Siamo alla carestia. Non è una metafora. È una condanna a morte pronunciata per fame. Dopo oltre venti mesi di bombardamenti incessanti, di intere città rase al suolo, di ospedali distrutti e campi profughi trasformati in fosse comuni, a Gaza non resta più nulla da annientare se non la carne viva dei sopravvissuti. Ed è quella che oggi si vuole distruggere: con l’assedio, con il calcolo lucido dello sterminio per denutrizione.
Chi ha un briciolo di lucidità morale non può non vedere che siamo di
fronte allo stadio estremo della strategia genocida. La fame non è un effetto
collaterale: è un’arma. Ed è stata concessa, favorita, accettata da tutte le
potenze che in questi mesi hanno predicato la diplomazia, il negoziato, i riti
giuridico-amministrativi. Gli stessi che per mesi hanno recitato l’inetta
illusione dei “due popoli, due stati”, mentre uno dei due – privato dei propri
territori e della possibilità di autodeterminazione - veniva sistematicamente
fatto a pezzi con il pieno contributo delle capitali occidentali. La fame è
oggi il volto più atroce della menzogna liberale.
Eppure, c'è chi ancora si appella al diritto, come se potesse redimere ciò
che ha strutturalmente reso possibile. Chi ha dichiarato “condanniamo il 7
ottobre senza se e senza ma” ha inaugurato, molto spesso consapevolmente, il
terreno morale su cui si è costruita la legittimazione del genocidio. Ha
separato il gesto dalla sua storia, la resistenza dal contesto, la politica
dall’orrore, applicando una sensibilità selettiva alle vittime: tanto assoluta
e totalizzante per quel preciso giorno - sempre richiamato come formula
imprescindibile a premessa di qualsiasi enunciato – quanto anestetizzata, resa
tollerabile nei venti mesi successivi di genocidio dei palestinesi. È questa
ipocrisia ad aver fornito carburante alla ferocia, al disumano. Condannare
“senza se e senza ma” un atto di rivolta e poi restare muti, moderati, di
fronte all’ecatombe sistemica quotidiana, è il crimine morale da cui tutto è
partito.
E non è nemmeno più sufficiente denunciare quest’ipocrisia. Occorre
disarticolarne la struttura, rifiutarne i presupposti. Il genocidio in corso a
Gaza non è un’anomalia del sistema internazionale: ne è l’espressione più
coerente. È il risultato di un ordine giuridico-politico fondato sul potere,
sulla riproduzione dei rapporti di forza, non sull’universalità della
giustizia.
Tutti coloro che oggi parlano di “giustizia futura”, di “tribunali internazionali”,
di “una nuova Norimberga” - persino quelli animati da sincera indignazione -
continuano a muoversi dentro la gabbia ideologica di un ordine che ha già
fallito. È proprio tale ordine che ha reso possibile lo sterminio del popolo
palestinese. È lo stesso diritto internazionale, agito con doppi e tripli
standard, che ha permesso a Israele di godere da sempre dell’impunità
strutturale, garantita nonostante crimini sistematici, documentati, reiterati.
È questo sistema multilaterale che, con le sue assemblee, i suoi consigli, le
sue commissioni, i suoi organismi indipendenti, le sue risoluzioni ignorate, ha
coperto l’assedio, la colonizzazione, l’apartheid.
Non ci sarà nessuna giustizia futura, se continuiamo a concepirla nei
termini di questo paradigma. In definitiva, non ci sarà nessuna Norimberga per
Gaza, perché Gaza non è stata generata dalla rottura dell’ordine
internazionale, ma dal suo funzionamento ordinario. Norimberga fu possibile
perché, dopo la disfatta totale del nazismo, chi vinse volle legittimare un
nuovo ordine mondiale. Oggi, invece, questa “nuova Norimberga” sarebbe
presieduta da alleati, finanziatori, complici dell’accusato. Seduti sul banco
dei giudici - o appostati alle loro spalle - troveremmo gli stessi che hanno
reso materialmente possibile, e politicamente sostenibile, il genocidio. Gaza
non è una falla della civiltà giuridica liberale, è la sua verità nuda, esibita
al mondo.
È tempo di prendere atto che l’intero edificio della legalità liberale -
con la sua retorica dei diritti, dei trattati, della propagandata imparzialità
- è parte integrante della macchina di guerra occidentale. Un dispositivo che
non garantisce protezione ai popoli aggrediti, ma solo legittimità agli
aggressori. Che non previene i genocidi, ma li istituzionalizza. Che non
condanna, ma dilaziona. Del resto, lo scriveva con lucidità lo stesso Walter
Benjamin: non si può criticare il diritto senza smascherare la violenza che lo
istituisce. E quella violenza, oggi, ha un nome preciso: Israele, insieme
all’apparato globale che lo protegge e lo legittima.
La raccolta di firme, gli atti dimostrativi effimeri, le petizioni, i premi
per la pace - spiace dirlo, ma occorre farlo - sono il vezzo di una società
corrotta che ha trasformato il dissenso in performance e la solidarietà in
happening. La nostra indignazione è stata neutralizzata da decenni di rituali
“democratici” senza conseguenze. Non c’è nulla da firmare, nulla da attendere,
nulla da commemorare. C’è solo da disobbedire.
Questa tragedia non appartiene a una futura storiografia: è la soglia
davanti alla quale si misura la possibilità stessa della politica, oggi. O si è
contro questo ordine globale, contro i suoi codici morali, giuridici ed
economici, o si è suoi complici.
La lezione che ci arriva da Gaza non è solo una lezione di resistenza. È
una chiamata all’insurrezione etica e intellettuale contro ogni forma di
pacificazione retorica. È una verità che squarcia la menzogna fondativa
dell’Occidente: l’idea che possa esser sufficiente un sistema di norme e tribunali
per garantire la giustizia e che l’umanità possa convivere con il crimine se
sufficientemente legalizzato, negoziato.
Dunque, Gaza non chiede solidarietà farlocca. Chiede verità. E verità,
oggi, significa dire che l’unica posizione moralmente e politicamente legittima
è il rovesciamento di questo ordine imperiale. Senza se. Senza ma.
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