È un atto
senza precedenti. Il 29 giugno 2025, ventidue firmatari tra i più autorevoli
rappresentanti delle famiglie colpite dalle stragi mafiose e terroristiche – da
Salvatore Borsellino a Manlio Milani, da Paolo Bolognesi a Rosaria Manzo –
hanno chiesto pubblicamente lo scioglimento e la ricomposizione della
Commissione parlamentare Antimafia. Una dichiarazione di sfiducia formale e
irrevocabile verso un’istituzione che, per decenni, ha incarnato il tentativo
dello Stato di fare luce sulle sue ombre.
La
Commissione, si legge nell’appello, “ha perso la sua credibilità” ed è “svilita
da polemiche inconcludenti”, incapace di rappresentare la richiesta di verità
che proviene dalla parte più colpita e più lucida della memoria pubblica: le
famiglie delle vittime.
Le
contestazioni
Nel mirino
c’è la gestione della presidente Chiara Colosimo, esponente di
Fratelli d’Italia, la cui elezione del 2023 fu già accompagnata da dure
critiche per i suoi rapporti pregressi con figure controverse, come l’ex
terrorista Luigi Ciavardini. La sua conduzione, accusano i firmatari, ha
“impresso un taglio unilaterale ai lavori”, concentrando tutta l’attività
sull’unica pista dell’inchiesta “mafia-appalti”, in una lettura semplificata
che esclude le verità emerse dalle precedenti legislature.
È la stessa
accusa lanciata da ex membri della Commissione come Federico Cafiero De
Raho e Roberto Scarpinato: audizioni selettive, domande
interrotte, un metodo censurante che riduce il lavoro a una narrazione
precostituita. Il cuore dell’accusa è politico e metodologico: la
Commissione deve indagare, non orientare.
L’ombra
lunga di Mario Mori
A rendere la
situazione ancora più esplosiva è il ruolo del generale Mario Mori,
ex capo del Ros, già assolto nella Trattativa Stato-mafia ma oggi nuovamente
indagato dalla procura di Firenze per le stragi del 1993. Le recenti
rivelazioni della trasmissione di Rai3, Report, su intercettazioni
che lo vedrebbero in contatto con componenti della Commissione hanno sollevato
il sospetto che sia lui a orientare i lavori, anche attraverso la
sponsorizzazione di consulenti a lui vicini.
Il timore è
evidente: un soggetto indagato per quelle stesse stragi potrebbe
condizionare le indagini parlamentari che dovrebbero fare luce su di esse.
I familiari chiedono che tutte le intercettazioni vengano acquisite e rese
pubbliche: “trasparenza, per fugare dubbi e illazioni”.
Memorie
contro il revisionismo
L’appello è
anche una denuncia contro un tentativo di revisionismo storico:
quello che punta a ridurre le stragi del biennio ’92-’94 a una vendetta per
un’inchiesta su appalti truccati, cancellando il contesto politico, i
depistaggi di Stato, la Trattativa, i mandanti esterni. Una semplificazione
che, scrivono i firmatari, “impedisce di approfondire le conclusioni condivise
delle legislature precedenti” seguendo i copioni difensivi degli stessi
indagati.
È una
delegittimazione della ricerca parlamentare come strumento di verità
collettiva. È la fine del patto di fiducia tra istituzioni e cittadini.
La
frattura con la società civile
La richiesta
non ha valore giuridico vincolante – nessuna legge prevede lo scioglimento di
una commissione su impulso della società civile – ma ha un peso simbolico
enorme. È un atto politico e morale. È una sfiducia pronunciata da chi
ha incarnato la memoria della Repubblica nei suoi momenti più bui.
Lo dice
chiaramente il Coordinamento nazionale: “Non solo come parte interessata, ma
come cittadini italiani riteniamo che sia giunto il momento di chiedere alla
politica un’assunzione forte di responsabilità”.
O si
cambia, o si chiude
Le richieste
sono nette: nuova composizione, nuovo presidente, nuove garanzie di
imparzialità. Non un rimpasto, ma un ripensamento radicale, per riportare
la Commissione alla sua funzione originaria: indagare il potere, anche quello
più vicino, anche quello che siede in Parlamento.
Se così non
sarà, se la politica continuerà a ignorare questa frattura, il rischio è che la
Commissione Antimafia diventi un guscio vuoto utile solo a rinsaldare
versioni di comodo, con il paradosso di un organo nato per combattere la
mafia diventato un veicolo per nasconderne le complicità.
Questa
volta, non sono le opposizioni a chiederlo. Lo chiedono le voci più
autorevoli della memoria civile italiana. E il loro appello risuona come un
ultimatum alla coscienza istituzionale del Paese.
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