà con la Palestina
ha mostrato parziali ma significative tendenze alla solidarietà con gli
studenti, e la cui compattezza corporativa potrebbe essere messa a dura prova
dalla contemporaneità tra le due riforme.
Sullo sfondo
resta il tema delle risorse. Anche la riforma del 2022, del resto, si fermava
su questo punto, senza indicare una programmazione regolare degli investimenti
sul personale. La migliore riforma del precariato universitario resta, come il
piano straordinario del 2020 ha mostrato, lo stanziamento di fondi specifici
per bandire migliaia di concorsi. Ed è più facile capire perché arrivino,
proprio contemporaneamente e proprio adesso, le due iniziative governative, se
teniamo conto di ciò che si dice, più o meno sottovoce da settimane nei
corridoi delle università italiane: sta tornando l’austerità. Non che se ne sia
mai andata del tutto, beninteso, ma il cambio di clima politico ed economico a
livello europeo, già annunciato da tempo, avrà per forza di cose risvolti molto
reali e concreti nella prossima legge di bilancio. E si sussurra che, senza
molta fantasia, il governo Meloni intenda riprendere da dove l’ultimo governo
Berlusconi, con cui condivide ben 11 ministri, aveva lasciato: dai tagli
all’università. Centinaia di milioni in meno significa nuovi aumenti delle
rette studentesche, significa un nuovo blocco del reclutamento, significa una
nuova fase di espulsione di massa di precari e precarie. In questo contesto,
gli interventi del governo acquisiscono senso. Come tra il 2008 e il 2010, un
governo di destra sceglie le strade della precarizzazione e della riforma della
governance, per blindare la situazione in un contesto di risorse scarse e
guerra di tutti contro tutti per la sopravvivenza. Tra il 2008 e il 2010, quel
tentativo trovo un’opposizione, che fu sconfitta. Chissà cosa succederà
stavolta.
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