Chiara Cruciati intervista Chris Hedges
Intervista al corrispondente del New York Times e Premio Pulitzer: «La sua vittoria alle primarie Dem è la prova che le persone sono stanche di questo sistema di potere. Il Bds ha educato un’intera generazione. Richiede tempo, ma funziona»
La natura coloniale del progetto sionista, il rapporto tra Israele e Stati uniti, le mobilitazioni globali e le voci dei palestinesi: il nuovo libro di Chris Hedges, storico corrispondente del New York Times in Medio Oriente e premio Pulitzer, è un viaggio nel passato e nel presente. Un genocidio annunciato. Storie di sopravvivenza e resistenza nella Palestina occupata è uscito due settimane fa per Fazi (18 euro, 240 pagine). Lo abbiamo raggiunto a New York.
Partiamo dal titolo «Un genocidio annunciato». Quanto
accade da 20 mesi non è una sorpresa e lei ne ricostruisce le ragioni: il
colonialismo d’insediamento è il cuore della questione palestinese. Perché
ancora oggi, dopo 77 anni, si fatica a chiamarlo così?
A causa della propaganda senza sosta e degli attacchi
subiti da chi descrive Israele come andrebbe descritto, un progetto di
colonialismo d’insediamento e uno stato di apartheid. Nei college universitari
si viene censurati, si rischia di perdere il posto di lavoro o di essere
espulsi. Ogni movimento che condanna il genocidio è preso di mira con misure
draconiane. Le persone pagano un prezzo alto se tentano di descrivere la realtà
della Palestina storica. Io stesso sono un target: sono stato bandito dai
campus, le mie iniziative sono cancellate, sono stato soggetto a campagne
mediatiche per quello che scrivo da decenni. È una macchina ben oliata.
Nel libro spiega il ruolo che Israele gioca nelle
dinamiche di potere interne agli Stati Uniti. Esiste una percezione di tale
influenza tra le persone?
Da quando il genocidio è iniziato, sempre più persone
sono consapevoli del potere della lobby israeliana e del fatto che il sistema
politico Usa sia definito da una corruzione legalizzata. Hanno molti soldi e li
investono sia per far eleggere persone sia per distruggere i candidati
concorrenti. E così arriviamo a vedere Netanyahu, un criminale di guerra su cui
pesa un mandato d’arresto, ricevere una standing ovation al Congresso. La lobby
israeliana sa muoversi molto bene in questa palude di corruzione che definisce
il sistema politico americano e che riguarda anche l’industria bellica e le
grandi corporation. Anche per questo le primarie Dem che si sono svolte a New
York sono interessanti: la vittoria di Zohran Mamdani è una ribellione vera, è
la prova che le persone sono stanche di questo sistema di potere. I giovani
ebrei si sono allontanati da Israele, sono una parte importante delle
mobilitazioni nei campus. A Israele restano i cristiani fascisti. Dopo 20 mesi
di genocidio la sua immagine è irrevocabilmente danneggiata.
Lei però sostiene che gli interessi strategici di
Stati Uniti e Israele non coincidono.
La lobby israeliana è costruita intorno all’alleanza
con i neoconservatori, soggetti che credono che al di fuori del perimetro degli
Stati uniti esistano barbari che comprendono solo il linguaggio della forza.
L’Iraq l’esempio perfetto. Coprivo l’Iraq negli anni di Saddam Hussein ed era
brutale ma odiava al-Qaeda e non aveva a che fare con l’11 settembre. Ma
Israele voleva distruggere quel paese, sostenitore di lungo corso dei
palestinesi, e ci è riuscito. Lo stesso vale per l’Iran e, prima, per Assad in
Siria. Nei giorni dell’attacco all’Iran si è parlato apertamente di cambio di
regime. Un conflitto assolutamente non necessario, ma Israele lo voleva e
Israele lo ha ottenuto. Gli interessi Usa però non coincidono, anzi Israele ha
provocato molti danni agli Stati uniti: le guerre americane degli ultimi venti
anni sono state tutte una débâcle, i fiaschi militari pesantemente incoraggiati
da Israele hanno accelerato il declino dell’impero americano.
Mobilitazioni nei campus e nelle piazze, campagna
Bds…possono essere davvero efficaci a fronte del sostegno morale, politico e
logistico che i governi occidentali garantiscono a Israele?
La campagna Bds può non aver ottenuto ancora tantissimo
sul fronte dei disinvestimenti, ma ha educato un’intera generazione sul
colonialismo d’insediamento israeliano e sugli effetti sui palestinesi.
Guardiamo al boicottaggio del Sudafrica dell’apartheid: questo tipo di azioni
richiedono un enorme lasso di tempo, ma funzionano. È per questo che il governo
israeliano ne è così spaventato e investe tantissimo nelle contro-campagne.
Nel libro scrive che se Israele riuscirà nell’intento
di distruggere Gaza, segnerà anche la propria fine: i palestinesi diverranno il
sinonimo di Israele, come i turchi lo sono degli armeni e i tedeschi di
namibiani e di ebrei.
Israele è diventato uno stato paria. Data
l’aggressività in Medio Oriente, senza il sostegno statunitense, sarebbe
impossibile per Israele sostenersi anche nel breve periodo. Sta perdendo amici
nel mondo e diverrà sempre più vulnerabile, anche a causa delle fratture
interne. Succede a tutti gli imperi quando i meccanismi usati per il controllo
esterno, i centri di interrogatorio, la polizia militarizzata, le torture,
tutte queste forme di controllo brutale tornano indietro, in patria. Sta già
accadendo negli Stati uniti. Israele è divenuto un paese dispotico, teocratico
e corrotto e sta subendo una fuga di cervelli, centinaia di migliaia di
israeliani laici e istruiti se ne sono andati. La vittoria di Israele è una
vittoria di Pirro.
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